Shrek, l’orco verde dal cuore d’oro compie 20 anni

A vent'anni dalla sua uscita nelle sale italiane, ripercorriamo l'importanza di un film unico come Shrek

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a cura di Simone Soranna

Esattamente vent’anni fa, il 15 giugno 2001, gli schermi italiani iniziavano ad accogliere nelle loro sale le avventure dell’orco più celebre della Storia del cinema: Shrek. Dopo essere stato presentato in concorso al Festival di Cannes nel maggio dello stesso anno (privilegio riservato a pochissimi lungometraggi animati nell’intera storia del prestigioso ed esclusivo festival francese), il film arriverà a toccare l’apice del successo la notte del 24 marzo 2002, quando si aggiudicò il primo premio Oscar di sempre come miglior lungometraggio animato. Chi l’avrebbe mai detto che, ancora oggi, avremmo ricordato quella data come una sorta di spartiacque? C’è un prima e c’è un dopo Shrek. Il cinema d’animazione mainstream, infatti, non sarà più lo stesso dopo aver assistito alle scorribande di Shrek, Fiona e Ciuchino.

Shrek: un prologo folgorante

Tutta la forza innovativa di Shrek è presente sin dai primissimi minuti del film. Il prologo del lungometraggio infatti si apre in maniera molto classica. In quegli anni (e forse anche oggi), il canone classico era scolpito dal cinema di animazione Disney. Shrek si presenta quindi agli spettatori di tutto il mondo provando a parodiare un qualsiasi lungometraggio partorito dalla Casa di Topolino, sua principale rivale in affari.

Shrek si apre quindi con un libro di favole che viene sfogliato da una narratore occulto mentre, con una voce fuori campo, questi legge ad alta voce le favolistiche avventure contenute al suo interno. La storia narrata, in quanto abbiamo detto trattarsi di un classico, non può che riguardare principi, principesse e draghi sputafuoco. Tutto sembra volgere verso l’inevitabile e scontato finale (il bacio salvifico del vero amore) quando all’improvviso il racconto si interrompe proprio a causa del narratore che, decisamente scettico su quanto letto, strappa la pagina dal libro, si mette a ridere e la usa come carta igienica.

Quando per la prima volta in assoluto l’orco verde Shrek entra in scena, sta uscendo da una latrina ed è intenzionato a dirigersi nella sua amata palude dove lo attendono una doccia di fango, un dentifricio all’essenza di larva e una serie di indicibili attività che per lui, invece, sono il massimo della vita. Si tratta di pochi minuti, accompagnati musicalmente dalla hit All Star del gruppo punk rock Smash Mouth, in cui però abbiamo a che fare con una sorta di manifesto poetico del percorso intrapreso dalla Dreamworks e al contempo un antipasto del percorso che il cinema d’animazione avrebbe intrapreso negli anni seguenti. Procediamo con ordine.

Disney versus Dreamworks, eterni rivali

La parodia nei confronti del canone, quindi del classico Disney, è chiaramente alla base del progetto. Dreamworks, anche se sarebbe meglio parlare del dirigente Jeffrey Katzenberg, ha il dente avvelenato per alcuni trascorsi (negli anni Novanta, la decade di massimo splendore della Casa di Topolino, Katzenberg era a capo dei progetti più celebri ma una mancata promozione lo mandò su tutte le furie) e ha sete di vendetta. Tuttavia, la caricatura del mondo delle favole e il consolidamento di una struttura narrativa simmetricamente opposta a quella della fiaba tradizionale non sono solamente intuizioni dovute a una mera questione personale.

Shrek, che è possibile recuperare comodamente sottoscrivendo un abbonamento a Netflix o Amazon Prime Video, prende piede dal modello Disney per poi discostarsene palesemente. Le antitesi sono molteplici: l’orco cattivo è il protagonista mentre il principe azzurro l’antagonista; la bella principessa è una maleducata guerriera e il cavallo bianco dell’eroe un asino petulante; la palude sporca e puzzolente è il vero reame a cui ambire; Shrek non cerca la gloria ma brama la sua solitudine; sul finale del film non sarà la bestia a trasformarsi in bella ma viceversa e via dicendo.

Tutti questi dettagli sono mirati a far apprezzare il film a un target di riferimento ben preciso: quello degli emarginati. La poetica degli esclusi è un po’ il segno di riconoscimento di Dreamworks sin dagli albori (Z la formica). Qui però trova la sua maturità più compiuta e completa, riuscendo a innalzare il valore del diverso, del mostro e facendo empatizzare con l’orco verde dal cuore d’oro tutta una fetta di pubblico che non riusciva a rispecchiarsi negli animali antropomorfi di Disney, né soprattutto con le loro melense canzoni. Shrek, quindi, decide di sporcarsi le mani.

Fa suo uno humor nero politicamente scorretto e si lascia serenamente affiancare dalla musica punk rock. La ricetta funziona eccome. Non solo è la rivincita di Katzenberg su Disney, ma è anche la rivincita del comune, del quotidiano sul mondo idealizzato e magico delle favole.

Un effetto a cascata

Alla stessa maniera, non solo Shrek diventa il manifesto di una casa di produzione ma, soprattutto dopo il grande successo coronato appunto dall’Oscar, influenzerà la maggior parte dell’animazione mainstream nelle decadi successive. È infatti innegabile che oggi, a distanza di vent’anni, questo settore abbia probabilmente risentito più dello stile di Dreamworks invece che di Disney o Pixar. Si pensi alla poetica e alle caratteristiche di case come Aardman, Illumination, Blue Sky o Laika. Tutte major caratterizzate da un andamento filmico scanzonato e adulto, che non disdegna l’uso di musiche pop e cede al fascino per la figura del così detto cattivo.

Film come Cattivissimo me, Coraline e la porta magica, Pets, L’era glaciale, Pirati – Briganti da strapazzo sono tutti stati influenzati dalla nuova corrente cinematografica inaugurata con Shrek. Grazie a quel film, il mondo del cinema di animazione mainstream ha iniziato, anche in occidente, a essere seguito, stimato e apprezzato da un pubblico sempre più adulto: prima cercando di trovare l’apprezzamento anche dei genitori dei bambini giunti in sala, poi provando a coinvolgere gli adolescenti (da sempre i più restii ad apprezzare a tale tecnica di racconto filmico).

Gli anni Duemila, sotto diversi punti di vista tra i quali anche quelli denotati dal cinema di animazione, sono stati anni orrendi e cattivi. L’immaginario del grande schermo ha dovuto fare i conti con la presa di coscienza di non essere più il vero catalizzatore di sogni e creatività. La potenza della sala cinematografica ha poco alla volta ceduto il passo di fronte ad altre tipologie di intrattenimento (da quello seriale a quello online, passando ovviamente per fumetti e videogiochi) che sono state maggiormente in grado di intercettare il gusto del pubblico. Ecco allora che il cinema si è fatto sempre più piccolo e comune, e meno sensazionale, magico o favolistico.

Il cinema si è reso sempre più brutto. In tal senso un film come Shrek ancora oggi ha un’importanza estremamente ampia. Si tratta di un lungometraggio che con la sua estetica e la sua forza narrativa politicamente scorretta ha anticipato i tempi che sarebbero giunti. Inoltre ha permesso di fare mente locale sulla strada da percorrere nel nuovo millennio e ha spalancato gli orizzonti di un’industria da sempre un po’ troppo pigra e miope nel pensare solamente al proprio orticello.

L’orco verde e il suo logorroico amico a quattro zampe hanno esternato un sentimento che il pubblico di tutto il mondo covava da tempo e non era ancora riuscito a vedere rispecchiato dal grande schermo. Dreamworks ha così gettato la maschera e premiato la sincerità di chi, semplicemente perché diverso rispetto alcuni standard, non teme ora di mettersi in mostra in prima persona. Meglio fuori che dentro insomma, proprio come quando si tratta di dover rigurgitare il pranzo di fronte a una principessa.