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a cura di Elena Re Garbagnati

L'alto numero di esopianeti finora scoperti è dovuto al grande lavoro dei telescopi spaziali, perché non esistono ancora le tecnologie per esplorare direttamente i pianeti al di fuori del nostro Sistema Solare. Ecco perché gli scienziati sono costretti a cercare quelle che sono note come "firme biologiche", ossia la presenza di una sostanze chimiche o elementi associabili all'esistenza di vita passata o presente.

Secondo un nuovo studio di un team internazionale di ricercatori pubblicato su ArXiv, c'è un possibile modo alternativo, oltre all'analisi delle atmosfere, per trovare queste firme: esaminare il materiale espulso (tecnicamente "ejecta") dalla superficie degli esopianeti durante un impatto cosmico - per esempio con un asteroide.

Rappresentazione artistica di una collisione spaziale

Rappresentazione artistica di una collisione spaziale. Crediti: NASA/Don Davis

Lo studio, intitolato "Searching for biosignatures in exoplanetary impact ejecta", è stato condotto da Gianni Cataldi del Centro di astrobiologia dell'Università di Stoccolma, da scienziati del LESIA-Observatoire de Paris, del Southwest Research Institute (SwRI), del Royal Institute of Technology (KTH) e del Centro europeo di ricerca e tecnologia spaziale (ESA/ESTEC).

La sintesi è che oggi passiamo al setaccio le atmosfere dei pianeti per caratterizzarne le biosfere, cercando segni dei gas noti per essere essenziali per la vita, come anidride carbonica, azoto, ossigeno e acqua. Le stesse tracce di abitabilità si potrebbero cercare nel materiale espulso nello Spazio durante un impatto. Uno dei vantaggi di questo approccio è che il materiale espulso sfugge più facilmente alla gravità tipica dei pianeti rocciosi.

Un approccio non esclude l'altro: secondo Cataldi i due metodi si potrebbero usare in maniera complementare. Come ha spiegato l'autore a Universe Today, "più piccolo è l'esopianeta, più difficile è studiarne l'atmosfera. Tuttavia esopianeti più piccoli producono quantità maggiori di ejecta durante una collisione perché la loro gravità in superficie è più bassa. Questo rende più facile rilevare l'ejecta da un esopianeta più piccolo. In secondo luogo, le firme biologiche nell'ejecta risultanti da un impatto possono includere anche altri minerali oltre alle sostanze di cui andiamo di solito alla ricerca, consentendo quindi di studiare un ulteriore tipo di bio-segnalatore, complementare a quelli presenti in atmosfera". Tecnicamente, se nelle polveri create dall'impatto dovessero trovarsi dei microrganismi, sarebbe persino possibile rilevarli.

Cratere da impatto

Cratere da impatto. Crediti: NASA/JPL-Caltech/Univ. of Arizona

Cataldi e i suoi colleghi sono partiti da questi presupposti e hanno creato dei modelli sfruttando i dati già raccolti da numerosi studi precedenti focalizzati sull'analisi degli impatti tra oggetti cosmici. Hanno così stimato la quantità di ejecta prodotta dalle collisioni con asteroidi e hanno stimato il volume dei dischi di polvere circumstellare creati dall'ejecta.

Il risultato è una stima secondo la quale "l'impatto di un corpo di 20 km di diametro produce abbastanza materiale da essere rilevabile con gli attuali telescopi". Il problema è che i telescopi odierni non sarebbero poi in grado di esaminarne la composizione.

Oltretutto si pongono due problematiche a questo tipo di approccio. Per quanto ne sappiamo il Sistema Solare, ai suoi albori, è stato bombardato da impatti di asteroidi e/o cometari. Molte delle molecole organiche e moltissima acqua sono stati portati sulla Terra, con molta probabilità, proprio dalle comete. Nel caso quindi di un impatto cometario, sarebbe molto complicato distinguere quale materiale sia di origine "locale" e quale provenga invece dalla cometa stessa.

In secondo luogo, un impatto con un asteroide da 20 km di diametro potrebbe causare sconvolgimenti su scala globale, nel caso di un pianeta delle dimensioni della Terra, con serie conseguenze sull'abitabilità del pianeta stesso. Per intenderci, l'asteroide che causò l'estinzione dei dinosauri, aveva un diametro di appena 10 km.

Insomma l'idea è buona e il suo potenziale è molto interessante, ma bisognerà tenerla nel cassetto fino a quando non saranno disponibili strumenti più potenti. Solo allora la combinazione dei due metodi di analisi consentirà di sapere con maggiore certezza se gli esopianeti siano o meno in grado di sostenere la vita.


Tom's Consiglia

Gli esopianeti hanno sempre scatenato la fantasia degli scrittori di fantascienza. Un esempio molto interessante è I reietti dell'altro pianeta di Ursula K. Le Guin.