Storie senza metodo: Appunti su Harry Potter - prima parte

Storie senza metodo: Harry Potter, come rileggere la saga del celebre maghetto creato da J.K Rowling insieme a Jacopo Masini

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a cura di Jacopo Masini

Di recente ho riletto tutti e sette di volumi della saga di Harry Potter. Una vera e propria full immersion. Oltre tremila e quattrocento pagine di avventura, ma, soprattutto, di grande letteratura.

In quelle tremila e quattrocento pagine J. K. Rowling ha costruito un mondo. E la costruzione di un mondo – con le proprie regole, il proprio paesaggio, la propria popolazione di personaggi – è una delle prerogative di tutte le forme di narrazione. Nel caso specifico, J. K. Rowling lo ha fatto in maniera sontuosa, dando vita a una delle più popolari e magnetiche saghe degli ultimi trent’anni. O, probabilmente, degli ultimi due o tre secoli. Sono pronto a scommettere, infatti, che Harry Potter sia destinato a insediarsi nella storia della letteratura come una sorta di mito perenne, al pari dei poemi cavallereschi, o delle opere di Shakespeare (abbondantemente citate nel corso dei sette volumi), o dei grandi poemi epici del passato.

Harry Potter, un viaggio incredibile

In altre parole, com’è già accaduto e continua ad accadere ad almeno un paio di generazioni di lettori, Harry Potter è destinato a diventare una sorta di scrigno delle interrogazioni, uno specchio delle brame – no, non l’ho scritto a caso – in cui vedere proiettate le proprie domande per ricevere in cambio risposte inaspettate, un poema in prosa che affonda lo sguardo nel mistero della nascita, della crescita, dell’invecchiamento e della morte. Sì, perché Harry Potter, prima di tutto, è una lunga peripezia nei meandri del nostro tortuoso rapporto con la mortalità. E i doni della morte che danno il titolo all’ultimo volume – in modo molto curioso, come fa notare Laura Anna Macor, nel suo saggio intitolato Filosofando con Harry Potter, pubblicato da Mimesis, dal momento che quei doni non sono la vera posta in gioco – rappresentano in realtà il dono di sapersi mortali. Ma ci arriveremo alla fine di questa serie di appunti sul capolavoro della Rowling, questa è solo la prima puntata. E, per partire, ho deciso di soffermarmi sul titolo del primo capitolo del primo volume: Il bambino sopravvissuto.

Non è un titolo qualsiasi. Non lo è perché cattura immediatamente l’attenzione ed è quindi un ottimo gancio narrativo, ma soprattutto perché, che ce ne accorgiamo o meno, attiva alcuni recettori mitici – per così dire –, fa subito viaggiare la nostra immaginazione in territori in cui la religione, la storia e la spiritualità si fondono. Harry, relegato nel sottoscala di Privet Drive numero 4, abitazione della famiglia Dursley, composta da Vernon e Petunia – gli zii di Harry – e Dudley – l’insopportabile cugino –, appartiene a una tradizione di bambini sopravvissuti. Di infanti che qualcuno ha cercato di uccidere in culla, che hanno rischiato di morire in fasce e che sono sopravvissuti in maniera rocambolesca. Ad esempio Mosè e Gesù Cristo.

È in quel solco – con tutto il rispetto del caso e in maniera favolistica e blanda, come si addice a un racconto fantasy – che J. K. Rowling inserisce la sua creatura sin dall’inizio, affidandone la salvezza alle cure di una schiera di maghi e streghe che zia Petunia – sorella della madre di Harry – rifiuta di riconoscere. La magia, per la zia e per tutta la famiglia Dursley, non esiste: la realtà è un angolo piccolo borghese di un sobborgo britannico, in cui il marito lavora, la moglie si occupa della casa, i figli ingrassano, la televisione occupa il tempo libero e le buone maniere sono tutto ciò che dovrebbe regolare la convivenza. Morte, depressione, crudeltà, così come fratellanza, lotta per il cambiamento e speranza sono bandite: vige la tranquilla disperazione di cui nemmeno i Dissennatori potrebbero nutrirsi (basti pensare allo shock del povero Dudley quando ne incontrerà uno da adolescente, ma andiamo per gradi).

Quindi, Harry è un bambino salvato. La sua salvezza è insieme la sua condanna, come sta a testimoniare la cicatrice impressa sulla sua fronte. Salvezza e condanna sono così indissolubilmente intrecciate che gli Horcrux – ne parleremo alla fine – riguardano direttamente la vita di Harry: Voldemort, il mago che ha ucciso i i suoi genitori e che ha tentato di uccidere anche lui senza riuscirci, rischiando, al contrario, di uccidere se stesso, ha obbedito a una profezia nel tentativo di dominare la morte, nel desiderio di governare il mondo con le Arti Oscure. Ma la sua ansia di dominio e sterminio lo ha indissolubilmente legato a Harry (e persino le loro bacchette lo sono): il loro destino non potrà essere sciolto, se non con la scomparsa di uno dei due. Il perno di tutta la loro lotta, che corre sottotraccia per tutti e sette i volumi – sebbene Voldemort entri in scena in rarissime occasioni e soprattutto verso la fine della saga – è il loro rapporto col lutto, con la morte e con l’accettazione della mortalità.

Vita e morte in Harry Potter

Ma prima di arrivare a quel culmine, cioè alla fine di una delle storie più stratificate e meglio congegnate che possa capitare tra le mani di un lettore dai dieci ai centodieci anni (anche oltre, non mettiamo limiti alla buona sorte), la Rowling compie un sacco di magie riconoscibili e che non hanno a che fare con incantesimi, bacchettie, erbologia, pozioni, trasfigurazioni, ecc..

Per prima cosa, si affida completamente al racconto, cioè alla storia. In oltre tremila e quattrocento pagine non ci sono pipponi, spiegoni, massime di vita, aforismi che dovrebbero ammaestrare il lettore, ma tutto ciò che accade e che leggiamo è affidato alla narrazione. La Rowling fa esattamente quello che insegnano le scuole di scrittura creativa americana: mostra e non dice. Show, don’t tell. Lo so già, qualcuno dirà: non è vero, ci sono spiegoni e aforsimi, ci sono eccome.

In realtà, no. O meglio, quando ci sono non sono mai affidati al narratore – alla voce che racconta la storia –, ma a uno dei personaggi. E fa una enorme differenza, perché i personaggi esprimono una polifonia di punti di vista, che possono anche contraddirsi; la voce del narratore, specie se in terza persona, quindi esterna alla narrazione, tende a esprimere un punto di vista quasi assoluto e le sue affermazioni suonano apodittiche e perentorie. Insomma, dei pipponi. Ma la Rowling non lo fa mai.

In secondo luogo, tutta la saga è intessuta con straordinaria intelligenza architettonica, governata da una eccezionale simmetria e da una capacità di rammendo di personaggi e fatti che rendono giustizia ai termini di trama e ordito, che valgono nella narrazione, così come nella tessitura. Tutto ciò che accade trova, prima o poi, una risposta. Anche centinaia di pagine dopo, anche quando ce n’eravamo dimenticati. E vale anche per il destino dei personaggi, tanto che la nuova traduzione della saga ha dovuto fare i conti col peso e il significato dei nomi di alcuni personaggi, ad esempio Neville, che nella prima traduzione era Paciok.

Quel Paciok, che riecheggiava in italiano la sua indole da buffo pacioccone un po’ pasticcione, non teneva conto – e non poteva tenerne conto, visto che gli ultimi volumi sarebbero usciti anni dopo – della crescita di Neville, della sua importanza nella risoluzione della lotta, della sua straordinaria forza e della sua tragica storia.

Ma la Rowling tutto sapeva e tutto governava: non a caso, ha sempre dichiarato di essersi messa al lavoro solo dopo aver avuto chiaro in testa tutto ciò che sarebbe avvenuto nei sette volumi della saga. Sette volumi che coincidono con i sette anni scolastici di Hogwarts, la scuola che tutti – o quasi tutti: qualche arido di cuore c’è sempre – avremmo sempre voluto frequentare. Sette anni scanditi da riti espliciti e impliciti, a partire dalla distribuzione nelle Case per opera del Cappello Parlante. (Piccola parentesi, quindi la apro davvero: una delle cose curiose è che Harry, dopo il primo anno, nei due anni successivi salti l’assegnazione alle Case. Niente accade per caso, in Harry Potter. Bisognerebbe indagare meglio. Chiusa parentesi).

E quei sette volumi, per come la vedo io, hanno a loro volta una perfetta simmetria. Sono divisi, cioè, secondo lo schema 3-1-3. I primi tre volumi sono una parte introduttiva, che fonda il mondo di Harry, introduce quasi tutti i personaggi che appartengono alla sua cerchia e ci immerge nella lotta a venire. Il fuoco del racconto è sempre accanto a Harry, non ci allontaniamo mai da lui (nemmeno quando compie gli anni, sempre da solo, nella sua stanzetta di Privet Drive numero 4, e tutti quelli che compiono gli anni d’estate gli vogliono ancora più bene), ma poi, all’inizio del Calice di Fuoco, cioè del quarto volume, ecco che succede qualcosa: il libro inizia e siamo da un’altra parte, insieme a Voldemort e Codaliscia, lontani da Harry.

C’è una cesura. E il quarto volume rappresenta un passaggio iniziatico violentissimo, battezzato col fuoco, segnato dall’inganno e dalla resurrezione di Voldemort, avvenimento che chiude il volume, così come l’aveva iniziato.

Harry Potter e il Calice di Fuoco sta esattamente a metà. Riporta la morte al centro della scena – proprio al centro della saga –, mostra Voldemort alle prese col secondo tentativo di uccidere Harry, mostra il lutto e la violenza gratuita in tutta la sua brutalità e unisce ancora più profondamente Harry al proprio nemico. Li unisce nel sangue. Non aggiungo altro, per non rovinare la storia a chi ancora non l’ha letta. Ma è in questa perfetta simmetria che risiede l’equilibrio architettonico, che si conclude con gli ultimi tre volumi – simmetrici ai primi tre – in cui Harry diventa adulto. E il suo pessimo carattere, nel quinto volume, testimonia il passaggio da quell’età anfibia che è l’adolescenza a quella adulta, sebbene sia ancora molto giovane.

Sette volumi, come i sette pianeti di un tempo, come i sette giorni della settimana, come i sette vizi capitali, come le sette virtù teologali e come molte altre cose. Perché anche il sette è un numero che ha una storia mitica.

E in fondo, la magia, per quanto Harry sia un giovane mago alle prese con il più potente e perfido mago della storia, non ha esattamente un ruolo così centrale. È molto più importante la conoscenza.

Ma ne parleremo la prossima volta, nella seconda parte di questi appunti su Harry Potter.

 

Potete iniziare la vostra avventura con la saga di Harry Potter con il primo capitolo, Harry Potter e la Pietra Filosofale