Il Consiglio di Stato boccia la normativa sulla copia privata

Il Decreto che norma le tariffe applicate alle memorie di massa e ai supporti di storage è stato annullato con una sentenza che ne evidenzia le molte distorsioni.

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a cura di Dario Orlandi

Lo scorso 3 febbraio il Consiglio di Stato ha annullato il Decreto del Ministro per i Beni e le Attività Culturali che aveva come oggetto le “Esenzioni dal versamento del compenso per la riproduzione privata di fonogrammi e videogrammi” e il seguente Decreto attuativo del Direttore Generale Biblioteche e Istituti Culturali.

Uscendo dal gergo legale, il Consiglio di Stato ha bocciato il decreto la norma che gestiva il compenso per la copia privata, ossia la tariffa che viene applicata su tutti i sistemi di memorizzazione utilizzabili per la copia di opere coperte da diritto d’autore, come album musicali e film.

La norma prevede un tariffario che dipende dalla capienza e interessa una grande varietà di categorie: oltre ai Cd e ai Dvd vergini, si applica anche (tra gli altri) ad hard disk, pen drive Usb, memorie flash, smartphone, tablet e computer.

Incaricata della riscossione è la Siae, che nel 2021 ha messo a bilancio più di 147milioni di euro per questa attività, pari a quasi un quarto (24,6%) del fatturato complessivo.

Abbiamo chiesto lumi sulla sentenza e sulle sue ricadute a Mario Pissetti, presidente dell’ASMI - Associazione Supporti e Sistemi Multimediali Italiana, associazione di categoria che raccoglie molti produttori e distributori di supporti e sistemi di storage, da molti anni in prima linea contro l’impostazione e il contenuto di questa norma.

Una norma distorsiva

La formulazione attuale della norma sulla copia privata ha diversi effetti distorsivi: prima fra tutte è la gestione pratica di tutti i casi in cui la tariffa non è dovuta, cioè in tutti gli acquisti effettuati da aziende, enti e professionisti.

Siae richiede la presentazione una notevole mole di documentazione da parte del venditore per certificare l’effettiva destinazione professionale dei beni, ma soprattutto si riserva di rispondere (positivamente o negativamente) entro 180 giorni, tempistiche incompatibili con il business e con i margini spesso risicati con cui lavorano le aziende.

In alternativa, l’azienda può presentare le richieste anche dopo aver concluso la vendita, con il rischio però di trovarsi in una posizione sgradevole qualora poi la pratica non venga accolta.

C’è poi un problema quantitativo: le tariffe molto elevate incidono in maniera sproporzionata sui costi di alcuni prodotti: basti pensare che un hard disk da 2 Tbyte vede applicata una tariffa da 25 euro a un prodotto che attualmente ha un costo complessivo paragonabile.

Le enormi differenze di prezzo riscontrabili sul mercato dipendono anche dalla frequente evasione della tariffa, favorita da controlli quasi inesistenti e non troppo approfonditi: l’ufficio Siae che gestisce la riscossione conta infatti un organico di cinque persone.

Il risultato di questa situazione è un peso economico e burocratico difficile da sostenere per le aziende che vogliono lavorare nel rispetto delle normative vigenti, e che vedono poi le loro quote di mercato erose da una concorrenza che approfitta della sostanziale impunità.

Ripartire dal via

Siamo dunque arrivati a un punto di svolta? Probabilmente no. I decreti annullati dal Consiglio di Stato (emanati nel 2019) sono stati già superati da un ulteriore provvedimento, risalente al 30 giugno 2020, che mantiene inalterata l’impostazione della norma e si limita ad aggiornare (rincarandole) le tariffe in vigore.

Questo decreto (e il susseguente decreto attuativo) sono stati a loro volta impugnati dall’Asmi e attualmente si attende una pronuncia del Tar del Lazio; qualora questo tribunale non dovesse offrire soddisfazione, i ricorrenti potranno presentarsi nuovamente di fronte al Consiglio di Stato, in un percorso che potrebbe richiedere ancora molto tempo: nel caso del decreto 2019 sono passati circa quattro anni dalla promulgazione all’annullamento.

In questo quadro si inserisce l’imminente scadenza del decreto 2020: in teoria, infatti, queste norme hanno durata triennale, dopodiché dovrebbero essere riviste e ridiscusse dopo aver consultato tutte le parti interessate, tra cui le associazioni di categoria.

La scadenza in realtà soltanto teorica, perché in passato è già accaduto che il decreto non fosse aggiornato per ben sei anni. Ma potrebbe anche capitare che il Ministero sforni un ulteriore decreto fotocopia, rendendo nei fatti inefficace la sentenza del Consiglio di Stato.