Intervista a David Fogler, visual effects supervisor di Industrial Light & Magic

Al Lucca Comics & Games abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Dave Fogler, visual effect supervisor alla Industrial Light & Magic (ILM), nel cui portfolio possiamo trovare film come Avatar, la serie Transformers, Pacific Rim e moltissimi altri.

Avatar di Alessandra Borgonovo

a cura di Alessandra Borgonovo

Tra fumettisti e attori, tra Zerocalcare e James O’Barr passando per Nicholas Brendon, Lucca Comics & Games ha deciso per questa edizione di lasciare spazio anche all’industria cinematografica ospitando Dave Fogler, visual effect supervisor alla Industrial Light & Magic (ILM) – azienda fondata nel 1975 da George Lucas e nella quale Fogler ha lavorato per oltre vent’anni.

Ha partecipato alla creazione degli effetti visivi di ben ventitré film tra i quali Star Wars: Il Risveglio della Forza (2015), Pacific Rim (2013), Avatar (2009), Transformers (2007) e Star Wars: Episodio I (1999), solo per citarne alcuni. Fogler è stato nominato sei volte ai premi VES della Visual Effects Society e ne ha vinti due per il suo lavoro in "Transformers".

Come build supervisor di Star Wars: Il Risveglio della Forza ha supervisionato la ricostruzione delle navi classiche di Star Wars quali Tie Fighter, X-Wing e il mitico Millennium Falcon. Proprio di questo ha parlato nel corso della masterclass organizzata a Palazzo Orsetti, spiegando la difficoltà e l’importanza di riportare alla vita un’icona del cinema dopo trentadue anni dalla sua ultima apparizione sugli schermi; l’obiettivo di Fogler e la sua squadra era migliorare il Millennium Falcon, aggiornarlo per le nuove generazioni, ma dopo una millimetrica scansione del modello originale del 1977 – ha raccontato – si è reso conto di quanto fosse in errore.

“Era la prima volta che lo vedevo dal vivo ed è allora che ho capito il mio sbaglio: il Falcon non poteva essere migliorato, era già perfetto così ed era l’oggetto di scena più bello che avessi mai visto prima.”

Un viaggio nel passato e nell’industria interessante, che tuttavia si è completato davvero quando ci siamo seduti a tu per tu con Fogler – in una zona tranquilla sopra la sala stampa, al termine di una giornata passata a correre per la fiera – per fargli una minima parte delle domande che sì avevamo preparato ma ci siamo scoperti a depennare dopo aver ascoltato il suo intervento.

L’intervista si è trasformata nella voglia di saperne di più, toccare con mano anche solo per pochi minuti un mondo che va oltre la nostra immaginazione, fatto come tutti di fallimenti ma proprio da questi fallimenti in grado di evolversi e migliorarsi, dimostrando una volta di più come sbagliare sia la strada per la perfezione – che sappiamo tutti non esistere ma questo non vieta di provare sempre a raggiungerla.

Il suo percorso artistico è noto e ben documentato ma vorrei conoscerlo dalle sue parole. Guardando indietro ai vent’anni di carriera, cosa porta con sé di questo suo viaggio?

Definirei la carriera come un’esperienza divertente e molto spesso, nel loro percorso, le persone si spostano raggiungendo punti che non si sarebbero aspettati. Ho sempre amato i film e questa passione è stata alla base di tutto, ma ci sono moltissimi aspetti di cui occuparsi all’interno dell’industria cinematografica e della produzione. Agli inizi mi immaginavo nel ruolo di animatore, adoravo l’animazione e anche lo stop-motion, perciò mi sono “arruolato” per un posto da animatore in un progetto a San Francisco… ma quando mi sono presentato, il progetto era già stato chiuso, è così che funziona in questo mondo. Tramite conoscenze sono riuscito a farmi assumere altrove per un weekend, perché la produzione non aveva nessuno e serviva disperatamente qualcuno che fosse disponibile del fine settimana per occuparsi di un po’ di cose. E da allora non me sono più andato. Potremmo definirlo una sorta di amore a prima vista, era un posto fantastico nel quale – mi dissi – volevo assolutamente esserci, così ho chinato la testa e lavorato duro, imparando moltissimo e non potevo davvero credere che un anno dopo fossi ancora lì; e poi l’anno dopo ancora fino ad arrivare, be’, ormai a diciannove. È la dimostrazione che le carriere possono riservare moltissime sorprese.

Si sarebbe mai aspettato questa svolta, sia a livello tecnologico sia di carriera?

L’industria in cui mi sono trovato è in continuo e rapido cambiamento, un’evoluzione con la quale è difficile mantenere il passo tanto a livello tecnologico quanto di business. Il mio arrivo in questa realtà coincise con l’avvento del primo Jurassic Park, quando a un certo punto tutti dissero “computer! Faremo tutto questo con il computer!” e ci furono davvero momenti in cui pensammo che tutto fosse finito, ma il cambiamento avviene più lentamente di quanto si possa credere – ed io ero nell’ambiente da ormai sette anni. Ciononostante, a dispetto di tutta questa tecnologia, usiamo ancora le miniature perché non è vero che qualcosa cessa di esistere e viene trascurato in favore del nuovo: la tecnologia e le strategie si evolvono ma è fondamentale non dimenticare mai cosa si è fatto nel passato. ILM ha una forte tradizione di preparazione e apprezzamento nei confronti di artisti che hanno materialmente lavorato con date strumentazioni come ad esempio luci o macchine da presa, è un’azienda che vanta un bacino di professionisti formatisi tramite questa progressione e perciò risultano estremamente affidabili – hanno l’occhio per moltissimi aspetti, dalle texture alle possibili strategie, perché ci sono moltissimi modi per fare questo lavoro.

Cosa pensa dell’arte come forma di educazione? Sia l’arte classica sia, a maggior ragione, quella digitale frutto di una tecnologia che – se posso permettermi – può definirsi arte.

Non mi appassiona il dibattito su cosa possa essere e non possa essere chiamato arte. Preferisco discutere di un prodotto, come ad esempio un film, basandomi sulla sua qualità senza dipendere dal fatto che possa essere arte o meno. Lo ritengo un dibattito senza senso. Ma tornando alla prima domanda, è innegabile che i media (libri, film, videogiochi) abbiano un ruolo particolare nella nostra cultura e per quanto il mio ambito specifico sia un po’ diverso – ad esempio – dalla forte influenza dei libri a livello culturale c’è comunque un senso di responsabilità nella creazione di un prodotto, appunto, responsabile che possa essere fruito dal pubblico. Il nostro ruolo come artisti di effetti speciali è supportare il regista nel raccontare la storia: non siamo responsabili del contenuto, anche se devo ammettere essere gratificante trovarsi a dirigere un progetto per cui sento una forte passione, è indubbiamente un incentivo tanto quanto lo è lavorare a fianco di registi che rispetto.

Hai mai fallito in un progetto? E se sì, cos’ha imparato?

Difficile pensare a un esempio specifico perché il fallimento è sempre dietro l’angolo, ma fare dei passi indietro è certamente una parte del processo ciclico che ti spinge ad andare avanti. Utilizziamo tantissimi strumenti, sia digitali sia tradizionali, sempre più spesso sfruttiamo i computer e con loro è impossibile scendere a patti. Mettere insieme una squadra e decidere come procedere su un progetto complesso, affidandosi alle abilità del singolo, non toglie che sia difficile forgiare il percorso che porterà alla sua conclusione. I film sono delle imprese colossali, bisogna aspettarsi un certo livello sperimentazione e sviluppo – e per definizione, sperimentare porta spesso a fallire.

C’è chi pensa al fallimento come una conseguenza solo negativa.

Guardala in questo modo. Se sei concentrato sul non commettere mai errori, significa che andrai a compiere scelte della cui sicurezza non puoi dubitare. E questo genere di scelte, questi porti sicuri, porteranno a risultati previsti. Un ruolo chiave nella creazione è proprio scoprire cose nuove, approdare in posti inesplorati, essere inventivo, sviluppare. Se compi solo scelte sicure non puoi sbagliare e dunque non potrai mai scoprire le infinite possibilità impreviste che ti aspettano.

Ieri ha parlato di astronavi. Com’è progettare qualcosa che non esiste?

Divertente. Una lezione che ho imparato ancora e ancora è che non esiste un artista con il dono di creare magicamente qualcosa partendo da un foglio bianco. Ci sono processi richiesti per arrivare infine a un design valido e funzionale, e derivano dal lavoro di altri, dall’osservazione del mondo esterno, dalla sperimentazione. Se vuoi progettare un’astronave è normale affidarsi per primo a persone abili nel disegno, che realizzeranno centinaia di bozzetti in un solo giorno e tutti potrebbero essere orribili, ma è anche possibile che il team creativo si sieda attorno al tavolo, li fissi e trovi in uno di questi un’idea che magari il suo creatore nemmeno aveva pensato. Da qui nascono nuovi spunti e la ruota continua a muoversi, perché è necessario mantenere attivi gli ingranaggi in modi anche inaspettati che possano sorprendere gli altri e prima ancora te stesso. Si tratta insomma di trovare una via, una strategia per aggiungere diverse motivazioni, ispirazioni e riferimenti nel calderone, lasciarlo bollire per un po’ e infine vedere cosa esce fuori. È tutto molto imprevedibile.

Cos’è più difficile, avere restrizioni alla propria creatività o invece carta bianca?

Dire entrambi. Questo è un business che ha come fine ultimo la realizzazione di un film e la necessità di rientrare in una precisa struttura. Alcune restrizioni portano alle idee migliori, c’è una cronologia di situazioni dove si entrava nel panico perché rimaneva una sola ora a disposizione e proprio in quei sessanta minuti ci si ritrovava con soluzioni uniche alle quali non si sarebbe magari potuti arrivare da soli, su un’isola deserta, con mesi e mesi a disposizione. È tutto parte del sistema.

Ultima domanda. So che uno dei suoi interventi è stato chiamato “Visual Effects in Film – Art, Craft, and (Sometimes) Bad Movies”: perché un nome simile?

È una domanda che in un certo senso tocca un argomento di cui abbiamo già discusso. Potremmo parlare giorni e giorni di come realizzare un film, è incredibilmente complicato, ma c’è una sorta di inspiegabile magia che lega assieme il regista e le migliaia di persone che nel loro piccolo contribuiscono – un pezzetto alla volta – alla creazione di un film. Non è compito del singolo farlo funzionare ma nemmeno della squadra, perché come dicevo prima il processo di creazione è del tutto imprevedibile ed è inutile focalizzarsi su quale tipo di prodotto verrà realizzato o come potrà essere recepito dal pubblico, perché il risultato potrebbe essere completamente diverso. Il lavoro di persone come me è mettere insieme i pezzi affinché ne esca un prodotto completo: come verrà accolto dagli spettatori è un problema che non mi devo porre, altrimenti mi ostacolerebbe e basta.
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