Tutto quello che (forse) non sapete su Lo Hobbit: La Desolazione di Smaug

Andiamo alla ricerca dei segreti e delle curiosità (dentro e fuori dal film e dal libro) sul secondo capitolo della trilogia cinematografica di Lo Hobbit

Avatar di Adriano Di Medio

a cura di Adriano Di Medio

Sono ormai diversi mesi che qui su Cultura Pop ci immergiamo regolarmente nell’immaginario tolkeniano. Il mondo creato dal Professore affascina milioni di persone in tutto il mondo, specialmente dopo aver “sfondato” le porte del grande schermo a inizio anni Duemila con la trilogia de Il Signore degli Anelli. Considerati i grandissimi risultati di questa produzione, era solo questione di tempo prima che il cinema si rituffasse nell’opera di J.R.R. Tolkien. E proprio questo è successo a inizio anni 2010, con l’adattamento di Lo Hobbit. Dopo un primo articolo più “generale”, oggi vogliamo parlare di quello che probabilmente è uno dei film più controversi di tutti: Lo Hobbit La Desolazione di Smaug.

https://www.youtube.com/watch?v=BgZ0S3vPDcs

Lo Hobbit e il problema della trilogia

Parliamo immediatamente dell’argomento più spinoso, ovvero l’adattamento. Questo perché, almeno all’inizio, La Desolazione di Smaug non sarebbe dovuto neppure esistere. Abbiamo infatti già visto che le voci di un adattamento di Lo Hobbit si erano susseguite fin dal gran successo de Il Ritorno del Re, ma una pre-produzione travagliata e le controversie sui nomi da coinvolgere avevano da subito reso il lavoro piuttosto complicato.

Le difficoltà erano sorte già a livello di sceneggiatura, in quanto si trattava di adattare a un piglio epico quello che in origine era nato come racconto fiabesco. Certo, già a una seconda lettura si capisce come la natura di fiaba per l’infanzia di Lo Hobbit è più che altro un travestimento concettuale. Ma appare anche chiaro come Tolkien scrisse l’esordio degli Hobbit come una storia “chiusa”, che tra l’altro in origine non aveva neanche pensato di includere all’interno di quello che poi diverrà noto come il suo legendarium. È rimasto in tal senso famoso l’aneddoto in cui nelle prime stesure il buon stregone grigio non si sarebbe dovuto chiamare Gandalf, bensì Bladorthin.

Un’altra controversia fu quella che ha avuto più attenzione mediatica: il numero dei film. L’idea iniziale infatti ne prevedeva due, titolati provvisoriamente Un Viaggio Inaspettato e Andata e Ritorno (oppure anche Racconto di un Ritorno). Dove il primo sarebbe giunto nelle sale proprio con questo titolo, Peter Jackson capì che, nonostante la sua brevità, Lo Hobbit aveva comunque molto da raccontare. Alla fine, in modo da collegarlo anche con il “passato futuro” di Frodo, decise di aggiungere materiali dalle Appendici de Il Signore degli Anelli e trasformare tutto nella trilogia che oggi conosciamo.

E quest’ultima trasformazione è, alla fine, il punto più controverso del Lo Hobbit cinematografico. Non sono stati pochi i fan che hanno criticato questa scelta, vista effettivamente come una pura trovata puramente commerciale. Una “sindrome” che purtroppo affligge un po’ tutte le saghe di successo, in cui o ci si ferma a una pellicola o ci si forza fino a tre. Ecco quindi che La Desolazione di Smaug al cinema replicò quello che ai tempi era stato Le Due Torri: l’episodio centrale di una trilogia, che in quanto tale è “come se non avesse né inizio né fine”.

L’Anello non lo vince neanche King Kong

C’è da dire che riprese in sé dei Lo Hobbit sono state lunghe, ma non hanno avuto lo stesso grado di “difficoltà” di quelle de Il Signore degli Anelli. Questo perché furono riutilizzati molti set e scenografie ai tempi costruite per la prima trilogia (molti di questi erano divenute attrazioni turistiche: la produzione aveva aiutato non poco l’economia neozelandese).

A fare da ulteriore collante intervenne l’uso assai più massiccio della computer grafica: il greenscreen era già stato ampiamente utilizzato già nei primi anni Duemila, ma il progresso tecnologico permise a Lo Hobbit di costruire ambienti e scenografie virtuali prima assolutamente inimmaginabili. In effetti, quando Un Viaggio Inaspettato uscì nel 2012, a sorprendere fu proprio lo splendore (anche fotografico) di ambienti, strutture e rocambolesche coreografie.

La difficoltà probabilmente era un’altra, e non viene spesso presa in considerazione perché puramente umana: la riluttanza di Peter Jackson. Prima di occuparsi de Il Signore degli Anelli, il regista neozelandese si era infatti fatto le ossa con i film splatter, ma aveva cominciato a lavorare alla trasposizione del capolavoro di Tolkien solo dopo che la Universal aveva rifiutato la sua idea di girare un remake di King Kong.

Il suo lavoro sulla trilogia de Il Signore degli Anelli è stato universale e l’ha consegnato alla gloria eterna, ma per Jackson era divenuta anche qualcosa di troppo grande. Probabilmente, come molti altri, Jackson era riluttante a tornare nella Terra di Mezzo perché voleva scrollarsi di dosso la nomea di regista dedito solo al fantasy. Tanto che la prima cosa che fece dopo aver concluso Il Ritorno del Re fu riprendere in mano King Kong, che la Universal stavolta finanziò senza batter ciglio. Uscito nel 2005, il film ha avuto un ottimo successo, ma non abbastanza perché Jackson smettesse di essere ricordato principalmente come regista di film fantasy. Qualcosa a cui lo stesso Peter (dopo un altro tentativo nel 2009, Amabili resti) decise di “arrendersi”, accettando nel 2010 di dirigere Lo Hobbit.

Beorn, il dimenticato

Se poi c’è un personaggio che in tutto Lo Hobbit e in generale nella storia di Tolkien è poco conosciuto, questo è Beorn. Gandalf lo descrive come un mutatore di pelle, eufemismo per indicare come egli sia in grado di trasformarsi a suo piacimento in orso. Tolkien lo concepì inizialmente con un altro nome, Medwed, e ne giustificò le facoltà trasformiste con un incantesimo apposito. Successivamente cambiò idea, preferendo lasciare al mistero della capacità innata questo suo potere del divenire orso.

Descritto come un uomo enorme dalla barba nera e dall’ascia proporzionata, Beorn è nato direttamente dall’immaginario dell’orso. Il suo nome originale è infatti molto simile alla parola медведь, “medved”, che in parecchie lingue slave (russo compreso) significa appunto “orso”. Anche il nome Beorn ha la medesima radice: non solo è molto simile a björn, termine norreno che vuol dire sempre “orso”, ma è anche il concentrato più “esplicito” di rimandi alla cultura norrena e vichinga. Di nuovo, l’ipotesi è che Beorn non fosse che una contrazione del nome Beowulf, “scomposto” in bee-wolf (letteralmente ape-lupo), elemento ricorrente in quanto Beorn viene dipinto come dedito all’apicoltura.

Il secondo invece è un particolare che si può cogliere solo tornando alla pagina scritta: la sua casa ha l’aspetto delle cosiddette “sale delle feste”, ovvero le case lunghe dove i monarchi vichinghi ospitavano i banchetti. A questo riguardo Tolkien, nelle illustrazioni disegnate per Lo Hobbit, da agli interni della casa di Beorn un aspetto inequivocabile. Anche la serata che Bilbo e la Compagnia di Thorin vi passano lascia poco spazio ai dubbi.

Lì cenarono, o meglio banchettarono, come non avevano più fatto dopo aver lasciato l’Ultima Casa Accogliente a oriente [Gran Burrone] e aver detto addio a Elrond. La luce delle torce e del fuoco tremolava attorno a loro, e sulla tavola c’erano due candele alte e rosse fatte con la cera delle api. Per tutto il tempo in cui mangiarono, Beorn con la sua voce profonda e tonante raccontò storie delle Terre Selvagge che si estendevano ai piedi di quel versante delle montagne, e specialmente del bosco scuro e pericoloso che si stendeva continuo da nord a sud a un giorno di galoppo davanti a loro, sbarrando la strada verso est, la terribile foresta di Bosco Atro.

(Lo Hobbit edizione Adelphi 2001, p.143)

Nella saga di Lo Hobbit Beorn è interpretato dall’attore Mikael Persbrandt, che lo rappresenta come un gigante pastore dall’atteggiamento diffidente nei confronti dei nani. In effetti qui il personaggio ha un modo di fare che (cannibalismo a parte) potrebbe ricordare quello del ciclope Polifemo nell’Odissea. Un’altra sua apparizione è nella graphic novel di Lo Hobbit di David Wenzel, dove è disegnato seguendo alla lettera il testo di Tokien, riportandone in fumetto pure il carattere incostante. All’inizio è diffidente e si dimostra anche freddo e brutale, ma la gratitudine lo trasformerà presto in un gigante dal cuore d’oro.

Tanto nel libro quanto nel film, Beorn accetta di aiutarli per la sua avversione nei confronti degli Orchi, contro i quali è particolarmente avverso al pari dei lupi. Tuttavia in La Desolazione di Smaug il ruolo di Beorn è piuttosto ridotto. Nella versione cinematografica compare appunto solo nella scena in cui accetta di aiutare Thorin e compagnia, mentre in quella estesa ha addirittura un dialogo con Gandalf.

Idealmente questa scena avrebbe funto da raccordo per legare gli eventi di Dol Guldur, in cui il Bianco Consiglio nel terzo film avrebbe affrontato un misterioso Negromante (che altri non era che Sauron in incognito). Comunque, dopo le sue azioni in Lo Hobbit di Beorn non si sa più nulla. L’unica altra volta che Tolkien lo nomina è in La Compagnia dell’Anello, quando Frodo si ritrova a parlare con Glòin, padre di Gimli.

Le notizie della Contea, a parte quelle riguardanti l’Anello, parevano piccole, remote e prive d’importanza, mentre Glòin aveva molto da raccontare a proposito degli avvenimenti nelle regioni nordiche delle Terre Selvagge. Frodo apprese che Grimbeorn il Vecchiofiglio di Beorn, era adesso il capo di molti Uomini robusti e valorosi, e che né un Orchetto né un lupo avrebbe osato metter piede nel suo paese tra le Montagne ed il Bosco Atro.

(Il Signore degli Anelli, edizione Bompiani del 2001, p. 292)

Il brutto affare di Tauriel

Dopo un personaggio ingiustificatamente poco apprezzato, è arrivato il momento di parlare di un’altra decisione controversa del film: Tauriel. L’elfa silvana è infatti un’invenzione della saga cinematografica di Lo Hobbit, e la giustificazione ufficiosa per la sua introduzione è appunto la necessità di inserire un ruolo femminile importante nelle pellicole.

Se vogliamo, Tauriel è anche una conseguenza dell’aver inserito Legolas all’interno della storia: il celeberrimo Elfo arciere infatti venne concepito da Tolkien solo ne Il Signore degli Anelli. Lo Hobbit descrive gli Elfi in maniera piuttosto “leggera”, ritraendoli come dediti alle feste e ai commerci con gli Uomini. Persino il loro re Thranduil in quelle pagine non viene mai chiamato per nome. Legolas stesso sarebbe nato solo molti anni più tardi durante la stesura del capitolo Il Consiglio di Elrond de La Compagnia dell’Anello, dove tra l’altro aveva ancora il nome provvisorio Galdor.

In ogni caso, anche la sottotrama amorosa che vede protagonista Tauriel insieme a Legolas e al nano Kili (rispettivamente un amore non corrisposto e dei sentimenti mai dichiarati) sono parimenti un’invenzione della sceneggiatura. La sua stessa interprete, l’attrice Evangeline Lilly, aveva fin dall’inizio messo in conto che i puristi non sarebbero stati d’accordo sull’inserimento del suo personaggio all’interno di Lo Hobbit.

Effettivamente è quel che avvenuto, ma i fan più attenti e i puristi sono stati scontenti di Tauriel per un motivo differente rispetto a quello temuto dalla Lilly. L’introduzione di un personaggio donna non è di per sé un male: a scontentare è stato il modo con cui Tauriel è stata scritta e inserita nel contesto tolkeniano, giudicato da molti come incoerente e piuttosto approssimativo. Un’elfa dichiaratamente giovanissima (600 anni, dove Legolas ne ha 1900 e Thranduil più di 3000) non avrebbe il coraggio di parlare in maniera così sfrontata con il suo re, né tantomeno Thranduil glielo permetterebbe. A fatica lo permette a Legolas, che prima che suo suddito è suo figlio.

Possono sembrare piccole cose pignole e artificiose, ma così sommate il ruolo di Tauriel (pure se alla fine ben reso dalla Lilly) finisce con l’auto-sminuirsi, annacquando pure la componente amorosa in una cotta dal sapore adolescenziale. Storia che tra l’altro finisce senza risposta, in quanto Tauriel sparirà nel nulla non essendo per forza di cose presente ne Il Signore degli Anelli.

Azog, Bolg e compagnia orchesca

L’altro grande cambiamento tra il Lo Hobbit cinematografico e quello letterario è l’introduzione dell’orco Azog. Ma a differenza di Tauriel, stavolta non si tratta di una totale invenzione da parte degli autori del film. Esattamente come la vicenda di Dol Guldur, si tratta di un personaggio tratto direttamente dalle Appendici de Il Signore degli Anelli. Qui viene narrato come Azog si fosse scontrato a singolar tenzone con Nàin nella battaglia di Azanulbizar, finendo però brutalmente ucciso dall’Orco che gli ruppe l’osso del collo.

Allora Azog si mise a ridere, e alzò il capo per lanciare un urlo di trionfo, ma l’urlo gli morì in gola. Vide infatti il suo esercito allo sbaraglio nella valle, e i Nani che andavano di qua e di là uccidendo senza incontrare alcuna resistenza, poiché gli Orchetti fuggivano verso sud gridando terrorizzati. Intorno a lui tutti i soldati della sua guardia giacevano morti. Egli si voltò, correndo precipitosamente verso il Cancello.

Un Nano lo inseguì, brandendo un’ascia rossa. Era Dàin Piediferro, figlio di Nàin. Riuscì ad afferrare Azog prima che varcasse il Cancello e lo uccise, staccandogli la testa.

(Il Signore degli Anelli, Appendice A, sezione III: Il Popolo di Durin, pp. 1283-1284)

Il flashback di Lo Hobbit: Un Viaggio Inaspettato mostra proprio la Battaglia di Azanulbizar, con l’unica variante che Azog non viene ucciso da Dàin Piediferro. Il destino di Thorin è invece uguale: dopo aver usato un ramo di quercia a mo’ di scudo, rimane ferito e non può continuare a combattere. C’è anche da dire che Tolkien non è riuscito ad occuparsi moltissimo del popolo nanico, anche in proporzione a quanto fatto invece con Elfi, Uomini e Hobbit. Tanto che uno degli approfondimenti per la scrittura dei film fu proprio quella di cercare di ricostruire il più possibile della lingua nanica, partendo dai pochi frammenti lasciati da Tolkien.

Nei libri quindi Dain uccide Azog per vendicare l’appena perito padre, storia che cerca di ripetersi in Lo Hobbit in quanto l’orco Bolg, figlio di Azog, da la caccia a Thorin per vendicare il padre. Visto che nei film Azog è ancora vivo, la questione della vendetta genitoriale è un po' lasciata perdere. Bolg viene comunque ucciso da Beorn durante la Battaglia dei Cinque Eserciti.

Parallelamente alle vicende che coinvolgono direttamente Bilbo e i tredici di Thorin, vi è appunto Dol Guldur. Questa aggiunta è stata operata in quanto nel libro originale di Lo Hobbit lo stregone è un personaggio tutto sommato poco presente, andando e venendo un po’ a discrezione. Potremmo immaginare che a livello narrativo egli servisse come un piccolo “deus ex machina” per risolvere situazioni altrimenti impossibili per i protagonisti, ma appunto il legendarium ne spiega la poca presenza con la brutta disavventura a Dol Guldur. Nel film, vi è anche occasione per lo stregone di parlare persino con Azog.

Nel film, Azog apostrofa Gandalf con una parola particolare: sharkû. Altro non è che l’ennesima citazione a Il Signore degli Anelli, dove viene spiegato (in una nota a piè di pagina del capitolo Percorrendo la Contea) come si tratti di un termine isengardiano che significa “vecchio uomo”. I sottotitoli italiani rendono la parola come “stregone”, ma è qualcosa di tecnicamente errato che confina con l’edulcorazione. Azog si sta rivolgendo a un nemico, quindi la parola è usata nel senso dispregiativo di “vecchiardo”, “vecchiaccio”. Del resto chiamare Gandalf come semplicemente “stregone” sarebbe un gesto fin troppo rispettoso per un Orco come Azog.

Smaug e il Mal del Drago

Infine, dove il terzo film avrebbe chiuso il cerchio con l’evento bellico, se c’è un grande mattatore in Lo Hobbit: La Desolazione di Smaug è proprio il drago Smaug. A volte come semplificato come “Smog” in alcune traduzioni, è sicuramente tra gli antagonisti più carismatici mai scritti da Tolkien. Benedict Cumberbatch, universalmente acclamato per averlo interpretato in motion-capture, ne ha indagato profondamente l’animo, trovando in Smaug dei punti che confinavano con la sociopatia e l’ossessione criminosa.

In effetti, Tolkien stesso descriveva Smaug sì come cattivo, ma ne ammetteva anche la cristallina intelligenza. Anche in questo caso l’ispirazione è alla mitologia norrena, ma Tolkien ne sfrutta il fascino per trasformarlo nell’incarnazione di tutti i peccati che possono assalire un Nano, estremizzandone l’avidità e i disturbi (si accorge immediatamente di qualunque sottrazione, anche minima, al suo patrimonio/bottino). Lo stesso Peter Jackson nei dietro le quinte della saga parlava di non voler dar retta ai soliti stereotipi fantasy ma anzi di voler dipingere (parole sue) uno Smaug “spaventoso, venale, malvagio e decrepito”.

Senza dubbio la parte più interessante della pellicola è proprio il suo dialogo con Bilbo, con cui accetta di “stare al gioco” in quanto incuriosito dal fatto di non aver mai avuto a che fare con un Hobbi, creatura per lui sconosciuta che oltretutto riesce a tenergli testa in un “duello verbale”. In questo senso nel film interviene come contrasto la sequenza successiva. In tale susseguirsi dinamico Smaug insegue i Nani e Bilbo, i quali lo attirano in una trappola ben orchestrata ricoprendolo interamente di oro fuso. Cosa che tuttavia non basta a ucciderlo e anzi ne risveglia l’ira, segnando il destino del povero villaggio di Dale subito sotto la Montagna.

https://www.youtube.com/watch?v=mllXxyHTzfg

Ed e i figli della Montagna

Non potevamo concludere senza accennare l’aneddoto più “popolare”, ma anche la scelta più azzeccata per rendere Lo Hobbit: La Desolazione di Smaug famoso anche a chi di fantasy capisce poco o niente. Volendo replicare la vecchia tradizione di una canzone cantata per i titoli di coda, per la Desolazione di Smaug Jackson era alla ricerca di un autore. Grazie a un suggerimento della figlia, lo trovò in Ed Sheeran.

Sheeran non ha mai fatto mistero di essere un grande ammiratore delle opere di Tolkien, passione che ha ereditato dal nonno e dal padre. Inutile dire che, quando Jackson lo contattò per proporgli di scrivere e registrare una ballata per il secondo Lo Hobbit, Ed Sheeran fu così entusiasta che da Londra giunse a Wellington a tempo di record. Da lì, sarebbe nata la celeberrima I See Fire.

Per aiutarlo nella creazione, a Sheeran fu consentito di vedere il film in anteprima, e cercò di scrivere il testo da un punto di vista di un Nano che appunto prima vede (per poi provarlo sulla sua stessa pelle) il suo mondo andare in cenere a causa del suo più grande nemico. Non solo: l’ispirazione per il cantautore inglese era tale che buona parte delle melodie che si sentono nella canzone distribuita furono registrate in un solo giorno. Ancora adesso, quando Ed la suona ai concerti, sul palco vengono proiettati spezzoni ed immagini a tema Lo Hobbit.

Conclusione: la Desolazione durante e dopo

Guardandolo oggi, pare proprio evidente come Lo Hobbit: La Desolazione di Smaug sia tristemente consapevole di essere solo un “preparatore” a qualcosa di più grande, che appunto sarebbe divenuto Lo Hobbit: La Battaglia delle Cinque Armate. Ma tralasciando il fatto che, incassi a parte, per molti questa pellicola conclusiva non sia stata in grado di mantenere le promesse, c’è da dire tuttora che La Desolazione di Smaug compie il proprio dovere in maniera assai appassionata.

Anche rivedendolo dopo anni è palese come Peter Jackson sia infatti riuscito a confezionare un film che è in grado di creare un respiro epico ed emozionante come pochi altri suoi contemporanei. Lo stesso stacco finale su un Bilbo sconvolto tuttora è un bellissimo cliffhanger. E non è un caso che, anche a livello di critica e pubblico, La Desolazione di Smaug rimanga il film maggiormente apprezzato della trilogia di Lo Hobbit. Non sarà un cerchio chiuso, ma tuttora è degno di ben più di una visione.

Se manca nella vostra collezione, qui trovate il Blu-Ray de La Desolazione di Smaug!