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a cura di Valerio Porcu

Senior Editor

Esistono modelli di blockchain a cui si potrebbe guardare per prendere ispirazione (STEEM, di cui abbiamo parlato, Userfeeds, Civil e altri). Sono sistemi interessanti ma al momento non esiste un modello che possa anche lontanamente intaccare l'industria dei social media. Sono idee appena nate, in divenire, incomparabili al peso di Facebook; embrioni che saranno maturi tra, forse, un paio d'anni. Suggeriscono però alcune novità interessanti: potremmo per esempio firmare uno smart contract per autorizzare esplicitamente una certa rete pubblicitaria a usare i nostri dati per mostrarci annunci.

Le proprietà di trasparenza e tracciabilità potrebbero sicuramente anche aiutare a tracciare e isolare le fake news: inserendo la fonte nelle blockchain, infatti, si potrebbe risalire all'origine di un articolo velocemente e con poco sforzo, e quindi sarebbe anche più semplice determinare se è autentico. Così facendo non metteremmo a rischio la libertà di espressione, come accade invece affidando a un controllo centrale la responsabilità di decidere cosa censurare. Che è più o meno ciò che facciamo se affidiamo a Facebook il compito di scovare e bloccare le fake news - compito che finora l'azienda ha schivato, e si può capire perché.

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Avremmo però da affrontare la questione dei limiti tecnici. Se il traffico di dati di Facebook fosse affidato a una Blockchain, infatti, ci troveremmo con una mole di dati gargantuesca e un numero di transazioni al secondo pantagruelico. Per come funziona blockchain oggi, non funzionerebbe: immaginate di condividere questo articolo sul vostro Facebook, e dover aspettare due ore prima che l'azione sia completa. Irritante no?

C'è poi il problema di una "vera democrazia" nella piattaforma. I modelli citati tendono a premiare chi possiede il maggior numero di token, vale a dire i più ricchi e quelli che sono entrati per primi. Queste persone hanno un peso maggiore sulla direzione del progetto e sulle decisioni da prendere. Applicato ai social media, avremmo delle bolle (camere dell'eco) formate non da aree politiche, ma da possessori di token. Dal punto di vista delle fake news, saremmo punto e a capo.

Infine la privacy non sarebbe protetta meglio. Se i dati sono dentro una blockchain possiamo sicuramente tracciarne i movimenti. E sarebbe molto difficile "estrarli" per usarli in modo illecito come ha fatto Cambride Analytica. Resterebbero però possibili azioni di data mining sui vari siti, così come sarebbe possibile applicare algoritmi di analisi ai dati esistenti, andando a replicare quanto è successo con CA. In altre parole, usare blockchain non ci metterebbe al riparo da un'altra Cambridge Analytica. Nemmeno un po'.

"Questo perché anche se blockchain è ottima per la correttezza e la trasparenza, fallisce in ambito privacy", si legge sul blog del Progetto Enigma. I dati presenti (Mi Piace, amici, connessioni, etc), sarebbero facilmente accessibili, come abbiamo accennato. E una protezione maggiore, con crittografia, peggiorerebbe ancora le prestazioni.

La risposta di cui abbiamo bisogno è dunque un protocollo di privacy digitale che includa blockchain, ma che non vi si potrà affidare completamente. Usando sistemi di crittografia avanzati potremmo ottenere ciò che vogliamo affidandoci a una disciplina dell'informatica nota come secure computation. Che è un po' ciò che vogliono fare quelli del citato Progetto Enigma, sul quale varrà la pena di tornare se e quando faranno progressi.

L'idea di un tale protocollo ci rimanda al problema delle prestazioni: la rete di dispositivi esistente al mondo potrebbe reggere un carico del genere, offrendo la velocità a cui siamo abituati. A oggi la risposta è no, e probabilmente a breve termine le cose non cambieranno. Mai dire mai però; la potenza hardware non fa che crescere, e chissà che entro una decina d'anni una strada del genere non diventi percorribile.