Spiderhead, recensione: lo spettro umano vivisezionato

Spiderhead di Joseph Kosinski è un film complesso che rompe i limiti della finzione. Sarete pronti ad affrontarne le dinamiche intime?

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a cura di Nicholas Massa

L’essere umano è complicato. Lo spettro emotivo che ne compone le emozioni più intime resta tutt’oggi, anche a discapito degli enormi passi avanti nel campo della psicoanalisi, uno dei terreni più complessi da esplorare. Se si fonde a tutto ciò una riflessione legata alla morale e alle responsabilità soggettive e sociali di tutti i giorni, ne fuoriesce senza dubbio un ragionamento pronto non soltanto ad abbracciare quello che abbiamo dentro, ma il modo in cui il nostro stesso essere s’interfaccia con un contesto apparentemente razionale: la società. Spiderhead, film attualmente distribuito da Netflix e prodotto da The New Yorker Studios, costruisce le sue intenzioni concettuali partendo da tutto ciò, per poi prendere una strada aperta a parecchie domande.

Il film è diretto da Joseph Kosinski (regista, fra le altre cose, di Top Gun Maverick) e si basa su una short story del 2010 pubblicata sul The New Yorker dal titolo Escape From SpiderHead, firmata da George Saunders, scrittore americano celebre per i suoi racconti satirici e dalla verve tragicomica, attraverso cui pone e si pone verso dilemmi morali contemporanei. In esso ritroviamo perfettamente lo stile del suo autore originario in un vero e proprio viaggio dalle sfumature plurime seppur concentrato, formalmente parlando, in un luogo fisso, immobile e soffocante. 

Spiderhead è un film dall’impianto estremamente emotivo, un thriller fantascientifico in cui i richiami a scrittori come Orwell non tardano a farsi sentire nell’immediato. Lo studio dell’essere umano al centro di ogni cosa, l’analisi delle sfumature più intime del libero arbitrio interiore, in relazione a un controllo dall’alto che cerca di carpirne i limiti e le potenzialità. Tutto il mistero della sua trama si gioca, infatti, attraverso ciò che non viene detto e opportunamente celato. All’ombra di una scrivania in cui una penna cerca di mantenersi distaccata fino alla fine.

Spiderhead parla di tutti noi 

Nel cuore di Spiderhead troviamo il centro di detenzione che fa da titolo alla pellicola, un luogo distante dall’umanità, ubicato su un’isola che sembra lontanissima da tutto e costruito seguendo lineamenti architettonici freddi e geometrici. All’interno di questo centro i detenuti sono sottoposti, attraverso uno speciale macchinario posto sulla loro schiena, ad alcuni trattamenti sperimentali contraddistinti da ignizioni di farmaci. Le apparenze sono centrali nella lettura di un film del genere in cui i contrasti, non soltanto concettuali e morali, ma anche estetici, giocano un ruolo di rilievo. Il centro di detenzione, infatti, è lungi dall’essere un carcere duro, piuttosto si presenta come una specie di resort disegnato da tutti i confort del caso.

Qui i detenuti spendono i loro anni di reclusione fra una sperimentazione e l’altra, in un clima di apparente serenità disturbato soltanto dalle iniezioni suddette. Nessuno conosce i crimini dell’altro e le regole di controllo non vietano a nessuno d’intrattenere un rapporto civile anche con i carcerieri, i quali non si elevano mai troppo sfruttando la propria posizione all’interno della struttura. Steve Abnesti (Chris Hemsworth, celebre per il suo Thor all’interno dell’attuale MCU) è colui che conduce gli esperimenti, non soltanto iniettando dei particolari farmaci nei detenuti, ma parlando con loro fra un test e l’altro. Il suo resta il personaggio più enigmatico da scoprire e cercare di comprendere. Difficile da etichettare e fondamentale collante dell’intera storia.

Il punto di vista della vittima in Spiderhead

Poi abbiamo Jeff (Miles Teller, attualmente celebre per il suo ruolo in Top Gun Maverick) uno dei carcerati. Attraverso di lui entreremo nell’intimo delle sperimentazioni e nelle dinamiche interne alla struttura stessa, fatte di solitudine e di redenzione. Il regista sfrutta questo personaggio non soltanto per affrontare i dettagli più oscuri della trama, ma anche per analizzare le dinamiche interiori legate alle scelte che si compiono nel corso della vita. Il passato e il presente entrano in gioco in una narrazione che si muove continuamente di bocca in bocca, spogliandosi gradualmente di tutta la sua iniziale oggettività, per approdare, in seguito, a una soggettività dolorosa e distruttiva. 

Gli esperimenti al centro di Spiderhead vedono questi esseri umani manipolati da alcuni farmaci che ne alterano sia la percezione esterna che interna, quindi. Alcuni di questi sciolgono la loro lingua facendoli parlare senza freno, altri ne incrementano a dismisura gli appetiti sessuali, ed altri ancora le paure. Il controllo e il dosaggio passano attraverso le strumentazioni a disposizione, in un distacco che rassicura verso eventuali effetti collaterali. “Acconsento”, questa è la frase che avvia ogni cosa, proferita dai carcerati stessi e simbolo principale di un libero arbitrio curiosamente labile dall’inizio alla fine della storia.

L'attenzione ai dettagli è fondamentale

Essendo il cinema innanzitutto linguaggio visivo, l’attenzione ai dettagli formali resta uno dei valori principali di questa pellicola. Spiderhead, infatti, non parla soltanto attraverso gli eventi intorno ai suoi personaggi principali, o tramite le loro esperienze soggettive, ma anche sfruttando le singole inquadrature a costruirne la struttura. La scenografia, ad esempio, è estremamente indicativa della condizione mentale di tutti i suoi protagonisti, con la sua estetica fondamentalmente asettica, fredda e geometrica. Il modo stesso in cui il regista inquadra i personaggi e gli ambienti in cui si muovono, soffermandosi sulle piccolezze impercettibili del loro quotidiano essere, oppure allontanandosi con grandangoli e campi lunghi o totali, ne evince una riflessione stilistica perfettamente allineata con l’intero mood di un film che tenta in tutti i modi di escluderti dalle sue dinamiche più intime.

Fuso a tutto ciò troviamo una particolare verve tragicomica giocata attraverso le singole interpretazioni degli attori e soprattutto la colonna sonora, caratterizzata da brani che entrano in gioco in momenti sia concitati che di grande movimento narrativo, quasi a contrastarne l’identità di genere principale. Ne fuoriesce una pellicola che gioca continuamente non soltanto con il suo cast e personaggi, ma con lo spettatore stesso, in una partita imprevedibile, difficile da etichettare e abbastanza enigmatica nella sua interezza.