Due Attese: recensione, il graphic novel buzzatiano di Maurizio Lacavalla

Maurizio Lacavalla esordisce con un coraggioso graphic novel, poetico e ruvido, per Edizioni BD, dallo stile sintetico e il raccontare buzzatiano.

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a cura di Andrea Giovalè

Maurizio Lacavalla firma il suo primo graphic novel, Due Attese, un racconto buzzatiano sull’uso passivo e dilatato del tempo che fa, del medesimo uso, anche strumento narrativo. Lacavalla ambisce a una poetica nient’affatto morbida o conciliante. Il suo fumetto è ruvido, ermetico, a tratti, più della pazienza richiede un vero atto di fede. Poche immagini, qui e là, trascinano avanti la narrazione con grande potenza e significato. Molte altre traghettano il lettore senza aprirsi e marchiate da uno stile grafico, anch’esso, più spesso esclusivo che non il contrario.

Ritorna il paragone letterario con Dino Buzzati, ma anche con il manga giapponese d’autore di cui, ogni tanto, si riconosce l’odore filosofico e di sintesi, estetica e strutturale. Ne viene fuori un simbolismo che, comunque, non parla mai apertamente ma qualcosa, a modo suo, comunica lo stesso. L’occhio è subito catturato dalle due colonne in apertura, e non è un caso che il racconto disegni una parabola temporale sbilanciata verso inizio e fine (entrambi flash forward), dilatando il corpus centrale (flashback). È il senso dell’attesa, una deformazione talvolta quieta, talvolta ossessiva, sempre al limite della sofferenza fisica.

La trama di Lacavalla, da ricomporre delicatamente in ogni suo piccolo, fragile frammento, narra di un soldato perduto nella Seconda Guerra Mondiale, ricercato da un agente investigativo misterioso, americano, per essere riconsegnato alla sua famiglia, composta ormai di una vecchia figlia e un giovanissimo nipote. Lo stesso investigatore è, a sua volta, un’attesa fatta personaggio: un ammasso di reticenza che promette storie e, con grazia e fascino, non le consegna. Almeno, non direttamente.

È evidente che Due Attese sia, uniformemente e armonicamente, frutto di un’impronta narrativa molto personale, mantenuta integra e coerente, anzi, granitica, a volte a spese della stessa fruibilità. Una scelta artistica, potremmo dire, sempre più rara nel mercato del fumetto, di per sé apprezzabile ma che impone, tuttavia, responsabilità di grosso calibro. La storia che l’autore ci racconta, specie nel segmento finale, si anima e si ricongiunge con l’ampia metafora sulla vita e sulla guerra, sul senso del dolore e dell’attesa, ma non sempre riesce a capitalizzare il proprio raccolto, a trasfigurare l’inespressività in fascino.

Ed è un peccato perché, quando lo fa, assume i contorni della poesia in fumetto che di rado, ma con puntuale ciclicità, autori italiani e non dimostrano di poter cogliere, al pari dei grandi classici del passato.