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a cura di Silvia Milani

retrocult

Siamo tutti cyborg dice Donna Haraway nel saggio citato da Silvia Milani nell'articolo di oggi. Forse è vero già oggi, se accettiamo che smartphone, computer e altri aggeggi siano in qualche modo un'estensione o una modifica di ciò che siamo, concettuale se non altro. Alcuni di poi possono dire di essere gli stessi con o senza questi oggetti; altri invece sarebbero diversi.

Se è così, d'altra parte, siamo ancora in una fase primordiale, grezza. Un momento in cui l'umano e la macchina si toccano ma non sono ancora fusi in modo irreversibile. Se accadrà, quando accadrà, che cosa sarà di noi?

Cambierà il modo in cui ci guardiamo, ci misuriamo, parliamo gli uni degli altri? Certamente, ma il modo in cui avverranno questi cambiamenti è misterioso. Certo, possiamo dare per scontato che le differenze economiche continueranno a pesare, e che il postumano ricco sarà avvantaggiato rispetto al postumano povero.

Ma nell'essere tutti cyborg potremmo forse trovare una nuova onda parificatrice, qualcosa che ci aiuti a superare differenze che oggi ci sembrano insormontabili. Il progresso tecnologico, quando è anche culturale, può davvero renderci migliori da questo punto di vista, perché capaci di andare oltre i nostri attuali orizzonti.

Sempre che, nel diventare tutti cyborg, non nascano anche nuove caste e nuove categorie. E allora forse superare le dicotomie odierne sarà stato un balzo in avanti potente quanto inutile, perché ci avrà portato in una nuova stagnazione alimentata di differenze.

Un futuro alla Ghost in the Shell, appunto, che potremmo prevenire usando saggiamente le tecnologie che via via ci rendono effettivamente capaci si superare i nostri limiti. Ma, per ora, non c'è tecnologia che ci possa insegnare quanto sia superfluo, o persino dannoso, creare nuove differenze e nuove dicotomie per sostituire quelle che riusciamo a superare.

Valerio Porcu