Uranio dall'acqua di mare, fonte per l'energia del futuro?

I ricercatori della Stanford University hanno messo a punto un sistema pratico per estrarre l'uranio dall'acqua di mare. Potrebbe essere questa la soluzione per aiutare anche chi non possiede miniere di uranio a entrare in un futuro senza carburanti fossili.

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a cura di Alessandro Crea

Uranio dall'acqua di mare: potrebbe essere questa la soluzione per portare il mondo definitivamente in un'era in cui la produzione di energia non dipende più dai combustibili organici come il petrolio o il carbone. Certo, le energie rinnovabili, come quella solare o eolica, sono molto meno pericolose ma purtroppo, almeno allo stato attuale delle tecnologie, non sono particolarmente efficienti. Il nucleare resta quindi l'alternativa principale ai combustibili fossili. Ma come fa chi non possiede direttamente giacimenti di uranio? Grazie a uno studio della Stanford University potrebbe essere possibile estrarne dall'acqua di mare.

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L'idea in sé non è nuova, ma i ricercatori avrebbero trovato un modo più efficiente per farlo, che consentirebbe di estrarre quantità maggiori in minor tempo. "Le concentrazioni sono minime, nell'ordine di un singolo granello di sale dissolto in un litro d'acqua", ha spiegato Yi Cui, co-autore della ricerca pubblicata su Nature Energy. "Gli oceani però sono così vasti che se potessimo estrarre queste quantità a un costo vantaggioso, la fornitura sarebbe virtualmente infinita".

Da tempo gli scienziati sanno che l'uranio dissolto nell'acqua di mare si combina all'ossigeno formando ioni uranile con carica positiva. Estrarre questi ioni comporta l'immersione in mare di fibre plastiche al cui interno c'è un composto chiamato amidossime a cui gli ioni si legano. Quando le fibre sono sature la plastica sarà trattata chimicamente per liberare gli ioni di uranile che dovranno poi essere trattati per poter essere impiegati nelle centrali, esattamente come l'uranio proveniente dai giacimenti terrestri.

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Steven Chu

Quanto sia pratico questo metodo dipende essenzialmente da tre fattori: ‎quanto uranile si lega alle fibre, quanto velocemente si possono catturare gli ioni e quante volte le fibre possono essere riutilizzate.‎ La chiave è stata la realizzazione di una fibra ibrida a base di carbonio e amidossime le cui proprietà possono essere modificate tramite impulsi elettrici, in modo da consentire di raccogliere più ioni di uranile a parità di tempo impiegato.‎ Le fibre inoltre possono raccogliere 9 volte la quantità di uranile di quelle utilizzate fino ad ora senza saturarsi ed hanno una vita media tre volte superiore.

Steven Chu, co-autore dello studio e premio Nobel per la fisica, ci ha tenuto comunque a sottolineare che questa ricerca dovrebbe procedere di pari passo con lo sviluppo di soluzioni per la sicurezza e per il corretto smaltimento delle scorie radioattive.