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a cura di Alessandro Crea

Si fa intricato il caso dei due giornalisti Reuters arrestati in Myanmar lo scorso dicembre e detenuti con l'accusa di aver trafugato documenti statali segreti. Fino ad ora infatti l'accusa era basata sulle affermazioni della Polizia di aver trovato copie dei documenti sugli smartphone stessi, tuttavia nelle scorse re gli avvocati difensori hanno fatto sapere che ci sono alcuni dettagli che non tornano.

A quanto pare infatti alcuni messaggi WhatsApp sarebbero stati inviati da uno degli smartphone quando questi ultimi avrebbero già dovuto essere in custodia da aprte delle forze di polizia del Myanmar. Se così non fosse gli smartphone non erano al sicuro, potevano essere manipolati da chiunque e dunque i documenti potrebbero essere stati caricati in un secondo momento e non dai giornalisti.

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Una tesi del resto sposata anche dal Capo della Polizia Moe Yan Naing, che secondo il Governo del Myanmar sarebbe stato arrestato contemporaneamente ai due poliziotti in quanto coinvolto nel caso. Lo scorso mese infatti l'ufficiale avrebbe testimoniato, sostenendo che un altro ufficiale anziano avrebbe ordinato di mettere i documenti sugli smartphone, per incastrare i giornalisti. Sullo sfondo la delicata questione dei Rohingya, minoranza etnica di fede musulmana non riconosciuta e perseguitata dal Governo centrale, sulla quale i due reporter stavano indagando.

Le Nazioni Unite, molti Paesi occidentali e diverse associazioni di attivisti per i diritti umani hanno chiesto già da tempo la liberazione dei due giornalisti della Reuters, per il momento senza successo. Che la tecnologia possa essere la chiave di volta di questo complesso e delicato caso?