Stentrode, l'impianto neurale endovascolare che ridà la parola a chi è paralizzato

Stentrode è un innovativo chip neurale che, fungendo da interfaccia tra il cervello e il PC, consente a chi è paralizzato di tornare a esprimersi, controllando la scrittura tramite pensiero.

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a cura di Alessandro Crea

Stentrode è un chip neurale, una minuscola interfaccia cervello-PC della lunghezza di 3 cm, che può essere introdotto nel nostro corpo senza bisogno di intervento chirurgico, tramite la vena giugulare, per consentire a chi è paralizzato di riprendere a esprimersi tramite il controllo mentale della scrittura su computer. Non è fantascienza, ma (quasi) la realtà. L'azienda che ha sviluppato la soluzione, Synchron, ha infatti appena ottenuto il permesso di passare alla sperimentazione umana.

Nei prossimi mesi cinque volontari con paralisi alla bocca o alle mani si faranno introdurre Stentrode nel collo come Jena Plissken in 1997 Fuga da New York ma prima di iniziare la sperimentazione vera e propria ci sono ancora diversi passi da compiere.

Anzitutto ‎i potenziali partecipanti saranno sottoposti a diverse scansioni cerebrali, poi i loro casi saranno sottoposti alla valutazione di un neurologo per assicurarsi che possano effettivamente beneficiare dell'uso di Stentrode e che i loro vasi sanguigni siano in buono stato e possano quindi accogliere il dispositivo – simile a uno stent attuale. Infine i prescelti dovranno iniziare un percorso di formazione che li porterà a usare il dispositivo e il relativo software per generare il testo tramite i propri pensieri.

Synchron ha anche aggiunto di aver già approntato dei protocolli di sicurezza per la raccolta dei dati cerebrali e di non aver alcuna intenzione per il presente o progetti per il futuro di utilizzarli in qualche modo. Questo però non significa che in futuro Stentrode non possa avere ulteriori sviluppi, sebbene nel proprio settore. Non è difficile ad esempio immaginare che possa interfacciarsi con un esoscheletro o, in un futuro ancora più remoto, con attuatori muscolari, per restituire così ai pazienti immobilizzati la capacità di deambulare autonomamente.

Questi sviluppi però richiederanno tempo, non solo per raggiungere il livello tecnologico richiesto per implementazioni di questo tipo, ma perché, come giustamente evidenziato dal CEO di Synchron ai colleghi di Futurism, un impiego del genere richiederà anche evoluzioni dal punto di vista giuridico ed etico: se infatti un arto robotico dovesse compiere un'azione sbagliata, causando danni a terzi, sarà necessario stabilire di chi sia la colpa, del costruttore, di chi ha realizzato l'hardware e il software di interfacciamento o del paziente?

Come si farà a stabilire che quest'ultimo avesse davvero intenzione di fare del male e non sia invece colpa di un'errata "traduzione" del suo pensiero? Sono scenari particolarmente complessi, che però al momento sono anche molto distanti. Nel frattempo già recuperare la possibilità di esprimersi sarebbe un notevole passo in avanti per chi si ritrova prigioniero del proprio corpo.