Scott Pilgrim vs The World, consacrazione cinematografica di un cult fumettistico

Scott Pilgrim vs The World: quando un fumetto strepitoso diventa un film travolgente, simbolo di come passare dai comics al cinema possa portare a grandi successi

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a cura di Alessandro Tonoli

 Scott Pilgrim vs The World: come un cult del fumetto trova problemi al botteghino? Il mondo cinematografico a volte sa essere spietato. L’incasso generato dalla distribuzione di un film nelle sale è un risultato talmente enigmatico da annullare la gran parte delle regole messe a manuale in fatto di promozione di un prodotto. Ingenuo è quel regista che, di fronte alle lodi delle anteprime, può starsene sereno ad aspettare semplicemente che il mondo reagisca in massa al richiamo generato dalla bellezza già comprovata della sua opera. Il successo di una distribuzione cinematografica è determinato da una lista di fattori praticamente infinita: qualità delle operazioni di marketing, investimento in queste, “desire” generato nel pubblico, interesse per il tipo di soggetto scelto, periodo di uscita. Un sacco di cose insomma.

E la qualità? Beh, la qualità è uno di questi elementi, sì. Ma non è così determinante. O perlomeno, la qualità, poche volte, da sola, è riuscita realmente a fare la differenza. Proviamo a immaginare gli incassi che avrebbe generato il “Joker” di Todd Phillips se lo stesso film avesse avuto come personaggio principale un signor nessuno. Uniamo una qualità similare ad un soggetto non di richiamo, e possiamo stare certi che le prime difficoltà inizieranno perlomeno a fiorire.

Per fare esempi concreti, vi presentiamo l’esempio di “Scott Pilgrim Vs the World”, film di assoluta qualità, ma rivelatosi deludente al botteghino. A dieci anni di distanza dalla sua uscita nelle sale il ricordo delle sue avventure è decisamente sbiadito, nonostante di frecce al suo arco ne avesse più d’una. E non parliamo della sola qualità. Osservandolo in retrospettiva, il suo insuccesso commerciale appare ancora più curioso: Scott Pilgrim era una di quelle rare opere capace di predire il gusto del grande pubblico. Il film intercettava in anticipo la vasta presa che il linguaggio dei fumetti e i videogiochi (principalmente) avrebbero avuto sulle varie platee, definendo l’attuale pop-colture. Uscito nel 2010 con la regia di Edgar Wright, la trasposizione della pluripremiata serie a fumetti di Bryan Lee O'Malley, era inoltre l’esempio perfetto di adattamento cinematografico fumettistico, nonostante l’opera di partenza, caratterizzata da uno stile narrativo assolutamente peculiare, non si prestasse certo ad una facile traduzione. Ulteriore motivo per cui vale la pena riscoprire tutti i punti di forza di questo piccolo gioiello del cinema nerd.

Una vita niente male

Partendo col parlare dell’opera a fumetti, Scott Pilgrim, in soli sei (densissimi) volumi, aveva la capacità di far entrare il lettore all’interno di un mondo dalle regole tutte “nuove”. L’intento della storia non era solo quello di descrivere la vita di un nerd. L’ambizione dell’autore era quella di spalmare tutti i vari elementi, grafici e narrativi, caratteristici del mondo shonen manga e di quello videoludico, all’interno della vita di un ragazzo qualunque, alle prese con i “mostri” del quotidiano. Sfide comuni, che per Scott si sono tradotte nella necessità di sconfiggere i sette (malvagi!) ex-fidanzati della sua nuova ragazza, la bella Ramona Flowers, da poco arrivata in città.La capacità di far conciliare le intromissioni improvvise di superbattaglie assurde o il guadagno di punti esperienza, o vite extra, in un mondo altrimenti uguale al nostro, era un fattore assolutamente distintivo e che rendeva l’opera trasversale su più generi di pubblico. Chi aveva intenzione di leggersi una storia di formazione non era obbligato a rinunciare a qualche buona scazzottata, a ninja, combattimenti telecinetici, etc. Chi invece era alla ricerca proprio di quegli specifici elementi aveva modo di esplorare un genere più “adulto”.Adulto, sì. Perché Scott Pilgrim, ha un preciso intento tematico: descrivere lo stallo della post-adolescenza, quel difficile momento di passaggio che consente di diventare adulti, tramite l’accettazione graduale delle responsabilità.

La bravura di O'Malley è stata proprio quella di inquadrare un soggetto in cui molti si sarebbe potuti identificare, non rendendolo in alcun modo esclusivo; Scott non è un nerd, è un ragazzo come tanti che si destreggia tra qualche videogioco, la sua band, e il suo gruppo di amici. Questo è il nucleo del suo mondo che, come titola il primo volume (Una vita niente male) è tutt’altro che un ritratto di una vita infelice. Anzi. La vita è tanto bella e rilassata che passa quasi totalmente la voglia di cambiare. L’intento principale dell’opera è proprio quello di portare Scott e il suo gruppo di amici fuori da queste sabbie dolci, ma che rendono immobili. È un’opera di formazione in sordina, fortemente incentrata sulla comedy, capace di rivelarsi affilata quando decide di incidere messaggi importanti sui suoi personaggi (e sul lettore).

Tornando all’ambito cinematografico, la difficoltà di trasposizione, stilistica e narrativa, non era certo da sottovalutare. Condensare inoltre il percorso di maturazione del personaggio principale poteva rivelarsi controproducente. Saggiamente, Wright decide di giocarsi questa partita a metà, puntando tutto sulle armi concesse dal grande schermo, e dai 120’ minuti di formato. Scott Pilgrim Vs the World non carica di eccessive responsabilità la sua narrativa. Il film rimane un prodotto leggero quanto i suoi personaggi, di cui non scalfisce che la superfice, o poco più. Nonostante queste rinunce, la frenesia dei dialoghi, la loro taglienza, e l’ironia da prendere (e non prendere) sul serio, riescono comunque a ricreare quei personaggi magnetici che su carta risultavano tanto amabili. Il set di ruoli torna così ad essere riprodotto: c’è lo sfigato che piace; la ragazza misteriosa, la fan-girl sopra le righe, e tutti gli altri personaggi caratteristici che un appassionato di musica underground non faticherà a riconoscere.

L’aderenza tra personaggi cartacei e controparti attoriali è stupefacente. I volti, le espressioni, le interpretazioni, trapassano praticamente le pagine dell’opera per finire spiattellati sullo schermo senza che un dettaglio risulti fuori posto. Scott Pilgrim risulta un film capace di riassumere i principali eventi del fumetto, in 112 minuti di pura frizzantezza e divertimento. Eppure le sue vere qualità sono altre.

Scott Pilgrim vs Cinema vs Fumetti

Il piatto forte della trasposizione cinematografica di Wright sta tutta nel particolare timbro registico del cineasta. “L’albe dei morti dementi” (2004), titolo grazie a cui era riuscito a farsi notare, è un perfetto esempio del suo stile così caratteristico. Già all’interno della pellicola citata non si faticava a distinguere l’estro nel muoversi tra una pellicola di genere e la sua versione parodistica. L’abilità del regista, rimarcata poi in tutte le sue successive produzioni, sta proprio nel riuscire a destreggiarsi nelle situazioni assurde senza mai eccedere, creando film capaci di essere tanto folli, quanto in grado di sviluppare la loro trama in maniera intrigante. Il massimo per uno spettatore: ridere di gusto, senza rinunciare a quanto di buono hanno da offrire le produzioni di genere. Capacità che risulta di fondamentale importanza nel momento in cui ci si trova ad adattare un’opera a fumetti che vuole raccontare in maniera totalmente sregolata la vita di un ragazzo di Toronto costellata di follie geek.

La vera potenza di Scott Pilgrim risiede in tutte quelle micro trovate registiche che riescono a trasportare lo spettatore, in pochi secondi, dal contesto realistico alle regole folli di quel mondo, dove i vegani hanno poteri telecinetici e le ragazze possono viaggiare in tunnel iperspaziali, con una soluzione di continuità che risulterebbe impensabile. L’amalgama degli elementi, la ritmica di transizione, sono così ben inseriti in tutto il minutaggio della pellicola che lo spettatore non fatica a stare al gioco anche se si sconfina nell’assurdo. Si può così godere interamente di tutte le trovate visive di cui il film è ricolmo. Le formule utilizzate non si ripetono mai, le onomatopee riempiono lo schermo e il ritmo dei dialoghi non permette di fermarsi un secondo a riflettere. Ci si lascia sommergere di continuo da una trovata via l’altra.Se la narrativa perde di qualità rispetto alle pagine fumettistiche (data la concentrazione tempistica dello sviluppo dei personaggi) il film di Scott Pilgrim riesce invece a valorizzare le caratteristiche del medium cinema, esaltando le sue proprietà visive e sonore, andando ben oltre rispetto a quanto presente nell’opera di base. La musica, già centrale nelle vicende dei personaggi, diventa qui un elemento onnipresente, mostrando l’abilità di Wright nel gestire sapientemente l’inscenamento della stessa; caratteristica che sarebbe culminata nel suo (ancora più affinato) “Baby Driver”.

In conclusione...

L’adattamento cinematografico di Pilgrim è, insomma, l’esaltazione stessa del medium in cui sceglie di reincarnarsi. Cambia pelle, ma non anima. Il ragazzo di Toronto trova un abito cucito su misura tramite cui presentarsi anche a chi non è pratico di fumetti, e riesce a non perdere il magnetismo che aveva portato la serie ad essere considerata un instant-cult. L’opera di Wright è un esempio di come il mezzo con cui si comunica un messaggio abbia delle caratteristiche peculiari che devono essere esaltate, se si vuole arrivare ad esaltare lo spettatore.Trattandosi di un esempio, il nostro compito è quello di impegnarci a non far sì che esso venga dimenticato.

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