Il Richiamo di Providence, recensione: Alan Moore affronta l'orrore cosmico di Lovecraft

Il Richiamo di Providence: Alan Moore affronta l'orrore cosmico di H.P. Lovecraftri riscrivendone il canone.

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a cura di Manuel Enrico

Deve ancora esser superato come il più grande esponente dei classici racconti horror del ventesimo secolo. Con questa dichiarazione di una non celata profonda ammirazione Stephen King celebra la sua venerazione per Howard Phillips Lovecraft, il maestro della letteratura orrorifica americano che da un secolo influenza l’immaginario dell’horror, estendendo la propria ombra su romanzi, fumetti e cinema. Personaggio contradditorio, fortemente legato al suo tempo, che anche grazie ai suoi lati meno nobili ha suscitato un fascino inquietante su autori eclettici, non ultimo Alan Moore. L’incontro tra il romanziere di Providence e il bardo del fumetto britannico non poteva che trasformarsi nella genesi di un’opera che mette criticamente in mostra le caratteristiche di entrami i narratori, come conferma la lettura di Il richiamo di Providence, corposo volume edito da Panini Comics in cui viene raccolta in toto il corpus letterario di Moore dedicato a Lovecraft.

Nel parlare di Lovecraft, ci si scontra sempre con il difficile equilibrio tra la figura autoriale e l’uomo reale. Riconoscerlo un maestro del racconto orrorifico, apprezzandone le doti di visionarietà che hanno portato alla nascita di capolavori come Le Montagne della Follia, non significa privarlo delle sue pecche, considerato come nei suoi scritti emergano peculiarità urticanti dell’autore. Si tende solitamente a scindere questi due elementi della personalità di Lovecraft, una sorta di difesa dell’autore dalle deplorevoli visioni dell’uomo, un meccanismo di separazione che nella concezione di Moore viene invece resa parte integrante del racconto.

Il Richiamo di Providence, Alan Moore riscrive il canone lovecraftiano

Nella sua carriera, Moore ha dimostrato di non avere timore nel manifestare in modo aperto la propria vis narrativa, creando opere, come La Lega degli Straordinari Gentlemen, in cui la rielaborazione di classici della narrativa viene declinata in una connotazione più concreta, portando figure fantastiche in un ambiente realistico, sinergia tramite cui imbastire una critica sociale che si muove sul labile del confine del sarcasmo, sfociando anche in scene spesso crude utilizzate come elemento disturbante per il lettore. All’interno di una grammatica narrativa simile, introdurre il corpus letterario di Lovecraft è come agitare in modo sconsiderato della nitroglicerina: il risultato non può che essere una spettacolare deflagrazione.

La costruzione dell’excursus di Moore nell’orrore di Lovecraft nasce quasi casualmente. Dopo la lettura di un racconto ispirato alle atmosfere lovecraftiane scritto da Anthony Johnston (The Starry Wisdom, tradotto in italiano come Saggezza Stellare),  Moore ha imbastito la sua prima incursione nella narrativa lovecraftiana, Il cortile. Nel leggere Il Richiamo di Providence si percepisce come Il cortile fosse concepito come un racconto breve autonomo, nella tradizione della narrativa di Lovecraft in cui la conclusione delle storie, dove il lettore viene lasciato con l’inquietante sensazione che ci sia un finale nascosto in attesa di manifestarsi nella sua piena potenza. Solo in seguito, Moore avrebbe reso Il cortile l’incipit di un più complesso impianto narrativo, che avrebbe successivamente trovato maggior consistenza con altre due opere, Neomicon e Providence.

Risulta evidente come le basi narrative della saga di Providence siano state sviluppate in un secondo momento, ritrovando in Il Cortile una base su cui creare una più strutturata e disturbante incursione nell’opera lovecraftiana. Gli eventi accennati nel racconto breve diventano il punto di contatto di tutta la complessa visione di Moore, in cui non ci si limita a ripercorrere la strada segnata da Lovecraft, ma ci si pone come fine ultimo la creazione una mitologia più concreta, subdolamente intrecciata alla quotidianità dei protagonisti e, per questo, ancora più disturbante. L’intento di Moore, infatti, era quello di dare una versione grounded di Lovecraft, spogliandolo di quell’ipocrita difesa concessa al grande autore per mettere a nudo le contraddizioni e le pulsioni oscure dell’autore, un obiettivo che lo stesso Moore non ha mai nascosto:

Volevo esplicitare quelle tematiche viscerali e stranianti che lo stesso Lovecraft aveva censurato o che gli autori successivi a Lovecraft, nella scrittura di pastiche delle sue opere, avevano preferito eliminare. Come il razzismo, l’antisemitismo o le fobie sessuali chiaramente presenti.

L’analisi di Moore delle venature narrative meno evidenti di Lovecraft è accurata. Nei racconti dello scrittore di Providence non mancano commenti poco apprezzabili a immigrati, l’evidente disgusto per quelli che egli chiama ‘invertiti’, usando un termine del periodo, dando vita a una metaforica rappresentazione di quelle che agli occhi di Lovecraft sono mostruosità latenti tramite la creazione di una serie di rituali e di consessi carnali diabolici che pervadono la sua opera, specialmente nei racconti. Queste sfumature delle opere di Lovecraft divengono il cardine della narrazione di Moore, che le declina con una certa efferatezza in un contesto in cui la sessualità, in ogni sua forma, viene palesata e resa centrale nella definizione della continuity di questo complesso telaio narrativo.

Non senza una certa ironica perfidia nei confronti di Lovecraft, Moore sembra volere evidenziare proprio quei temi che sono rimasti sbiaditi negli scritti del romanziere americano, scegliendo di contestualizzarli in modo più marcato all’interno delle parti ‘storiche’ di Neomicon. La figura del cronista Black, in tal senso, diviene sia il protagonista che scopre suo malgrado gli orrori che popolano un New England ancora rurale a inizio ‘900 e lontano dalle più moderne (e illuminate) metropoli, che un punto di vista privilegiato per comprendere le diverse sfaccettature di una società reale attraversata da preconcetti e ipocrisie. Non è un caso che Moore lasci intendere come queste congreghe e i loro rituali siano protetti dalla cultura della privacy, che viene utilizzata come un comodo riparo da queste logge segrete che perseguono culti indicibili.

In questo dettaglio, si evidenzia uno dei tratti fondamentali de Il Richiamo di Providence, ossia la volontà di Moore di creare un tutt’uno narrativo in cui i riferimenti ai racconti di Lovecraft vengono inseriti all’interno di una costruzione storica in cui viene coinvolto lo stesso romanziere americano, trasformando questa presenza in un riuscito esperimento di fusione tra le due anime dell’uomo Howard Phillips Lovecraft: sopraffino autore horror e deprecabile essere umano. Non dissimilmente da quanto fatto da altri autori, Moore costruisce uno stridente percorso mistico in cui Lovecraft diventa, ironicamente, il culmine di una pianificazione demoniaca, culminante con il passaggio delle conoscenze raccolte nel suo errare per l’inquietante New England da un sempre più tormentato Black allo scrittore di Providence per divenire l’ispirazione della sua opera. Un meraviglioso gioco di incastri che consente a Moore di utilizzare Lovecraft stesso come personaggio, enfatizzandone le pecche personali e mostrandone una versione inedita, da cui emerge una personalità spigolosa e con una morale a dir poco discutibile.

Trovare un equilibrio tra autore e uomo

A supporto di questa trama veemente e caratterizzata da scene volutamente forti in termini di contenuti e esplicitazione di momenti solitamente nascosti nelle pieghe delle trame, Moore ha avuto l’arte di Jacen Burrows, che ha saputo muoversi con una certa abilità tra le diverse esigenze della storia. Ammirevole la cura nel ricreare dettagli storici, ispirandosi anche a un gusto artistico tipico del periodo, ma dove Burrows ha mostrato una particolare attenzione è nella caratterizzazione degli aspetti più disturbanti, dove riesce a creare una sinergica dissonanza tra situazione e reazione dei personaggi, lavorando di cesello nella gestione della mimica, facciale e corporea, trasmettendo anche graficamente la forte connotazione emotiva della trama di Moore. Con il suo stile pulito, caratterizzato da linee morbide e dalla predisposizione a una costruzione visiva in cui son premiate le piccole movenze, Burrows riesce a cogliere le tensioni emotive partorite da Moore, dando a Il Richiamo di Providence una sontuosa interpretazione visiva.

Nell’affrontare la lettura de Il Richiamo di Providence, non va trascurato l’elemento della traduzione, che andando a toccare non solo la dialettica di Moore ma soprattutto il corpus letterario di Lovecraft, figlio di un momento storico in cui terminologie ed espressioni gergali avevano una differente natura. Nell’approcciarsi a questo dettaglio, la scelta di Leonardo Rizzi, come specificato anche nel volume, è stata quella di affidarsi a edizioni italiane delle opere di Lovecraft, in modo da creare una sorta di continuità con la tradizione letteraria dell’autore americano presso i lettori italiani.

Il Richiamo di Providence ha tutti i dettami per esser considerato un’edizione omnibus. Non solo son infatti inseriti i tre archi narrativi che compongono questo viaggio di Moore nella narrativa di Lovecraft, ma sono riportate anche le note di spiegazione ai singoli volumi, dando al lettore un pregevole supporto nel decifrare l’intensa opera di citazionismo e integrazione di Moore.  Le dimensioni e il peso generosi de Il Richiamo di Providence possono rappresentare un freno per coloro che preferiscono la lettura di volumi più maneggevoli, ma la cura con cui è stata confezionata questa edizione, compresa una copertina rigida impreziosita da incisioni care ai fan dello scrittore di Providence, rendono il volume uno dei più interessanti viaggi nella lisergica narrativa di due eclettici autori.