Dal cinema horror anni ’70 a oggi: l’evoluzione della paura

Dal cinema horror anni '70 alle nuove innovazioni cinematografiche: un nuovo appuntamento con l'orrore e la sua evoluzione filmica.

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a cura di Rossana Barbagallo

Il cinema horror sembra essere un’inestinguibile fonte di spunti e idee: una vera fucina della paura. Dagli approcci delle origini ai nuovi linguaggi odierni, ha visto la luce tutto un ventaglio di sottogeneri, ibridi, nuove sperimentazioni, che hanno dato vita a veri e propri cult o filoni da cui attingere ancora oggi. Dal cinema horror anni ’70 a quello attuale la storia del genere è fatta di evoluzione, ma anche di ritorni alle origini per mezzo di tecnologie che, oggigiorno, permettono di riproporre narrazioni classiche con mezzi tecnici visivi più realistici (con effetti, grazie a questo, più spaventosi). Proseguiamo allora il nostro excursus attraverso il percorso compiuto finora dal cinema horror.

Dal cinema horror anni ’70 a quello odierno: l’evoluzione della paura

I cult anni ’60 (e il ruolo dell’Italia)

Nel nostro ultimo appuntamento con l’orrore cinematografico, ci eravamo accomiatati con le produzioni che possono ricadere nel sottogenere dell’horror psicologico che si è innestato negli anni ’60. Nello stesso periodo, tuttavia, fanno la loro comparsa in scena alcuni titoli che si distinguono per la loro originalità, le soluzioni narrative e visive e per il loro caratteristico “salto” al di là di uno steccato entro cui ancora sembrano imporsi determinati parametri. Con l’avvicinarci al decennio dei sixties abbiamo, ad esempio, L’Esperimento del Dottor K.: film horror fantascientifico di Kurt Neumann che, con il senso di ribrezzo causato dall'angosciosa metamorfosi in mosca e lo schiacciante senso di terrore dato dall'impossibilità di porre rimedio all'esperimento fallito, ispirerà David Cronenberg nel 1986 nel produrre un magnifico remake probabilmente ancora più terrificante, La Mosca. Già nel suo decennio, comunque, L’Esperimento del Dottor K. si trova un gradino sopra i film coevi grazie ad espedienti visivi che fanno scuola: l’urlo della protagonista, Hélène, visto dalla prospettiva degli occhi della mosca come un caleidoscopio di immagini ripetute più e più volte; o lo spaventoso incedere del ragno verso la mosca dalla testa umana, che urla invano nella sua trappola.

Sul finire del decennio esplode poi una pellicola che, non solo ottiene un eccellente riscontro al botteghino (con oltre 18 milioni di dollari incassati), ma fa anche la fortuna del suo regista e apre le danze verso un sottogenere del cinema horror che ancora oggi è ampiamente proposto e rivisitato. Nel 1968 esce infatti La Notte dei Morti Viventi, di George A. Romero, prima pellicola sugli zombie a generare un vero e proprio filone nonostante in precedenza siano già stati prodotti numerosi titoli con protagonisti i morti che camminano. Romero scrive e dirige La Notte dei Morti Viventi e si occupa tanto della fotografia quanto della colonna sonora, in questa sua prima pellicola in cui gli zombie compongono terrificanti orde affamate di carne umana, capaci di infettare gli esseri viventi rendendoli così morti-viventi. Macabro e sovversivo, il film di Romero rompe gli schemi con un approccio più splatter che genera scene sanguinose (fortemente condannate all'epoca, benché vi siano già esperimenti cinematografici in tal senso), ma anche con una critica alla società americana che risulta piuttosto evidente.

In pieno 1968, in un clima di malcontento generale verso le istituzioni statunitensi, ciò che spaventa di più gli americani (e li perseguiterà ancora per molti decenni a venire) è la Guerra del Vietnam. Il conflitto prosegue infatti da diversi anni, il popolo occidentale ha constatato a proprie spese che Charlie non fa surf e nel difendere la propria identità e i suoi territori sta distruggendo le truppe americane nel corpo e nell'animo. La Notte dei Morti Viventi non contiene alcun riferimento a un evento tanto devastante, ma ne rappresenta una metafora, trasla gli orrori della guerra su un versante immaginario e immaginifico che, attraverso le figure degli zombie, di individui senza più un’individualità come gli eserciti che si contendono ideali inculcati loro da altri, sembra chiedere alle istituzioni in frantumi: “quanto ancora dovrà andare avanti questo massacro?”. Attraverso la figura di Ben, il protagonista afroamericano del film, George A. Romero si spinge poi ancora più in profondità nelle crepe della società americana, nel mostrare il volto ancora fortemente razzista e intollerante di una cultura che invece si batte il petto nel proclamare libertà e democrazia. L’atteggiamento degli altri protagonisti verso Ben e la sua sorte finale (non per mano degli zombie), sono un’amara constatazione su quanta poca strada sia stata fatta dagli omicidi di Malcolm X e Martin Luther King e quanta ancora bisogna farne.

Intanto anche l'Italia dimostra di saper cavalcare l'onda del genere horror e, sempre nel decennio in questione, un regista tra tutti si destreggia nel portare al cinema alcuni film che faranno la storia. Si tratta di Mario Bava, che nel 1960 esordisce con La Maschera del Demonio: un "ritorno alle origini" ispirato dalle produzioni della Hammer Horror, ma più audace tanto nei contenuti quanto nelle tecniche adoperate. Bava infatti porta in scena la resurrezione di una strega moldava che era stata uccisa secoli prima e che al suo risveglio reclama vendetta (qui impersonata da quella Barbara Steele che diventerà una vera diva horror), adattando però i nuovi linguaggi cinematografici al setting gotico. Piani sequenza, primi piani su dettagli "splatter", una certa dose di necrofilia modellata sulla carica erotica data dalla protagonista: il regista crea una pietra miliare per il cinema horror italiano, diventando punto di riferimento per titoli futuri di grande successo anche sul versante internazionale. È il caso ad esempio del suo Terrore nello Spazio, del 1965, che ispirerà alcuni anni più tardi il terrificante quanto indimenticabile Alien di Ridley Scott: nonostante la pellicola venga prodotta con un budget irrisorio, Mario Bava utilizza ancora una volta escamotage visivi che istillano il terrore attraverso atmosfere aliene e minacciose da cui l'uomo non riesce ad aver scampo.

Il cinema horror anni '70

Lo spartiacque che determina il fiorire di una nuova visione dell'orrore è quello rappresentato dal cinema horror anni '70. Se nel periodo appena trascorso sono ancora forti gli echi di un cinema seminale caratterizzato dall'influenza gotica, con l'ingresso in questo nuovo decennio la musica cambia. Nei nuovi paradigmi che sorgono, il personaggio del mostro dalle radici letterarie e folkloristiche viene detronizzato, l'orrore non risiede più in antichi castelli o villaggi europei ed è più vicino a noi e alla nostra vita quotidiana di quel che crediamo. A segnare la sensibilità di registi e sceneggiatori di quest'epoca non è però solo l'aver imparato dai classici, per poi metterli da parte in favore di una narrativa più originale e intrepida, ma anche le paure e le ansie maturate in seguito a fatti di cronaca reali o del clima socio-politico che ha cambiato irrimediabilmente la percezione causando pessimismo e sfiducia.

I temi dell'occulto e del demoniaco, ad esempio, fanno inevitabilmente il loro ingresso anche al cinema e sono capaci di sfornare orrori indicibili, grazie alla presenza di presenze ineffabili e impalpabili che tuttavia si infiltrano come orribili parassiti nelle vite altrui. È in questo periodo infatti che passano agli onori della cronaca le notizie riguardanti il sorgere di sette sataniche o dedite a culti misteriosi e sinistri (basti pensare alla setta di Charles Manson), che alimentano sceneggiature basate sull'associazione a determinati gruppi e ideali malvagi: è questo il caso, ad esempio, di Rosemary’s Baby, del 1968. Tuttavia anche la letteratura contribuisce ad ampliare la visuale su certi argomenti con romanzi che destabilizzano il pubblico per sempre, come L’Esorcista di William Peter Blatty pubblicato nel 1971. Da quest’ultimo viene tratto un film che nel 1973 fa riconsiderare a molti spettatori di rimettere piede al cinema: si tratta dell’omonima pellicola diretta da William Friedkin (in collaborazione con Blatty per la sceneggiatura), quel L’Esorcista che causa svenimenti, crisi epilettiche o isterie generali in sala, tanto da costringere diversi paesi a censurare alcune scene o a non proiettare per nulla il film. L’idea che Satana possa essere tra noi, insinuarsi addirittura nei nostri corpi sfigurandoli e costringendoci ad atti atroci, diventa un caposaldo dell’orrore e il lungometraggio di Friedkin è in grado di dar vita al filone dei film sulle possessioni demoniache che ancora oggi viene rimpolpato da titoli piuttosto spaventosi.

Il volto del cinema horror anni ’70 cambia per sempre, poiché il male puro da cui secoli di religione cristiana ci hanno messi in guardia viene impresso per la prima volta su pellicola in tutta la sua blasfema sete di rovina e sofferenza. Ma davvero il male può arrivare soltanto dalle infiammate viscere dell’inferno? Gli anni della soffocante Guerra del Vietnam non hanno solo devastato interi eserciti americani, ma anche gli animi di chi è riuscito a tornare con traumi incancellabili e della società statunitense tutta, che ha perso fiducia tanto nelle istituzioni, quanto nel prossimo. I disturbi da stress post-traumatico dilagano, il morale è ai minimi storici e il sotterraneo ma palpabile smarrimento dei giovani i cui ideali di pace sono stati distrutti, striscia tra la popolazione. Sarà forse per questo che sorgono titoli sui generis come L’Ultima Casa a Sinistra, di Wes Craven, o Non Aprite Quella Porta, di Tobe Hooper? Il 1972 e il 1975 segnano l’avvio di un nuovo modo di fare cinema dell’orrore, introducendo quello che sarà definito come il sottogenere dell’horror rurale, dove a perseguitare i protagonisti, ucciderli, addirittura smembrarli non sono mostri tenebrosi, ma gli stessi americani.

Nel primo caso, due giovani donne diventano vittime di un gruppo di psicopatici ed eroinomani che abusano di loro e infine le uccidono; nel secondo, un gruppo di giovani studenti si imbatte in una famiglia di cannibali nelle aride lande del Texas, dove a procurare le vittime è un uomo che indossa una maschera di pelle umana e smembra i corpi dei malcapitati con una motosega. Il sangue, i resti umani, la violenza, non sono mai stati tanto espliciti come lo sono nelle pellicole di Craven e Hooper (la seconda delle quali dà origini a uno dei più celebri assassini della cinematografia), scioccando il pubblico con la loro brutalità visiva data dalle sequenze più splatter, ma anche con tutto il carico di sottintesi che trasportano. Nel cinema horror anni ’70 questi titoli (anch'essi precursori di longevi filoni) sbattono in faccia al pubblico la verità sulla natura violenta dell’uomo, mostrano il volto di quella bestia famelica che si annida nell'animo umano e decretano la sentenza che è calata sulla giovane popolazione statunitense. I protagonisti di queste pellicole sono infatti tutti poco più che adolescenti, vittime di una società che se non li ha sacrificati sull'altare della guerra, li ha comunque privati di una speranza per il futuro, adesso alla mercé di antichi e ipocriti valori (rappresentati dai bifolchi e dai redneck dei film) che sembrano non voler lasciare spazio agli ideali delle nuove generazioni.

Nessuno può sentirti urlare nel cinema horror anni ‘70

A dimostrazione del fatto di quanto sia prolifico il cinema horror anni ’70, nello stesso decennio fanno la loro comparsa al cinema altri due titoli di importanza capitale per il genere. Il primo tra essi è Carrie – Lo Sguardo di Satana (1976), prima trasposizione cinematografica di un romanzo di Stephen King, ad opera di Brian De Palma. La giovane Carrie White, vittima di bullismo a scuola, subisce anche le pressioni psicologiche di una madre bigotta e sessuofobica che tenta di riversare le sue paure sulla figlia. Nel reagire alle angherie, tanto scolastiche quanto familiari, Carrie dà sfogo ai suoi poteri telecinetici per compiere una strage devastante che spazzi via chiunque le abbia fatto del male fino a quel momento. Carrie – Lo Sguardo di Satana è uno tra i modelli di horror paranormale che inaugura una lunga serie di titoli, laddove il terrore scaturisce da un protagonista dotato di poteri sovrumani che vengono utilizzati per fare del male, se non per una sete di vendetta personale. Cruciale l’omaggio all'horror psicologico di matrice hitchcockiana attraverso l’utilizzo delle note appartenenti al tema di Psycho. Il lungometraggio di De Palma è fondamentale, tuttavia, anche per i suoi risvolti morali: l’abbandono dei giovani individui che compongono la società in balìa non solo dei coetanei, ma anche di valori puritani fortemente ancorati alla società americana dell’epoca, che non tengono conto delle reali esigenze dei propri figli, ma solo di “mantenere la facciata” dinanzi agli altri e a uno pseudo-giudizio divino.

Il cinema horror anni ’70 prosegue tuttavia anche la tradizione più fantascientifica inaugurata alcuni decenni prima e nel 1979 riveste grande importanza quel Terrore nello Spazio di Mario Bava a cui si accennava prima. Ridley Scott gira infatti Alien, cult horror fantascientifico che nel riunire in sé gli aspetti orrorifici dei generi che hanno fatto scuola, diventa a sua volta punto di riferimento per le generazioni future di registi. Scott (con il contributo imprescindibile di Dan O’Bannon, da cui scaturisce originariamente la sceneggiatura) si lascia ispirare da Bava e dal suo catastrofico viaggio spaziale, ma non solo: l’influenza dei B-movie anni ’40 e ’50 sorti in seno alla Universal con i suoi mostri, è ancora ampiamente percepita e l’idea, in questo caso, è di traslare la figura del mostro nello spazio, rendendolo solo in apparenza una minaccia lontana che risiede tra le stelle. La figura dello xenomorfo introdotta con Alien rappresenta infatti un potenziale pericolo di estinzione per l’intera razza umana, se solo la sua progenie dovesse riuscire a proliferare senza controllo e raggiungere, un giorno, l’atmosfera terrestre. Un presupposto mal taciuto che permea l’intera pellicola e terrorizza grazie anche alla spaventosa presenza dello xenomorfo, sempre dietro ogni angolo della claustrofobica Nostromo, pronto a infettare gli umani a bordo per poi nutrirsi di essi. Una presenza che senza gli avveniristici design di H.R.Giger non avrebbe avuto lo stesso peso ingombrante di una creatura spaventosa e orribile, aliena, perfetta nella sua mostruosità e nella sua capacità di adattamento alla natura ostile.

Alien diventa un cult cinematografico, un horror fantascientifico e claustrofobico che porta sul grande schermo una delle creature aliene più spaventose viste finora, ma anche un cambio di paradigma inerente ai “buoni” della storia. A fronteggiare il villain, il mostro (in questo caso lo xenomorfo) non c’è un eroe virile pronto a salvare le vite degli altri e proteggere fanciulle indifese, ma una donna, Ellen Ripley, interpretata da quella Sigourney Weaver che diventerà il volto stesso del fortunato franchise. Un’eroina che, in una situazione terrificante come quella che coinvolge il suo equipaggio, riesce a tener testa a una delle creature più letali dell’universo scampando alla morte, protagonista femminile che riesce a reclamare per sé quel ruolo salvifico che per lungo tempo è stato prerogativa delle controparti filmiche maschili.

I nuovi mostri

Mentre i ’70 lasciano il posto al nuovo decennio in arrivo, nel 1978 un regista immaginifico, in grado di interpretare la società puritana e capitalista degli Stati Uniti con uno spirito critico senza eguali, gira un horror dai tratti peculiari che introduce un nuovo tipo di mostro al cinema. Stiamo parlando di John Carpenter, al suo terzo lungometraggio con Halloween – La Notte delle Streghe. Si tratta di una pellicola che fa da apripista a un inedito sottogenere dell’orrore e, nonostante le controverse interpretazioni che le sono state attribuite, contiene una forte critica sociale dettata dai cambiamenti in atto. In Halloween – La Notte delle Streghe fa infatti la sua comparsa un assassino mascherato, Michael Myers, che sembra prendere di mira gli adolescenti dediti ai più peccaminosi degli intrattenimenti (alcol, droga e sesso) lungo la strada verso la sua vittima designata. Il “nuovo mostro” del cinema horror, armato di un lungo coltello con cui fa fuori le sue giovani vittime e di una maschera del capitano Kirk di Star Trek, viene additato da molti come l’incarnazione dello spirito misogino e moralista dell’intero film, tuttavia la questione è più complessa di così.

Il lascito post-bellico di fine anni ’70 – inizio anni ’80 è quello dello sconforto e della delusione. I giovani, a questo punto, hanno scoperto che i vecchi valori propugnati da sempre sono solo una farsa e che quanto gli è stato inculcato finora era solo una facciata per nascondere il marcio che sottende ad ogni istituzione, prima fra tutte la famiglia. Lo spirito si fa più critico, la controcultura si apre un varco in mezzo alla scala di valori imposta e la ribellione giovanile, figlia dei moti hippy di alcuni anni prima, prende sempre più piede rifiutando costrizioni e obblighi morali. Questo si manifesta nelle arti e nella musica, ad esempio, ma anche in un maggiore desiderio di libertà che dal piano concettuale si sposta su quello fisico, attraverso l’utilizzo di droga e alcol, senza freni inibitori sul piano sessuale. C’è da biasimare una simile generazione? Probabilmente no e John Carpenter ne fornisce una prova: nonostante Halloween – La Notte delle Streghe sembri puntare il dito contro i giovani scapestrati (soprattutto in relazione alle sequenze girate dal punto di vista di Myers, quando vediamo attraverso i suoi occhi), restano pur sempre loro le vittime del bigottismo, dell’intransigenza, di una morale ipocrita e violenta incarnata dalla figura di un assassino che, in questo caso, rappresenta la morte delle libertà (e d’altra parte cosa c’era da aspettarsi dal regista di Essi Vivono?).

Halloween – La Notte delle Streghe può essere considerato così il primo horror slasher della storia cinematografica, con i suoi adolescenti fatti a fettine dall'assassino. Benché già Non Aprite Quella Porta contenga alcuni elementi di questo sottogenere (e persino lo Psycho di Alfred Hitchcock), il linguaggio e gli intenti visivi sono altri e Halloween rappresenta la prima rivoluzione dell’horror anni ’80, dove i registi ne codificheranno la struttura per produrre altri titoli ascrivibili allo slasher. E mentre Jamie Lee Curtis, protagonista di Halloween e figlia della Janet Leigh di Psycho, diventa la nuova scream queen del cinema horror, nel 1980 entra in scena un nuovo slasher con protagonista un altro “mostro” assassino: Venerdì 13 di Sean S. Cunningham, che porta sullo schermo il celebre Jason Voorhees armato di machete e con indosso una maschera da hockey. Lo schema è, similmente a quello di Halloween, l’assassinio di giovani ignari intenti a divertirsi e amoreggiare, da parte di una figura misteriosa munita di maschera, in cerca di quella che sembra una generale vendetta contro la tipologia di individui che gli ha fatto del male in passato. Nonostante Venerdì 13 sia oggi un piccolo cult, alla sua uscita non ottiene un grosso riscontro, tuttavia è innegabile il contributo dato al cinema horror soprattutto nel rimpolpare le sue fila di mostri con un nuovo, terrificante e spietato assassino.

Chiude il trittico degli slasher “classici” il Nightmare – Dal Profondo della Notte di Wes Craven, che nel 1984 è causa di incubi notturni per gran parte del pubblico grazie al mostro assassino protagonista: Freddy Krueger (interpretato da Robert Englund). Forse perché Freddy è sfigurato in volto da orribili ustioni e uccide giovani-non-troppo-innocenti per mezzo di lame fissate a un guanto? La vera ragione risiede nel fatto che il mostro di Craven utilizza gli incubi delle sue vittime come terreno di caccia: introducendosi nella loro sfera onirica, li perseguita e li uccide in modi fantasiosi e orripilanti. Oltre a presentare al mondo un novello Johnny Depp al suo debutto, Nightmare – Dal Profondo della Notte si serve del setting slasher per mettere in scena sequenze ancora più splatter dei suoi predecessori, ma soprattutto un modus operandi sovrannaturale che non dà scampo alle vittime e mette in discussione la percezione del pubblico. Qual è la realtà? Qual è l’incubo? E se non è possibile sprofondare nel sonno, allora non c’è via di salvezza? La truculenza delle scene è dunque solo una parte dell’orrore causato dalla pellicola di Wes Craven, che gioca anche e soprattutto sull'evocazione di una paura intima e profonda quale quella dell’ “uomo nero” che ci raggiunge nella vulnerabilità dei nostri letti per farci fuori. Ancora una volta, tuttavia, sono gli adolescenti a pagarne le conseguenze, vittime della loro stessa crescita, della mancanza di riferimenti, di un’agognata libertà che sembra però chiudersi su sé stessa e intrappolarli.

Cult e ancora cult

Menzione d’onore, per quanto riguarda il cinema horror anni ’80, per diversi altri titoli che, pur distaccandosi da etichette ben definite, conquistano (e terrorizzano) il pubblico, destinati ad essere cult di questo genere sempre in continua evoluzione. Il 1980 è ad esempio l’anno di Shining, film del visionario Stanley Kubrick che adatta per il grande schermo l’omonimo romanzo di Stephen King. Protagonista un Jack Nicholson tanto folle nei panni di Jack Torrance da spaventare persino la collega Shelley Duvall durante le riprese, Shining non si fa carico di una particolare efferatezza, ma istilla il terrore attraverso atmosfere ben studiate e una suspense crescente, in un percorso tortuoso nei recessi labirintici del subconscio (e d’altra parte il labirinto è un tema ricorrente nella pellicola di Kubrick). Non solo: il male messo in scena nel film non proviene da creature mostruose o entità demoniache, ma da eventi sovrannaturali che tuttavia non sembrano fare altro che dare una piccola “spintarella” a una psiche già disturbata e in procinto di crollare. A causare il male è fin dall'inizio Jack Torrance, che esso si confronti o meno con fantasmi (veri e presunti) del passato.

Nel 1981 è invece La Casa di Sam Raimi a guadagnarsi il titolo di cult del cinema horror. Non subito, però. La pellicola con protagonista Bruce Campbell non vanta infatti un soddisfacente ritorno economico al botteghino, ma ottiene un successo graduale grazie alla distribuzione in home video. Sono però forse i suoi sequel a rendere la saga de La Casa leggendaria: La Casa 2 e L’Armata delle Tenebre, rispettivamente del 1987 e del 1992, in cui l’orrore non è l’unica prerogativa ma è accompagnato da una certa dose di humor nero e comicità. John Carpenter invece, ci riprova con l’horror nel 1982, addentrandosi stavolta su un terreno più fantascientifico con La Cosa, che però non viene valutato degnamente dalla critica del tempo. Se oggi possiamo apprezzarne la carica claustrofobica e di perenne minaccia, negli anni ’80 La Cosa si attesta invece tra i film peggio votati e servirà ancora qualche anno per dedurne i sottintesi sociali: come sempre Carpenter mostra infatti un pezzetto del reale volto della nostra società, attraverso paure inconsce che vivono in noi e deteriorano i nostri rapporti interpersonali attraverso una mancanza di fiducia generale.

Anche Hellraiser merita decisamente un posto d’onore nella hall of fame del cinema horror. Film di Clive Barker del 1987, Hellraiser è un viaggio nelle psicosi che hanno le loro origini nelle fobie di natura sessuale, reso visivamente da figure mostruose chiamate Cenobiti: personaggi sfigurati e agghindati da costumi che sono veri e propri strumenti di tortura. Il loro leader è il celebre Pinhead, uno dei nuovi mostri cinematografici che, se conserva ancora l’aspetto di un uomo, è perché il suo passato rivela che lo è stato davvero, salvo poi venire risucchiato in una dimensione parallela fatta di tortura e doloroso piacere. Non per nulla i Cenobiti sono anche detti Supplizianti: alla base di Hellraiser risiede infatti un’idea di orrore provocato dal martirio e dalla sofferenza della carne, personificati nelle figure degli spaventosi Cenobiti. Di Hellraiser esistono numerosi sequel che compongono una saga fatta dei svariate mostruosità, mentre quest'anno è in uscita un reboot del titolo storico, che mostra una nuova versione di Pinhead: quella interpretata da Jamie Clayton, che darà fattezze femminili allo storico personaggio.

Le sperimentazioni tra anni ’90 e 2000

La tendenza generale, nei primi anni ’90, è quella di riprendere i fortunati personaggi cult degli anni precedenti attraverso seguiti che li vedano protagonisti, come nel caso della saga di Nightmare o quella di Halloween. Questo non si traduce, tuttavia, in una mancanza di inventiva che rende il genere arido, quanto piuttosto in una volontà tesa alla sperimentazione che, se da un lato genera pochi titoli validi, dall'altro fa sì che essi siano fortemente rivoluzionari e di rottura col passato. In questo senso impossibile non citare The Blair Witch Project, del 1997: pellicola indipendente appartenente a quello che sarà definito come il genere del found footage, è il racconto di alcuni ragazzi che, intenti ad eseguire alcune ricerche sulla storia della presunta Strega di Blair, si smarriscono nel bosco dove si dice che quest’ultima abbia trovato la morte. La particolarità del film, diretto da Daniel Myrick e Eduardo Sànchez, è data dalla sua capacità di causare un forte stato di paura e angoscia attraverso la prospettiva diretta dei tre malcapitati protagonisti. Le sequenze, infatti, sarebbero il presunto montaggio di riprese fatte dagli stessi giovani con le proprie telecamere, smarriti nella foresta, dei quali vengono rivenuti soltanto i nastri. La tecnica del found footage verrà ripresa negli anni in diverse altre occasioni, con risultati più o meno riusciti, ma nell'ambito horror occupa sicuramente una posizione di privilegio REC, film di Paco Plaza e Jaume Balaguerò che mescola zombie ed eventi sovrannaturali.

Dal paese del Sol Levante, invece, una pellicola riesce a lasciare i confini geografici per poi destare l'interesse di Hollywood, che ne realizza un remake anglofono: si tratta di Ring, di Hideo Nakata, che viene proiettato in Giappone nel 1998. Quando giunge in occidente attraverso il remake di Gore Verbinski con protagonista Naomi Watts, è già il 2002 ma la sostanza non cambia: con The Ring ci troviamo di fronte a una ghost story, una leggenda metropolitana, che diventa irrimediabilmente un'orribile realtà per i protagonisti nel momento in cui vengono perseguitati e uccisi dalla misteriosa entità di cui si narra in questa storia. In Giappone l'aspetto fantasmatico ha sicuramente una valenza e un peso differenti, dati da una cultura in cui l'aspetto spirituale riveste una grande importanza. Tuttavia la versione occidentale di Ring non viene sminuita dalla lieve riscrittura di Verbinski, riuscendo a far passare un messaggio piuttosto chiaro. Nel film alcuni giovani muoiono infatti sette giorni dopo aver guardato una misteriosa videocassetta, per mano di una creatura dai tratti femminili che fa ingresso nella realtà attraverso la scatola della stessa TV. Una metafora sul potere immaginifico dei media, sulla forza che hanno nell'imprimere a fuoco suggestioni e idee in chi fruisce dei loro contenuti, ma anche una critica che non risparmia la loro capacità di ipnotizzare il loro pubblico "uccidendone" lo spirito critico e l'essenza vitale, tenendoli incollati a uno schermo per un tempo indefinito.

Un evento catastrofico, tuttavia, cala sulla società occidentale come un maglio che forgia con violenza inaudita un nuovo tipo di paura: si tratta dell’attacco terroristico dell’11 settembre, che muta per sempre la percezione del terrore e della propria sicurezza nella società civile. A subirne le maggiori conseguenze sono ovviamente gli Stati Uniti, dove ogni aspetto della vita cambia volto a seguito di tale avvenimento, inclusa la sensibilità artistica. Va da sé che negli anni immediatamente successivi all'attacco, anche il cinema horror subisce un profondo mutamento: se è vero che l’horror assorbe le paure degli individui per poi restituirle sotto forma di mostruosità, le pellicole di questi anni mutuano loro malgrado gli orrori cui si è costretti ad assistere attraverso i fatti di cronaca che adesso colmano i palinsesti televisivi. Nell'era plasmata sulla paura da Bin Laden e dal fondamentalismo islamico, sorge il timore che anche il versante occidentale del mondo, per tutta risposta, sia capace di estreme atrocità, soprattutto in seguito ai fatti esposti con lo scandalo di Abu-Ghraib: in questa prigione irachena, infatti, molti detenuti sono stati sottoposti a torture e umiliazioni fisiche e psicologiche da parte di membri dell’esercito statunitense.

È probabilmente a causa di quanto visto nelle immagini diffuse, che anche la percezione dell’orrore cambia, restituendo le atrocità compiute dall'uomo sotto forma di pellicole che ne moltiplicano la portata all'ennesima potenza. È questo, difatti, il periodo in cui sorge un nuovo modo di fare film horror, attraverso il genere che viene definito torture porn: ne è un esempio classico il Saw – L’Enigmista dell’esordiente James Wan, del 2004, ma anche l’Hostel di Eli Roth distribuito nel 2005. Se pensavamo che il gore e lo splatter avessero esaurito le loro potenzialità con pellicole come Non Aprite Quella Porta o, ancora peggio, con il Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato che nel 1980 aveva sconvolto il pubblico con immagini fin troppo realistiche, il granguignolesco si spinge oltre mostrando senza più alcun timore cosa può accadere se si concentra il focus più sull'atto della tortura, che sul causare una morte violenta. Saw, in questo senso, fa scuola: i malcapitati protagonisti della pellicola di Wan sono infatti costretti a subire (o a procurare) le più orribili delle mutilazioni per ottenere la propria salvezza dalle trappole predisposte per loro da Jigsaw, la mente criminale dietro tutto questo.

L’ultimo decennio horror

La spinta alla sperimentazione non si è sicuramente esaurita negli ultimi anni, complici anche gli strumenti tecnologici a disposizione adesso di chi lavora nell'universo dell’audiovisivo. La paura cinematografica, tuttavia, sembra essere diventata un obiettivo sempre più arduo da raggiungere: la traduzione in immagini dei sentimenti più profondi e oscuri dell’animo umano, si è scontrata negli ultimi tempi con una realtà talvolta tanto surreale e terrificante da sovrastare persino le più orribili delle fantasie. È comunque il caso di rivolgere la propria attenzione su alcune produzioni in particolare, che si distinguono grazie ad autori e registi capaci di innovare il genere horror ancora una volta a dispetto delle pretese che la nostra percezione, forse ormai assuefatta all'orrore, impone al mercato. È questo il caso ad esempio di pellicole come Insidious (2010) e The Conjuring (2013), entrambi prodotti sempre dalla mente brillante di James Wan; ma anche di titoli come The Witch (2015) di Robert Eggers, Hereditary – Le Radici del Male (2018) e Midsommar – Il Villaggio dei Dannati (2019) di Ari Aster.

Si distingue, inoltre, quel Jordan Peele regista di Scappa – Get Out del 2017 (vincitore, peraltro, di un Premio Oscar), Us (2019) e Nope (2022), che con le sue produzioni horror riesce a inserire una critica sociale pungente e deliberata che non risparmia nessuno: falsi perbenisti e liberali, la borghesia media con il suo presunto benessere socio-economico, persino lo stesso mercato cinematografico. Il suo è un approccio schietto e innovativo che, senza eccessivi voli pindarici attraverso sangue, sequenze macabre e raccapriccianti, gioca con la psicologia e i sentimenti dello spettatore. Lo infastidisce nel profondo, pungendolo sul vivo e andando a toccare quella paura forse più profonda che possa esistere: quella di confrontarsi con sé stessi.