Stranger Things: operazione nostalgia o serie cult?

Operazione nostalgia o serie cult? Stranger Things è ancora in bilico tra le due nature eppure convince praticamente tutti.

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a cura di Manuel Enrico

Kate Bush domina le classifiche con Running up the Hill. Al cinema, Tom Cruise fa sfaceli interpretando l’asso del volo Pete ‘Maverick’ Mitchell. Ora prima, di andare cercare inutilmente un Billy all’arancia e rimanere delusi, fermiamoci un attimo e accettiamo che per quanto lo vorremmo, non siamo tornati nel 1986, ma siamo sempre nel 2022. Maverick è invecchiato e l’immortale Tom Cruise festeggia i suoi sessant’anni, pronto a un ultimo giro di valzer nei panni di Ethan Hunt. E Running up that hill, oramai lo sanno tutti, è diventata un hit di recupero, spinta dall’emozionante utilizzo fatto del brano nella quarta stagione di Stranger Things, la serie cult di Netflix che ha fatto dell’effetto nostalgia la sua natura, quanto meno nella prima stagione.

Dalla prima apparizione del ka-tet di Hawkins, infatti, la serie creata dai fratelli Duffer è stata identificata come un prodotto confezionato sull’onda della nostalgia, giocando sul ricordo di chi quegli anni li ha vissuti e di chi invece li ha conosciuti di riflesso, avvolto da una serie di dinamiche che hanno voluto trasformare gli anni ’80 nel metro di paragone della perfezione. Una visione spesso sostenuta più dal ricordo personale, dal significato intimo di quanto vissuto, che ci ha condizionato nell’idealizzare questo periodo come la nostra pietra di paragone. Sotto questo aspetto, Stranger Things è stata la perfetta rappresentazione di questo ricordo persistente, una fotografia addolcita dalla memoria che ha riportato un’intera generazione a rivedersi nei giovani protagonisti, trovando anche una perfetta chiave stilistica per dare al concetto di narrativa young adult una definizione vincente. Questa sua natura, però, non rischia di condannare Stranger Things al rango di canovaccio per le operazioni nostalgia?

Stranger Things: simbolo delle operazioni nostalgia o serie cult?

In un periodo in cui i grandi cult del passato tornano prepotentemente sul grande schermo, come con Ghostbusters: Legacy, e in cui eroi del piccolo schermo anni ’80 sono oggetto di reboot che hanno mostrato nuove versioni di cult come McGyver e Magnum P.I., sarebbe ingiusto negare come ci sia una volontà di sfruttare l’elemento nostalgia per attirare un pubblico over 40 facendo leva su un mai sopito amore per i propri idoli adolescenziali. Anche correndo il rischio di infrangere un ricordo piacevole, considerata la difficile operazione di unire la memoria dello spettatore con la dinamica seriale moderna, diversa per mezzi e linguaggio da quella degli anni ’80. Stranger Things, pur avendo giocato con sottigliezza su questo legame emotivo col passato, è riuscita ad andare oltre alla mera meccanica della nostalgia, facendo proprio non solo un gusto citazionistico del periodo, ma tentando di infondere la grammatica narrativa del periodo all’interno della propria evoluzione.

Se la prima stagione, e parte della seconda, sono state profondamente arricchite da una vena citazionista che tendeva a essere in alcuni passaggi anche esasperata, con le seguenti stagioni questa tendenza si è affievolita, sfruttando un elemento essenziale specifico della serie: la crescita dei protagonisti. Da ragazzini nerd, inteso nel senso primigenio del termine, i quattro giovani protagonisti sono cresciuti, andando oltre una vita fortemente basata su Dungeons & Dragons e fumetti, complice la sempre maggior rilevanza dei fratelli maggiori e delle figure corollarie che li hanno affiancati. Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza è stato utilizzato dai Duffer come uno strumento per introdurre tematiche man mano più serie, che sono state trattate con la giusta delicatezza all’interno dell’economia dello show, rendendole parte integrante della caratterizzazione dei personaggi e spingendo Stranger Things sempre più lontano dalla limitante etichetta di serie nostalgica. Si può discutere sulla consistenza narrativa e sulla validità di alcune scelte, non sempre riuscite, ma è innegabile che i Duffer Bros si siano mossi verso una diversificazione della natura della serie, che ha mantenuto una propria vena nostalgica inserendola, in modo sinergico allo sviluppo dei personaggi, come un tratto caratteriale dei protagonisti. Una furberia, se vogliamo, ma che specie nella quarta stagione diviene anche un momento di rottura del ka-tet di Hawkins, con Lucas che si allontana dai suoi amici perché in cerca di un nuovo sé, meno ‘weird’ agli occhi degli altri.

In questa frattura si rileva la scrittura di una sceneggiatura che pur mirando a mantenere la propria identità, vuole evitare la trappola della ripetitività. Non si può parlare di perfezione, considerate alcune scelte poco felici, ma è un segnale della forza della serie, che cerca nuove direzioni da esplorare, pur rimanendo fedele al suo spirito originario. E lo fa anche sfruttando elementi narrativi che sono figli degli anni ’80, dalla parentesi action hero di Hopper in cui David Harbour per un secondo diventa nientemeno che il Conan di Schwarzenneger, all’utilizzo di campionature musicali per la colonna sonora figlie del periodo, il tutto con l’obiettivo non solo di far ricordare allo spettatore i ‘suoi’ anni ’80, ma anche di ricostruire stilisticamente la narrazione seriale del periodo.

Oltre la citazione

Tutto questo non è mero citazionismo, non è solamente far leva sulla nostalgia. Lo si potrebbe pensare limitandosi a vedere in questi omaggi ai cult dell’epoca l’unica forza trainante di Stranger Things, ma l’evolversi della stagione, specialmente con la quarta stagione, ha scardinato questo assoluto. Vengono citati Conan, gli X-Men e persino Carrie? Certo, ma la presenza di questa cultura condivisa non è il limite di una serie che, anche sul piano visivo, ha saputo dare vita a momenti di rara intensità, che nella quarta stagione sono quasi sempre focalizzati su Eddie (Joseph Quinn) e Maxime (Sadie Sink), i veri protagonisti dell’ultima infornata di personaggi. Istanti come la già arcinato Metallica Scene o le vicissitudini della giovane Max sono picchi emotivi che vanno oltre il mero citazionismo, non sono dinamiche nostalgiche ma intuizioni narrative che nascono da uno storytelling che può non piacere, ma che ha una propria anima e una precisa valenza. Emozionano, perché sono i personaggi ad essere scritti in modo coinvolgente.

Possiamo quindi liberare Stranger Things dall’etichetta di operazione nostalgia, di un Ready Player One a puntate? Accettandone la partenza basata proprio su questo espediente, la serie dei Duffer Bros ha mostrato di potersi spingere oltre questa definizione, mostrando una sempre meno sfacciata voglia di omaggiare un decennio culturalmente fecondo e assurto al ruolo di pietra di paragone, limitando easter egg e citazioni a un contributo nel mantenere autentiche le personalità dei protagonisti.  Stranger Things potrà esser nata come operazione nostalgia, ma il suo percorso la ha condotta a divenire una delle produzioni più amate e profonde del periodo, non priva di difetti e punti critici, ma capace di raggiungere il cuore degli spettatori con una potenza unica.