Black Mirror S05: La nostra recensione di una quinta stagione sotto tono

Recensione della quinta stagione della serie Netflix Black Mirror, analizzata episodio per episodio.. siamo di fronte al "canto del cigno" di una delle serie più potenti ed innovative degli ultimi anni?

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a cura di Mattia Ferrari

Difficilmente capita di chiedersi, guardando una serie,
cosa la definisca tale. Di solito ogni prodotto seriale ha una sua identità definita, che mantiene, tra alti e bassi, fino alla sua conclusione. È però più difficile inquadrarla se si tratta di una serie antologica, ma anche in quel caso normalmente vengono rispettati degli stilemi che la rendono immediatamente riconoscibile. A questo punto la domanda sorge spontanea, in maniera quasi fisiologica: cosa rende Black Mirror
sè stessa? Nel corso degli anni molte cose sono cambiate nella serie, che ha iniziato a offrire nuovi spunti di riflessione, diversi rispetto agli inizi, dopo l'acquisizione del brand creato da Charlie Brooker da parte di Netflix.

Le prime due stagioni, trasmesse dall'emittente britannica Channel 4, erano caratterizzate dalla cattiveria delle storie raccontate e dalle loro morali taglienti, con il focus puntato sulla tecnologia e su come ha trasformato - e potrebbe trasformare in futuro - le nostre vite. Spesso in Black Mirror venivano raccontate realtà vicine alla nostra, in futuri prossimi e terribili. Poi è arrivato Netflix e la sua americanizzazione e la serie ha preso una direzione via via più positiva, in cui, spesso, la tematica tecnogica passava in secondo piano. Quindi qual è il vero Black Mirror? Quello degli inizi, cattivo, che non lasciava uno spiraglio di speranza, o quello attuale, più votato alla positività e allo story telling?

La terza e la quarta stagione, entrambe prodotte da Netflix, avevano ancora qualcosa del Black Mirror delle origini, con puntate come Shut up and dance o Black Museum, o, ancora, Crocodile. La quinta ha preso una strada totalmente diversa che sicuramente non sarà gradita ad una fetta importante di pubblico. Paradossalmente è tornata però al caro e vecchio format di tre puntate, che in questo caso sono tre lungometraggi della durata di circa un'ora l'uno.

Striking Vipers

Il primo episodio è un racconto di amicizia in cui il contesto tecnologico diventa più che altro una scusa per narrare la vicenda, che non avrebbe avuto bisogno di un'ora intera per essere sviluppata. Non è certamente la peggior puntata della serie, ma si può facilmente collocare tra quelle non memorabili.

Manca completamente il coraggio di dare allo spettatore qualcosa di nuovo, si cerca di toccare tematiche più che mai attuali, come l'omosessualità e la difficoltà nel renderla come qualcosa di naturale e davvero accettata dalla società, ma senza scavare a fondo, in modo che se ne parli e non se ne parli realmente allo stesso tempo. Gli spunti ci sono, ma vengono sviluppati con pigrizia e l'unico elemento di interesse è il fatto che il protagonista sia interpretato da Anthony Mackie, il Falcon del Marvel Cinematic Universe, che qui regge piuttosto bene il ruolo, mostrando anche una certa bravura.

A risultare pesante e poco digeribile è il ritmo inutilmente lento, con scene ripetute senza costrutto, per sottolineare qualcosa che non avrebbe alcuna necessità di essere ribadito. L'impressione che si ha è che Charlie Brooker, che ha sempre vantato una scrittura brillante e innovativa fin dai tempi del geniale Dead Set, abbia perso il suo caratteristico tocco nei confronti della materia che lui stesso ha creato ormai parecchi anni fa. Come se non bastasse, anche il discorso sulla tecnologia diventa qui prolisso e male architettato, privo della raffinatezza con cui è stato affrontato in passato nella serie e, peggio ancora, già visto in maniera simile in altre puntate.

Senza dubbio è apprezzabile il citazionismo nei confronti dei picchiaduro, con tanto di riferimenti ai vari Tekken e Street Fighter, condensati nel fittizio Striking Vipers nel cui mondo virtuale si rifugiano i protagonisti. Due uomini che devono fare i conti con l'età che avanza e una vita ormai priva di stimoli, sprofondata nel baratro della routine, che trovano un nuovo senso al proprio legame grazie alla realtà virtuale. Purtroppo l'idea di base si disperde in una sequela di situazioni da serie tv per famiglie anni '90, un concetto narrativo troppo datato per poter funzionare come si deve. Alla fine ci si ritrova ad aspettarsi un plot twist tagliente, spregiudicato, ai limiti dell' amara malvagità, che aleggia in più momenti, ma che non arriva mai.

Qui più che mai l'ambientazione americana diventa quasi fastidiosa, condita con tutti gli stereotipi buonisti del caso: mostra i denti, ringhia, ma non azzanna mai la coscienza dello spettatore come invece fa il secondo episodio, decisamente più interessante.

Smithereens

Un titolo che deriva direttamente dall'ambito musicale, rievocando tra le altre cose una band che sicuramente qualcuno conoscerà. Dagli Stati Uniti ci spostiamo a Londra, per fare la conoscenza di Chris, un ragazzo distrutto da un trauma che viene reso manifesto nei primi secondi della puntata. La scelta dell'attore protagonista è ricaduta su Andrew Scott, il James Moriarty della serie Sherlock, semplicemente perfetto nel ruolo di uno psicopatico. Scott è riuscito nell'impresa di portare sullo schermo il profondo disagio del personaggio, il suo dolore intrinseco che sfocia in una follia a tratti lucida, a tratti disperata e pericolosa.

Il messaggio dell'episodio colpisce forte e chiaro: non c'è bisogno di inventare sofisticate apparecchiature tecnologiche che rappresentino un'evoluzione malata della nostra società, abbiamo già tutto quello che ci serve per auto infliggerci punizioni dure e terrificanti. La dipendenza dagli smartphone e, in particolar modo, dai social network, è già di per sé un problema di cui soffre la maggior parte di noi.

Non sono molti gli episodi di Black Mirror ambientati nel presente e questo è tuttavia più angosciante di altri, che prendono luogo in realtà simili alla nostra, ma non del tutto identiche. Forse è per questo che Smithereens è particolarmente attuale. Proprio perché parla direttamente di una distopia tecnologica sotterranea in cui viviamo già, in questo preciso istante.

Ad alcuni sicuramente può non convincere l'apparente banalità della storia, che in realtà è solo semplice, ma raccontata attraverso una narrazione al cardiopalma, che gioca tutto sul montaggio, in particolar modo nel rappresentare le conversazioni telefoniche, che sono l'unico collegamento tra Chris e il mondo esterno, dall'automobile che, da un certo momento in poi, diventa la sua roccaforte, rappresentazione dell'isolamento che si è auto inflitto, di quella volontà autodistruttiva che si è imposto.

Spicca anche Topher Grace in un ruolo chiave che non c'è bisogno di rivelare, ma che è anche fondamentale, in quanto complementare a un personaggio realmente esistente (che diventa qui rappresentazione di un'icona). Nonostante l'episodio sia ottimo, la risoluzione del finale, che può risultare spiazzante per la sua prevedibilità, convince fino ad un certo punto. È apprezzabile l'ambiguità che viene proposta allo spettatore, ignaro burattino nelle mani dello sceneggiatore.

Rachel, Jack and Ashley Too

Con questo finale di stagione, Brooker sembra dirci chiaramente che ormai Black Mirror non abbia più niente da dire. In un certo senso l'episodio tenta una strada coraggiosa: dopo anni di storie, la serie può vantare un microcosmo composito che non è composto solo da tasselli unici, ma intercambiabili, come dimostrano le numerosi citazioni alla serie inserite all'interno della puntata. Si cerca quindi di far capire al pubblico che Black Mirror non ha bisogno di essere identificato in alcuni stilemi precisi, ma si può adattare a qualunque tipo di genere o filone. Sfortunatamente il tentativo fallisce nel momento in cui ci si trova di fronte ad una storia adolescenziale, a tratti assurda e che sembra pensata per un canale per ragazzi come Disney Channel. Non a caso qui Ashley O, la popstar depressa e imbrigliata in una vita che rifiuta, è interpretata da Miley Cyrus.

Potrebbe essere apprezzabile la parabola del personaggio, che sembra quasi un adattamento autobiografico dell'attrice che lo interpreta, ma la spirale di leggerezza ai limiti del ridicolo in cui la storia si inabissa nell'ultima mezz'ora rende tutto un boccone troppo amaro da inghiottire.

Ci sono alcune scene che lasciano emergere la vera natura di Black Mirror, ma è come se qualcuno le avesse cosparse di lustrini è intrise di un'insensata positività che stona in maniera clamorosa con il tono che ha sempre avuto la serie. Insomma, è fin troppo anche per la deriva buonista che Netflix le ha pian piano conferito. Il robottino Ashley Too ne è un chiaro e triste esempio, l'ultima cosa che chi si è affezionato alla creatura di Brooker vorrebbe trovarsi davanti mentre ne guarda un episodio.

Il vero dramma si consuma quando ci si rende conto che Brooker non ha saputo nemmeno evitare più di un buco di trama, cosa che non era mai successa prima. Per quanto si possa essere rimasti perplessi dal modo in cui la serie si è evoluta nel corso degli anni, le storie sono sempre stati coerenti e mai zoppicante, da un punto di vista puramente logico e narrativo. Qui invece le forzature e le incongruenze si sprecano, fino ad arrivare a rendere insopportabilmente frivola e inaccettabile l'intera trama. La ciliegina sulla torta è la mancanza di una reale evoluzione dei personaggi, seppellita da inutili risvolti privi di qualsivoglia senso.

A malincuore bisogna ammettere che con questa stagione si può considerare ormai irrecuperabile una delle serie più geniali degli ultimi dieci anni, un altro prodotto che ha subito, come Game of Thrones, gli effetti di un'eccessiva massificazione che lo ha portato a diventare fruibile anche da quegli spettatori con il palato meno fine. D'altronde sono loro a decretare il vero successo commerciale di un'opera. A farne le spese è sempre il senso artistico.

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