We Own This City: le nostre prime impressioni

Le nostre prime impressioni su We Own This City - Potere e corruzione, la nuova serie targata Sky Atlantic seguito spirituale di The Wire.

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a cura di Nicholas Mercurio

Le nostre prime impressioni su We Own This City – Potere e corruzione: un cambio di prospettiva rispetto a quanto abbiamo visto in passato con The Wire, la celeberrima serie televisiva uscita tra il 2002 e il 2009, che ha visto David Simon ritagliarsi un ruolo di rilievo nel panorama dei crime drama, un genere spesso complesso da trattare e innovare. Primo, perché è difficile riuscire a catturare il pubblico e secondo, perché non è da tutti arrivare allo scopo senza dover per forza rinunciare a un'anima meglio definita durante lo sviluppo. 

Se The Wire seguiva un processo giudiziario lento ma comunque coinvolgente, We Own This City è più giornalistico e astratto. Segue dei binari che potrebbero allontanare coloro non sono avvezzi a un ritmo più compassato e sprovvisto dell’empatia che ormai è presente in tante serie televisive. Perché è così che inizia We Own This City: in maniera misurata, non lasciandosi apparentemente scoprire e capire. Diretta da Reinaldo Marcus Green e basata sul libro del giornalista Justin Fenton del Baltimore Sun, come in The Wire ci ritroviamo ancora una volta a Baltimora, in un momento di grandi cambiamenti sociali che potrebbero ricordare la triste storia vera di George Floyd e della violenza della polizia americana. Abbiamo visto i primi due episodi della serie, assistendo dunque a un’introduzione esaustiva su cosa sta accadendo e perché, quali trame siano all’opera e cosa sta succedendo nel capoluogo del Maryland.

Prime impressioni su We Own This City: scrittura complessa e interpretazioni eccellenti

Baltimora è una cittadina che potrebbe scoppiare da un momento all’altro. La popolazione teme la polizia, che ormai non fa sconti a nessuno. Arresta chiunque sia una minaccia, soprattutto tra la comunità dei neri, considerata da alcuni agenti un coacervo di criminali, tanto da spingere alcuni di loro ad eccedere nell’abuso di potere. I bassifondi della città, abitati dai cittadini più poveri, rappresentano lo specchio di una società malata, che capiamo solo quando entriamo nei luoghi di potere di Baltimora, anch’essi privi di umanità e giustizia.

Se in The Wire tutto partiva dalla disperazione e dalla strada, mettendo al centro il traffico di droga e il sistema giudiziario, in We Own This City la cinepresa si sposta in una misura più chiusa tre le aule di commissioni, tribunali e riunioni, per farci capire quanto sia intricata la catena del comando. Nei primi due episodi, infatti, l’azione si concentra più nella stazione di Baltimora che sulle strade della cittadina statunitense, mentre negli ultimi sulle strade.

La scrittura, per quanto articolata e ricca di spunti, al momento ci appare lenta e non intrattiene a dovere, rimanendo ancora fin troppo chiusa, come se volesse trattenersi per stupire e scoppiare al momento giusto. È il pretesto narrativo ad averci colpito e convinto: la storia di We Own This City in realtà parte dal 2015 dopo un omicidio gratuito e sprovveduto della polizia di Baltimora ai danni di Freddie Gray, ammazzato a sangue freddo e senza evidenti prove di un suo coinvolgimento in un crimine che non possiamo rivelarvi. Il Dipartimento della Polizia, nonostante siano passati diversi anni dagli avvenimenti che hanno coinvolto questo ragazzo, viene visto negativamente e in maniera distante, come se i cittadini temessero ulteriori ritorsioni. I fatti bruciano e l'intera comunità si sente sempre meno al sicuro e giudicata ancora prima che un giudice si pronunci.

Wayne Jankins, interpretato da Jon Bernthal (The Walking Dead, The Punisher), veste i panni di un poliziotto esperto, che nel primo episodio ci è apparso come un faro della legge in città, oltre a un uomo con un’etica decisa e posata: l’agente di polizia che tutti sognano. Si dedica anima e corpo alla popolazione, ama il suo lavoro ed è sicuro che ai più sfortunati della cittadina di Baltimora serva un aiuto concreto da parte dell’amministrazione cittadina e un maggiore coinvolgimento da parte delle istituzioni pubbliche, con ulteriori innesti. Non vede nel suo servizio un lavoro, ma un dovere da adempiere con umanità e abnegazione, perché ancora crede nella giustizia e che rendere le strade pulite sia un dovere. Peccato, però, che negli episodi tre e quattro si dimostri tutt'altro che quanto abbiamo descritto.

Vediamo Wayne Jenkins come una reclutata affiata e felice di intraprendere la propria brillante carriera nel dipartimento di polizia di Baltimora, fino alla sua nomina come un sergente considerato da tutti come un esempio, ma ci mette poco a farsi coinvolgere dalla parte più vecchia del Dipartimento, che è corrotta e senza scrupoli, la quale inscena arresti immotivati e ruba ai poveri e agli innocenti, infischiandosene del servizio e del giuramento.

Se da una parte abbiamo un protagonista che si fa abbindolare, dall’altra c’è un razzista e un personaggio discutibile nonché immorale e viscido, la dimostrazione di come il poliziotto non sia un lavoro per tutti e perché serva una maggiore selezione di figure per ricoprire incarichi così delicati. Stiamo parlando di Daniel Hersl, interpretato da Josh Charles (L’Attimo Fuggente), uno spregevole agente di polizia violento e imprevedibile che vede la comunità nera come un’onta ben peggiore di qualunque criminale bianco. Utilizza metodi infimi, ruba e nasconde prove, utilizzando la burocrazia a suo favore, e sono metodi meschini che vengono replicati anche dagli altri agenti in maniera infima e brutale.

La narrazione dei primi quattro episodi, come accennavamo prima, si concentra sulla spiegazione degli eventi, rispondendo ad alcuni perché. È una cronaca giornalistica vera e propria con nomi, persone al centro delle bufere e tanto altro. La cinepresa si sposta dal Dipartimento di Polizia di Baltimora ai luoghi del potere cittadino come il municipio, mentre tutto avviene all’oscuro dei garanti della giustizia e della libertà individuale. La scrittura scelta per descrivere l’opera nella sua interezza è la stessa che abbiamo visto in The Wire, seppure in un modo ben più articolato e complesso.

We Own This City, invece, ci appare come una miniserie che vuole arrivare all’obiettivo in poco tempo, pur buttando nel calderone troppe informazioni e non dando mai la sensazione di essere un’opera in grado di intrattenere il suo pubblico attraverso l’empatia dei protagonisti ma di provocare rabbia e sdegno, che per le tematiche espresse potrebbe essere il gancio giusto per interfacciarsi con il resto del pubblico meno attento ma comunque interessato alla produzione. È una scrittura complessa, sia chiaro, tanto che le nostre prime impressioni sulla trama e i personaggi sono più che positive, al netto di un ritmo lento.

Tematiche dure e non semplici da gestire

Prima che pensiate di essere davanti a una produzione fin troppo complessa e intricata, l’obiettivo di questa miniserie è essere una critica sociale scomoda, lunga e lenta, come lo è la burocrazia, ripescando dal cilindro una orribile storia vera. È una produzione che parla all’umanità e sceglie di dedicare uno spazio alle lotte sociali che stanno ancora oggi travolgendo gli Stati Uniti, sottolineando quanto il sogno americano non sia altro che una finzione deliberata e priva di fondamento, nonché un concetto ormai passato.

Le comunità più deboli affrontano la vita in maniera meno sprezzante, consapevoli purtroppo che nessuno possa aiutarle perché non sono incluse appieno nella società a causa di una politica interna sprezzante e poco incline ai cambiamenti sociali e alle loro lotte. Sin dall’inizio del primo episodio, in We Own This City ci viene data una visione precisa di tutto quanto: i bassifondi sono trascurati, tanto che alcuni personaggi secondari delle vicende ne parlano con distacco, come se non li riguardasse e nel frattempo vediamo la polizia farsi gli affari propri, non aiutando il prossimo.

Mentre ci interfacciamo con un mondo spregevole e crudele, nel frattempo il potere si accaparra tutto, nel modo più crudele che esista. Le premesse sembrano buone e interessanti, ma per capirle ci serve altro tempo. E per comprendere l’evoluzione completa del racconto ci mancano solo gli altri due episodi, che non vediamo l'ora di raccontarvi nella recensione completa.