UFFICIALE Fear - Storie di terrore

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La scatola dybbuk
Nel 2003 iniziò a circolare una storia molto sinistra che ha come protagonista una scatola in legno, colpevole si dice, di contenere uno spirito maligno conosciuto nella religione ebraica con il nome di dybbuk.

Ma cos’è il dybbuk? Secondo le credenze ebraiche, il dybbuk o dibbuq o anche dybbuk (forse dall’ebraico ‘ledavek’ e cioè cosa che aderisce) è lo spirito di un defunto che entra in un corpo e che coabita con l’anima già presente.

Tale spirito, non sempre animato da cattive intenzioni, non avrebbe avuto accesso al regno dei morti o sarebbe fuggito dal Gehenna conosciuto anche come inferno.

Molte possono essere le cause che tormentano questo spirito come non essere riuscito a compiere un’azione quando era ancora in vita o aver compiuto azioni gravi come il suicidio.

Nello specifico, non si tratterebbe di una possessione ma di una co-abitazione momentanea di anime.

La storia

https://www.mixcloud.com/ParanormaleCom/23-paranormal-city-17-maggio-2016-la-scatola-dybbuk/

Tornando alla storia, tutto parte nel gennaio del 2001 a Portland, quando un mobiliere di nome Kevin Mannis, mette in vendita questa scatola di legno dopo averla acquistata a un’asta organizzata dai nipoti di un’anziana signora di origine polacca ed emigrata dalla Spagna.

Durante l’asta proprio un nipote della signora defunta avvicinò Kevin per spiegargli la storia di questa scatola. Egli raccontò come la nonna avesse tenuto quella scatola sempre fuori dalla portata di tutti senza mai parlarne troppo e in qualche occasione era stata lei a indicarla come ‘dybbuk’ spiegando che mai si sarebbe dovuta aprire.

Tra l’altro il nipote spiegò che la donna aveva espresso la volontà di essere sepolta insieme alla scatola ma il rito religioso non lo aveva permesso.

Sta di fatto che a Kevin sembrò un oggetto con un particolare valore sentimentale e tentò di restituirlo senza pretendere la restituzione dei soldi: la reazione del nipote fu alquanto strana perché alzò la voce e spiegò che ormai quell’oggetto era suo e non poteva restituirlo.

Alla fine curioso e convinto, concluse l'acquisto forse con la speranza di poterla rivendere all'interno del suo negozio.

L’INIZIO

Il primo oscuro episodio accadde qualche tempo dopo quando Kevin, uscito per alcune commissioni, ricevette una telefonata dalla sua commessa che in preda al panico spiegava di sentire rumori dal sottoscala e che le porte erano sbarrate. Tornato di corsa al negozio trovò la commessa in lacrime inginocchiata in angolo e decise così di scendere nel sottoscala dove tra l’altro era stata riposta la scatola.

Una volta giunto al piano di sotto, venne colpito da un forte odore di urina di gatto mentre contemporaneamente si spensero le luci. Non collegò ovviamente l’accaduto alla scatola e tornando al piano di sopra non trovò più la commessa, la quale, dopo ben due anni di lavoro, inviò lettera di licenziamento senza mai più tornare.

Dopo mesi e dimenticatosi dell’accaduto, in occasione del compleanno della madre, Kevin pensò di regalarle questo cimelio e prima di uscire per la cena, si allontanò per una telefonata. Al suo ritorno trovò la madre seduta in silenzio a fissare il vuoto. Si scoprì, all'arrivo del 911, che era stata colpita da ictus.

Dopo qualche tempo, forse per il proseguire della degenza della madre, la scatola finì nelle mani della sorella prima e del fratello poi ma entrambi gliela restituirono adducendo strane storie in merito a ombre, odore di urina di gatto e malesseri.

Fu così che decise di portarla a casa con lui e da quel momento divenne vittima di sogni ricorrenti e orribili con al centro un essere demoniaco apparentemente femminile.

La storia comincia a prendere una strana piega quando per una coincidenza, sia la sorella che il fratello, confessarono di aver avuto lo stesso identico sogno di Kevin.
Non ci volle molto a ipotizzare che la causa fosse quella scatola. Decise così di riporla nel capanno esterno alla casa ma durante la notte scattò l’allarme antiincendio e corso lì non trovò alcun fuoco.
La stessa notte navigò su internet alla ricerca di qualche indizio che potesse aiutarlo ma alle 4.30, colto da sonno, si addormentò.

Si risvegliò improvvisamente con la sensazione reale di un respiro maleodorante sulla nuca.


Decise così di liberarsene vendendola su eBay attraverso un’asta che partì con un prezzo simbolico di 1$ e con la speranza che qualcuno con le giuste competenze potesse acquistarla e risolvere il problema.

INTERVISTA RADIOFONICA A KEVIN MANNIS E AL DOTT. HAXTON


L’oggetto fu aggiudicato per 280$ da uno studente del Minnesota il quale si rese conto di come dopo l’arrivo della scatoletta cominciarono episodi di malessere anche tra chi condivideva con lui la stanza del college come perdite di capelli e malfunzionamenti all’impianto elettrico.

Nonostante questi aspetti inquietanti, Iosef Neitzke (questo il nome dello studente) cominciò a parlarne sul suo blog e fu lì che venne contattato da Jason Haxton, stimato professore ed attuale direttore di un museo sulla medicina osteopatica nel Missouri che, incuriosito dalla vicenda, avanzò la propria intenzione di acquistarla nel caso avesse voluto venderla.

Anche il dott. Haxton cominciò ad avere strani problemi di salute quali lividi in tutto il corpo e forti attacchi di tosse. Fu così che decise di interessare un rabbino di sua conoscenza il quale consigliò di riporre la scatola in un posto nascosto e dimenticarla.

Nel 2004 Sam Raimi, famoso regista horror, decide di farne un film (“The Possession” del 2012) e per rendere la cosa quanto più reale possibile contattò, tramite i suoi legali, l’ultimo proprietario della scatola per convincerlo a cederla temporaneamente per la durata delle riprese.

Tuttavia l’uomo si rifiutò categoricamente.

IL CONTENUTO

La scatola al suo interno conteneva due ciocche di capelli uno di colore biondo e l’altro di colore scuro, una piccola lastra di granito con un’incisione, un bocciolo di rosa essiccato, una coppa per il vino, due pennies degli anni ’20 e un piccolo candelabro.
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Il Vaso di Bassano
 

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The Hands Resist Him
 

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La statua della donna di Lemb
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Oggetti Maledetti: la Donna di Lemb (The Woman from Lemb), meglio conosciuta ai più come la Statua della Dea della Morte, è un curioso manufatto risalente al 3500 a.C. scoperto nell’area di Lemb (Cipro) nel 1878. Questa statuetta, annoverata tra gli oggetti maledetti, è interamente scolpita in pietra calcarea. Probabilmente era destinata al culto di una dea anche se tutt’ora è solo un’ipotesi: la cosa certa è che il manufatto ricorda molto le statue della fertilità risalenti a periodi paleolitici.

La fama di questa statuetta non è tanto legata al valore storico ed archeologico del manufatto bensì alla serie di sfortunati eventi che sono capitati ai suoi possessori. Storie che l’hanno fatta rientrare nel lungo elenco di oggetti maledetti.

Le cronache ci raccontano che questa statuetta, prima di approdare al Royal Scottish Museum, è stata “ospite” di quattro famiglie che hanno avuto un destino infelice e prematuramente spezzato.

Lord Elphont fu il primo proprietario. Dopo aver acquistato il manufatto, nei sei anni successivi, i sette membri della famiglia Elphont morirono in circostanze alquanto singolari: le cronache di allora ci raccontano di morti avvenute per malattie improvvise o per tragici incidenti.

Il secondo proprietario Ivor Menucci non ebbe un destino tanto diverso rispetto alla famiglia di Lord Elphont: sia lui che gli altri membri della famiglia morirono nel giro di quattro anni, ed anche se le cronache del tempo non specificano queste morti gli archivi mortuari ci confermano la tragica fine di questa famiglia.

Sorte identica toccò al terzo proprietario Lord Thompson-Noel e alla sua famiglia. che come i Menucci, perirono nel giro di quattro anni.

A seguito della morte della famiglia Thompson-Noel della statua si persero le tracce. Rincoparve una trentina di anni dopo, a seguito di una non ben precisata liquidazione. Il nuovo proprietario fu Sir Alan Biverbrook. La maledizione si abbatté anche sui Biverbrook: padre, madre e due figlie nel giro di due anni morirono in situazioni analoghe ai precedenti proprietari. Convinti della maledizione i due figli sopravvissuti di Sir Alan Biverbrook decisero di donare la statuetta al Royal Scottish Museum di Edimburgo in Scozia.

Fatto strano, coincidenza, se la volete chiamare così, fu che il gestore del museo che decise di accogliere la statua, dopo un anno morì a seguito di un incidente.
 
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L’Uomo Angosciato
L’Uomo Angosciato, battezzata così una delle opere più misteriose al mondo, per la sua incredibile storia.

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I quadri sono opere d’arte si sa, alcuni di un valore inestimabile che portano grandi firme, altri di anonimi, ma pur sempre considerati opere d’arte. Ma ci sono dipinti che, forse, sarebbe meglio evitare per la loro storia e per quello che accade quando qualcuno li custodisce in casa. E’ questo il caso del dipinto conosciuto come “Uomo Angosciato”, al momento di proprietà del signor Sean Robinson, in Inghilterra. La sua storia è alquanto sinistra. Il quadro fu nascosto nella soffitta della zia di Robinson per ben 25 anni. Certo è un quadro non proprio bellissimo, ma Sean non capiva perché sua zia l’avesse tenuto nascosto per così tanto tempo.

L’Uomo Angosciato è il male

La zia di Sean disse che quel dipinto era malvagio. Il suo autore l’aveva dipinto mischiando il suo stesso sangue tra i colori. Mentre questa può sembrare una pratica comune tra svariati artisti, conosciuta come “Bloody art“, discutibile ma comunque usata, è un po’ meno comune invece che un artista si suicidi dopo aver terminato di dipingere con il suo sangue, che è proprio quello che ha fatto il misterioso autore del dipinto, conosciuto dal mondo come Anguished Man (L’Uomo Angosciato). A parte l’estetica, il motivo per cui la zia di Sean decise di tenere il quadro nascosto, era perché si manifestavano strani eventi in casa, come urla, ombre e strani rumori. Così Sean decise di portare il dipinto a casa sua.

Gli strani eventi continuano

Stando alla testimonianza di Sean, gli strani eventi si sono manisfestati anche in casa sua, tanto che, l’uomo ha deciso di riprendere tutto e di aprire un canale youtube per monitorare il tipo di attività che sarebbe collegata al quadro: https://www.youtube.com/user/MrModnation/videos
 

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Il dipinto del bambino che piange
Si tratta di quadri particolari, quelli dipinti da Bruno Amadio (col nome d'arte di Giovanni Bragolin) e con protagonisti numerosi bambini tristi e piangenti. La terribile maledizione che li colpisce sarebbe responsabile diretta di numerosi incendi distruttrici di case... incendi dai quali questi dipinti maledetti escono sempre incolumi.

La maledizione dei quadri coi bambini che piangono: l'inizio

È il 3 settembre del 1985 a Rothertham, un paesino dello Yorkshire, nel regno Unito.
May Hall, una casalinga di mezz’età, sta facendo bollire dell’acqua su un pentolino. Suo marito Roy sarà a casa fra poco, stanco e affamato.
Un tintinnare di chiavi annuncia a May il ritorno di Roy. La donna si precipita a dargli il benvenuto all’ingresso, e per qualche minuto dimentica che in cucina il fuoco è acceso.
All’improvviso uno strano odore di bruciato pervade la casa. La cucina sta andando a fuoco! In breve tutto il piano superiore è invaso dalle fiamme.


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È solo alcune ore più tardi, rovistando fra le macerie roventi, che i vigili del fuoco fanno un’inquietante scoperta: fra la cenere e i tizzoni ancora ardenti, qualcosa di immacolato sembra emergere.

Peter Hall, comandante della squadra, impallidisce alla vista dell’oggetto che i suoi uomini reggono tra le mani. Si tratta di un quadro, una di quelle riproduzioni di poco valore, che le famiglie middle-lower class amano appendere ai muri delle loro villette "qualunque" per farle sembrare meno miserabili.

Anche se la mano del pittore sembra senza dubbio talentuosa, il soggetto è decisamente di dubbio gusto: un bambino, all’apparenza tra i quattro e i sei anni, piange calde lacrime con un’espressione di sofferenza sul volto.
Ma per quanto inquietante sia il soggetto, non è l’espressione del bambino a sconvolgere Hall.


È il fatto che quanto è accaduto quel giorno è solo l’ultimo di una serie di incendi che hanno come protagonista quel quadro.
Gli sfortunati coniugi ne avevano acquistata una copia da un rigattiere, alla cifra ridicola di un paio di sterline.


Come loro, così molte altre coppie della contea ne avevano una copia in casa. E puntualmente, secondo la testimonianza del vigile del fuoco, un incendio distruggeva l’abitazione, pur finendo per essere recuperato intatto dalla scena del disastro.

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I quadri maledetti coi bambini che piangono: interviene il Sun

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Il giorno dopo la notizia appare sul Sun, tabloid scandalistico diffuso in tutto il Regno Unito. La redazione è sommersa dalle telefonate: sembra che in tutto il paese il quadro sia implicato in numerosi incidenti analoghi.

Isteria di massa? Potrebbe essere, pensano i redattori del Sun. Al giornale arrivano le testimonianze più assurde: c'è addirittura chi giura di aver tentato di bruciare il quadro per liberarsi della maledizione, ma senza riuscirvi.

A questo punto, per il quotidiano, la faccenda diventa una specie di crociata verso le forze del male.

"Avete in casa un quadro con un bambino che piange? Dovete liberarvene! È maledetto!" titola a tutta pagina il tabloid. La redazione cerca anche di investigare sulle origini del dipinto, e quello che si scopre fa correre più di un brivido lungo la schiena dei giornalisti.

Il quadro è opera di un tale Bruno Amadio, veneziano, nato nel 1911. Pur dotato di un talento non comune, non ha successo in patria, e si trasferisce in spagna, dove passa il resto della sua vita. Sotto il nome d’arte di Giovanni Bragolin, dipinge non uno, ma una serie di quadri con lo stesso soggetto: bambini in lacrime.

Ed è a questo punto che la storia sconfina nella leggenda.

Una versione della storia dice che, stanco di non riuscire a vendere le sue opere, Amadio avesse fatto un patto col diavolo, permettendogli di seminare morte e distruzione tramite i suoi quadri in cambio di una fulgida carriera di pittore.

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Altri sostengono che Amadio, per ottenere il massimo realismo dai suoi quadri, maltrattasse dei piccoli orfani fino a indurli al pianto, per poi usarli come modelli. Pare che l’orfanotrofio che li ospitava sia poi stato divorato dalle fiamme, al costo della vita dei piccoli.

Un’ultima versione invece sostiene che il modello principale di Amadio fosse stato un orfano soprannominato "El Diablo" (letteralmente il Diavolo) dai suoi amici, a causa della sua innata cattiveria, e che sia proprio lo spirito di quel bambino a essere stato imprigionato in quella tela.

Ce n’è di che non dormire la notte.

Il Sun chiede a tutti i suoi lettori di spedire alla redazione le copie del quadro maledetto ancora presenti nelle loro case, e organizza uno spettacolare autodafé, in cui tutte le copie arrivate vengono carbonizzate.
La piro-manifestazione viene ampiamente documentata, e le famiglie britanniche, libere dall’inquietante minaccia dei quadri, riprendono la loro tranquilla vita di tutti i giorni.


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I quadri maledetti coi bambini che piangono: qualche spiegazione

Ma come è possibile un fenomeno del genere?

Innanzitutto è necessario analizzare la validità delle fonti. Il Sun non è certo un esempio di affidabilità: nel corso della sua esistenza, più di una volta è stato smascherato nell’elaborazione di complicate bufale e montature, architettate allo scopo di vendere il più possibile.

E le telefonate alla redazione? Bisogna innanzitutto pensare che non esiste un’indicazione su quante siano state queste telefonate, e quante di queste fossero effettivamente sincere.

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Inoltre, il ritrovamento di oggetti intonsi dopo un incendio non è di certo una rarità: soprattutto nel caso di quadri.

Infatti durante un incendio questi tendono a cadere a faccia in giù, proteggendo quindi l’immagine contro il pavimento, dove la temperatura della stanza rimane più bassa.

Ma la smentita della pericolosità di questi quadri l’abbiamo dalle centinaia di persone che ancora possiedono una riproduzione di uno di questi quadri, le cui case sono ancora in piedi.

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Concludendo, questi cosiddetti "quadri maledetti" sono un perfetto esempio di come sia facile creare una perfetta leggenda metropolitana: molto più difficile, per contro, è dimostrarne l’inesistenza.
 

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Ötzi
La maledizione della mummia Ötzi, lo sciamano dei ghiacci

Su Ötzi, la mummia dei ghiacci ritrovata nel 1991, graverebbe una maledizione che ha provocato otto vittime. Realtà o fantasia?

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Le maledizioni delle mummie hanno da sempre destato un certo fascino, arrivando a influenzare anche il cinema e la letteratura. Il ritrovamento della mummia di Tutankhamon si dice per esempio che provocò 21 morti, fra quelli che avevano avuto a che fare con la scoperta.

In quest'articolo non parlerò delle mummie egiziane, ma di una mummia naturale. Un cadavere mummificato quasi perfettamente conservato dai ghiacci per oltre 5.000 anni.

Le sono stati attribuiti diversi nomi, come Mummia del Similaun, Uomo venuto dal ghiaccio, Mummia dei Ghiacci, facendo nascere anche delle dispute al riguardo, ma infine è stata chiamata semplicemente Ötzi, dalle Alpi dell'Ötztal (anche se è conosciuta nei paesi anglofoni col nome di Frozen Fritz o The Iceman).

La mummia fu rinvenuta nel ghiacciaio di Schnalstal nelle Alpi dell'Ötztal il 19 settembre 1991 da due turisti tedeschi, Erika e Helmut Simon, durante un'escursione. La coppia proveniva da Norimberga, nella Germania del sud, e stava camminando presso il Passo Hauslabjoch, a circa 3200 metri di quota, quando notò una testa e una spalla sbucare dal ghiaccio, pensando, inizialmente, si trattasse di un escursionista morto.

Si trattò di una scoperta unica, un uomo dell'Età del Bronzo, un guerriero di circa 46 anni con abiti di pelliccia, scarpe in pelle e arco e frecce. Si pensa sia vissuto fra il 3350 e il 3100 a.C. Dalle analisi effettuate sul corpo si scoprì che l'uomo fu ucciso e che probabilmente era in fuga dai suoi aggressori. Mostrava tagli sulle mani, ai polsi e al petto. E aveva la punta di una freccia conficcata su una spalla e segni di un colpo alla nuca.

Un'altra particolarità della mummia sono i suoi 50 e più tatuaggi, forse i più antichi conosciuti. Erano posizionati sulle linee meridiane usate dalla tradizionale agopuntura cinese.

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photo credit: Museo di Archeologia del Sud Tirolo


L'esumazione di Ötzi avvenne senza troppa cura e fu violenta e caotica. Nella sua borsa furono trovati funghi ritenuti magici per proteggerlo con incantesimi. Questo portò a pensare che l'uomo fosse una sorta di sciamano.

Uno sciamano che volle vendicarsi lanciando una maledizione e prendendosi la sua vendetta dopo oltre 5.000 anni.

Neanche un anno dopo la scoperta della mummia, si verificò la prima di una serie di morti che rafforzò sempre più la convinzione di una maledizione in atto.
Se da una parte sono in molti a credere alla maledizione di Ötzi, dall'altra ci sono tantissimi scettici e fra questi anche alcuni di quelli "colpiti" dalla maledizione stessa, che asserirono semplicemente che la gente muore, non vedendo alcun nesso fra Ötzi e i decessi.


C'è anche una certa confusione in rete sul numero delle vittime colpite dalla maledizione e sulla data in cui si sono verificati quei decessi.
Due giornalisti francesi, Guy Benhamou e Johana Sabroux, hanno pubblicato a riguardo un libro nell'agosto 2006, La maledizione di Ötzi: 7 morti misteriose attorno a una mummia di 5.300 anni fa. Ebbene, già in questo titolo è contenuto un errore, poiché le morti furono otto e non sette. E in quasi tutti gli articoli sulla maledizione si parla sempre di sette vittime.


Di certo il numero sette è più affascinante e legato a un simbolismo antico quanto il mondo. Ma omettere una "vittima" per dare più colore e mistero a una ipotetica maledizione fa cadere il tutto in un giornalismo di bassa qualità.

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photo credit: Museo di Archeologia del Sud Tirolo


Ma chi sarebbero le otto vittime di questa maledizione?

La prima vittima della maledizione fu il dottor Rainer Henn, morto all'età di 64 anni. Era un patologo legale, dell'Istituto di Medicina Legale dell'Università di Innsbruck. Fu a capo della squadra che esaminò il corpo di Ötzi, sollevò egli stesso il corpo a mani nude e lo depose in un sacco per cadaveri. Morì a causa di uno scontro frontale in auto nel luglio 1992, mentre si stava recando a una conferenza per presentare nuove ricerche su Ötzi.

Kurt Fritz morì nel 1993 poco tempo dopo Henn, all'età di 52 anni. Era un esperto scalatore, che aveva condotto Henn e la sua squadra al corpo di Ötzi. Fu l'unico membro della sua squadra a essere ucciso da una valanga, in una regione con cui si pensava avesse familiarità. Aveva ricevuto finanziamenti per la sua connessione con la scoperta e organizzava dei tour al luogo del ritrovamento. In realtà non è certo che abbia guidato la spedizione, così come non è certo che abbia scoperto il volto della mummia quando era ricoperta dal ghiaccio. Stranamente infatti il suo nome non viene menzionato nel libro Iceman: Uncovering the Life and Times of a Prehistoric Man Found in an Alpine Glacier di Brenda Fowler.

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photo credit: Museo di Archeologia del Sud Tirolo


L'australiano Rainer Hoelzl, di 47 anni, fu la terza vittima. Era un giornalista che aveva filmato un documentario esclusivo sulla rimozione del corpo di Ötzi dal ghiaccio per la televisione austriaca, che venne trasmesso in tutto il mondo. Alcuni mesi più tardi contrasse una malattia misteriosa, forse un tumore al cervello, e morì soffrendo qualche tempo dopo, nel febbraio 2004. Sono trascorsi circa undici anni dalla morte precedente.

Il turista tedesco Helmut Simon morì nel 2004 all'età di 67 anni e fu la quarta vittima. Era stato Simon che, assieme a sua moglie, aveva scoperto il corpo di Ötzi nel 1991, durante un'escursione nelle Alpi. Tornò in quella regione da solo nell'ottobre 2004, per festeggiare la vittoria di una battaglia legale che gli aveva riconosciuto la somma di 50.000 sterline come scopritore della mummia. Quando non fece ritorno, furono allertati i soccorsi. Le condizioni del tempo erano peggiorate e avevano fatto precipitare Simon in un crepaccio profondo quasi 100 metri. Il suo corpo fu trovato tre settimane dopo, coperto di ghiaccio come la mummia che aveva scoperto, a circa 200 metri dal punto in cui era morto Ötzi. Non aveva ancora firmato i documenti legali per l'assegnazione della somma, così sua moglie non ricevette mai quel denaro.

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photo credit: Museo di Archeologia del Sud Tirolo


Il capo della squadra di soccorritori che aveva cercato Simon, la quarantacinquenne Dieter Warnecke, fu la quinta vittima. Morì d'infarto, sebbene fosse in perfetta salute secondo i suoi familiari. La sua morte avvenne meno di un'ora dopo che Simon fosse sepolto.

La sesta vittima fu il professor Friedrich Tiefenbrunner, morto nel gennaio 2005 durante un'operazione a cuore aperto. Faceva parte della squadra di Spindler e aveva scoperto un metodo per proteggere la mummia contro gli attacchi di funghi e batteri.

Konrad Spindler, di 66 anni, era un esperto di primo piano di Ötzi. Soffriva di sclerosi laterale amiotrofica e nell'aprile 2005 le sue condizioni aggravate lo portarono alla morte. Aveva scarsa considerazione della teoria della "maledizione di Ötzi". «Penso che sia un mucchio di spazzatura. È solo una gonfiatura mediatica. Di sicuro ora diranno che io sarò il prossimo» disse Spindler. Fu il primo a ispezionare il corpo della mummia e la settima vittima di questa maledizione.

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photo credit: Museo di Archeologia del Sud Tirolo


Il dottor Tom Loy fu l'ottava e ultima vittima e morì all'età di 63 anni, nel novembre 2005, prima di terminare un libro su Ötzi. Era il direttore dei Laboratori di Scienze archeologiche all'Istituto di Bioscienza Molecolare dell'Università del Queensland. Anch'egli in molte occasioni entrò in contatto fisico con la mummia. Aveva identificato residui di sangue umano sulla mantella di pelliccia di Ötzi e sangue di qualche animale sulle sue frecce. La sua morte fu una sorpresa per la famiglia, sebbene sembra che soffrisse di una patologia pregressa del sangue da 12 anni, che gli fu diagnosticata poco dopo le analisi della mummia.
Tom non parlò mai di maledizione. I familiari vorrebbero pubblicare il libro su cui stava lavorando, ma ancora non sono riusciti a trovare il manoscritto.


In tutte queste morti si riscontrano senz'altro elementi che riconducono al concetto e all'immaginario delle maledizioni, primo fra tutti il fatto che tutte le vittime erano entrate in contatto con la mummia. Ma a ostacolare questo elemento c'è un lungo elenco di studiosi che hanno eseguito analisi ed esami sul corpo mummificato di Ötzi.

1- Rainer Henn capeggiò la squadra incaricata di prelevare la mummia
2- Kurt Fritz aveva guidato quella squadra e organizzava tour al luogo del ritrovamento
3- Rainer Hoelzl aveva filmato la rimozione della mummia
4- Helmut Simon fu lo scopritore e voleva guadagnare con quella scoperta
5- Dieter Warnecke capeggiò la squadra di soccorritori che cercava Simon
6- Friedrich Tiefenbrunner aveva trovato un modo per conservare meglio la mummia
7- Konrad Spindler ispezionò per primo il corpo mummificato
8- Tom Loy stava finendo un libro su Ötzi


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photo credit: Museo di Archeologia del Sud Tirolo


Ma quanti altri studiosi hanno caratteristiche tali da poter "scatenare" la rabbia del guerriero sciamano? Perché la mummia non li ha colpiti? E perché la maledizione ha mietuto le prime due vittime a ridosso della scoperta della mummia, fra il 1992 e il 1993, e le altre sei a partire dal 2004, dopo ben undici anni, e nel giro di un solo anno e mezzo?

Possiamo rispondere con le parole della dottoressa Angelika Fleckinger, archeologa, le stesse pronunciate da Konrad Spindler:
«La maledizione di Ötzi è un mucchio di spazzatura.»


L'archeologa Angelika Fleckinger è il direttore del Museo di Archeologia del Sud Tirolo di Bolzano, in cui è conservata la mummia e, naturalmente, non crede nella maledizione, pensando si tratti soltanto di una superstizione.
La studiosa ribadisce che la mummia è stata trovata nel 1992 e da allora non solo è trascorso molto tempo, ma tantissime persone sono entrate in contatto con la mummia.


«La gente muore, è un fatto normale» ha detto la Fleckinger. Al Museo conoscono bene la storia della maledizione. «Più di 150 scienziati sono entrati in contatto con la mummia e la maggior parte di loro sta assolutamente bene» sostengono.

Il caso di Helmut Simon è un po' insolito, a dire il vero. Secondo i soccorritori si verificano appena uno o due incidenti mortali all'anno in quella zona e le tormente sono abbastanza rare in quel periodo dell'anno. Ma resta il fatto che Simon camminò fuori dal sentiero.

L'unica cosa certa, e ben lontana dall'essere una maledizione, è che quasi 250.000 curiosi visitano la mummia di Ötzi ogni anno e che al museo entrano quasi 3 milioni di euro dalla vendita dei biglietti.
Tutte persone che a questa ipotetica maledizione non credono affatto.


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E di certo non ci crede l'attore americano Brad Pitt, che è arrivato (e non è l'unico) a tatuarsi Ötzi su un braccio!
 

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L’incidente del Passo Dyatlov
Il 25 Gennaio 1959 dieci sciatori partirono dalla cittadina di Sverdlovsk, negli Urali orientali, per un’escursione sulle cime più a nord: in particolare erano diretti alla montagna chiamata Otorten.
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Per il gruppo, capitanato dall’escursionista ventitreenne Igor Dyatlov, quella “gita” doveva essere un severo allenamento per le future spedizioni nelle regioni artiche, ancora più estreme e difficili: tutti e dieci erano alpinisti e sciatori esperti, e il fatto che in quella stagione il percorso scelto fosse particolarmente insidioso non li spaventava.
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Arrivati in treno a Ivdel, si diressero con un furgone a Vizhai, l’ultimo avamposto abitato. Da lì si misero in marcia il 27 gennaio diretti alla montagna. Il giorno dopo, però, uno dei membri si ammalò e fu costretto a tornare indietro: il suo nome era Yuri Yudin… l’unico sopravvissuto.
Gli altri nove proseguirono, e il 31 gennaio arrivarono ad un passo sul versante orientale della montagna chiamata Kholat Syakhl, che nel dialetto degli indigeni mansi significa “montagna dei morti”, una vetta simbolica per quel popolo e centro di molte leggende (cosa che in seguito contribuirà alle più fantasiose speculazioni). Il giorno successivo decisero di tentare la scalata, ma una tempesta di neve ridusse la visibilità e fece loro perdere l’orientamento: invece di proseguire verso il passo e arrivare dall’altra parte del costone, il gruppo deviò e si ritrovò a inerpicarsi proprio verso la cima della montagna. Una volta accortisi dell’errore, i nove alpinisti decisero di piantare le tende lì dov’erano, e attendere il giorno successivo che avrebbe forse portato migliori condizioni meteorologiche.
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Tutto questo lo sappiamo grazie ai diari e alle macchine fotografiche ritrovate al campo, che ci raccontano la spedizione fino questo fatidico giorno e ci mostrano le ultime foto del gruppo allegro e spensierato. Ma cosa successe quella notte è impossibile comprenderlo. Più tardi Yudin, salvatosi paradossalmente grazie alle sue condizioni di salute precarie, dirà: “se avessi la possibilità di chiedere a Dio una sola domanda, sarebbe ‘che cosa è successo davvero ai miei amici quella notte?'”.
I nove, infatti, non fecero più ritorno e dopo un periodo di attesa (questo tipo di spedizione raramente si conclude nella data prevista, per cui un periodo di tolleranza viene di norma rispettato) i familiari allertarono le autorità, e polizia ed esercito incominciarono le ricerche; il 26 febbraio, in seguito all’avvistamento aereo del campo, i soccorsi ritrovarono la tenda, gravemente danneggiata.
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Risultò subito chiaro che qualcosa di insolito doveva essere accaduto: la tenda era stata tagliata dall’interno, e le orme circostanti facevano supporre che i nove fossero fuggiti in fretta e furia dal loro riparo, per salvarsi da qualcosa che stava già nella tenda insieme a loro, qualcosa di talmente pericoloso che non ci fu nemmeno il tempo di sciogliere i nodi e uscire dall’ingresso.
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Seguendo le tracce, i ricercatori fanno la seconda strana scoperta: poco distante, a meno di un chilometro di distanza, vengono trovati i primi due corpi, sotto un vecchio pino al limitare di un bosco. I rimasugli di un fuoco indicano che hanno tentato di riscaldarsi, ma non è questo il fatto sconcertante: i due cadaveri sono scalzi, e indossano soltanto la biancheria intima. Cosa li ha spinti ad allontanarsi seminudi nella tormenta, a una temperatura di -30°C? Non è tutto: i rami del pino sono spezzati fino a un’altezza di quattro metri e mezzo, e brandelli di carne vengono trovati nella corteccia. Da cosa cercavano di scappare i due uomini, arrampicandosi sull’albero? Se scappavano da un animale aggressivo perché i loro corpi sono stati lasciati intatti dalla fiera?
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A diverse distanze, fra il campo e il pino, vengono trovati altri tre corpi: le loro posizioni indicano che stavano tentando di ritornare al campo. Uno in particolare tiene ancora in mano un ramo, e con l’altro braccio sembra proteggersi il capo.
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All’inizio i medici che esaminarono i cinque corpi conclusero che la causa della morte fosse il freddo: non c’erano segni di violenza, e il fatto che non fossero vestiti significava che l’ipotermia era sopravvenuta in tempi piuttosto brevi. Uno dei corpi mostrava una fessura nel cranio, che non venne però ritenuta fatale.
Ma due mesi dopo, a maggio, vennero scoperti gli ultimi quattro corpi sepolti nel ghiaccio all’interno del bosco, e di colpo il quadro di insieme cambiò del tutto. Questi nuovi cadaveri, a differenza dei primi cinque, erano completamente vestiti. Uno di essi aveva il cranio sfondato, e altri due mostravano fratture importanti al torace. Secondo il medico che effettuò le autopsie, la forza necessaria per ridurre cosÏ i corpi doveva essere eccezionale: aveva visto fratture simili soltanto negli incidenti stradali. Escluse che le ferite potessero essere state causate da un essere umano.

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La cosa bizzarra era che i corpi non presentavano ferite esteriori, né ematomi o segni di alcun genere; impossibile comprendere che cosa avesse sfondato le costole verso l’interno. Una delle ragazze morte aveva la testa rovesciata all’indietro: esaminandola, i medici si accorsero che la sua lingua era stata strappata alla radice (anche se non riuscirono a comprendere se la ferita fosse stata causata post-mortem oppure mentre la povera donna era ancora in vita). Notarono anche che alcuni degli alpinisti avevano addosso vestiti scambiati o rubati ai loro compagni: come se per coprirsi dal freddo avessero spogliato i morti. Alcuni degli indumenti e degli oggetti trovati addosso ai corpi pare emettessero radiazioni sopra la media.
L’unica descrizione possibile degli eventi è la seguente: a notte fonda, qualcosa terrorizza i nove alpinisti che fuggono tagliando la tenda; alcuni di loro si riparano vicino all’albero, cercando di arrampicarvici (per scappare? per controllare il campo che hanno appena abbandonato?). Il fatto che alcuni di loro fossero seminudi nonostante le temperature bassissime potrebbe essere ricollegato al fenomeno dell’undressing paradossale; comunque sia, essendo parzialmente svestiti, comprendono che stanno per morire assiderati. Così alcuni cercano di ritornare al campo, ma muoiono nel tentativo. Il secondo gruppetto, sceso più a valle, riesce a resistere un po’ di più; ma ad un certo punto succede qualcos’altro che causa le gravi ferite che risulteranno fatali.
Cosa hanno incontrato gli alpinisti? Cosa li ha terrorizzati così tanto?
Le ipotesi sono innumerevoli: in un primo tempo si sospettò che una tribù mansi li avesse attaccati per aver invaso il loro territorio ma nessun’orma fu rinvenuta a parte quelle delle vittime. Inoltre nessuna lacerazione esterna sui corpi faceva propendere per un attacco armato, e come già detto l’entità delle ferite escluderebbe un intervento umano. Altri hanno ipotizzato che una paranoia da valanga avesse colpito il gruppo il quale, intimorito da qualche rumore simile a quello di una imminente slavina, si sarebbe precipitato a cercare riparo; ma questo non spiega le strane ferite. Ovviamente c’è chi giura di aver avvistato quella notte strane luci sorvolare la montagna… e qui la fantasia comincia a correre libera e vengono chiamati in causa gli alieni, oppure delle fantomatiche operazioni militari russe segretissime su armi sperimentali (missilistiche o ad infrasuoni), e addirittura un “abominevole uomo delle nevi” tipico degli Urali chiamato almas. Eppure l’enigma, nonostante le decadi intercorse, resiste ad ogni tentativo di spiegazione. Come un estremo, beffardo indizio, ecco l’ultima fotografia scattata dalla macchina fotografica del gruppo.
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Il luogo dei drammatici eventi è ora chiamato passo Dyatlov, in onore al leader del gruppo di sfortunati sciatori che lì persero tragicamente la vita.
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Roland Doe: la vera storia dietro al film “L’Esorcista”
Roland Doe (a volte anche Robbie Mannheim) è il nome che è stato dato a un ragazzo sottoposto a un esorcismo negli Stati Uniti durante gli anni ’50.
Nonostante il suo nome sia rimasto segreto, la sua storia è diventata molto popolare e probabilmente anche tu la conosci. Perché?
Perché l’esorcismo di Roland Doe ha ispirato prima il libro e poi il film “L’Esorcista”.

Roland Doe

Non si sa molto di Roland prima dell’esorcismo. Si sa che è nato in una famiglia tedesca negli Stati Uniti nel 1935 circa.
Essendo figlio unico le uniche persone con cui interagisce e gioca sono adulti, soprattutto la zia Harriet, una spiritualista che gli insegna anche a usare la tavola ouija.
Dopo la morte di Harriet la famiglia comincia a notare fatti insoliti.
  • sente rumori strani
  • i mobili cambiano posizione da soli
  • alcuni oggetti cominciano a levitare quando Roland è nei paraggi
La famiglia, luterana, si rivolge quindi al pastore luterano Luther Miles Schulze e gli chiede consiglio.
Schulze oltre a essere un pastore si interessa di parapsicologia e invita Roland a casa sua per vedere se quello che dice la famiglia è vero.
Anche il pastore vede con i suoi occhi alcuni oggetti levitare e consiglia alla famiglia di Roland di consultare un prete cattolico.

I primi esorcismi

11-roland-doe.jpg

La famiglia accetta il consiglio e Roland viene sottoposto a vari esorcismi, uno di questi condotto da Edward Hughes nel Georgetown University Hospital.
Durante questo esorcismo Roland viene legato al letto, ma, non si sa come, riesce a liberare un braccio e a prendere una molla del materasso.
Con questa molla ferisce il braccio di Hughes e l’esorcismo viene annullato.
La famiglia del ragazzo si reca quindi a St. Louis, dove un parente si è messo in contatto con il prete Raymond Bishop.
Bishop, insieme al collega William S. Bowdern, fa visita a Roland e quello che vede lo spingerà a richiedere il permesso per effettuare un esorcismo.
Anche Bishop vede oggetti volare per la stanza, ma non solo. Il letto a cui Roland è legato trema e la voce del ragazzo diventa gutturale mentre pronuncia frasi in latino.
Inoltre, proprio come nel caso di Anneliese Michel, Roland sembra provare un’avversione per tutto ciò che è sacro.

L’esorcismo definitivo

La Chiesa autorizza l’esorcismo, al quale saranno presenti molte persone. Una di queste è Walter H. Halloran, prete cattolico che sta lavorando nel reparto psichiatrico di un ospedale.
Durante l’esorcismo Halloran sentirà più volte il ragazzo dire parole come
“Maligno” e
“Inferno”
Durante il rito, in un attacco di violenza, Roland romperà il naso a Halloran.


Dopo l’esorcismo

Dopo l’esorcismo si riporta che Roland è stato effettivamente liberato dai demoni che si erano impossessati del suo corpo e che ha vissuto una vita tranquilla.
Dai diari dell’esorcista Raymond Bishop, nel 1971, è stato tratto un libro dal quale due anni dopo verrà tratto il famosissimo film “L’Esorcista”.
Non manca chi sostiene che il povero Roland fosse affetto da una qualche malattia mentale e non fosse veramente posseduto, o chi dice che tutta la vicenda sia stata enormemente gonfiata per farci una storia e ricavarci soldi.
Uno scrittore, Mark Opsasnick, affermò di avere trovato la famiglia di Roland e di avere parlato con parenti e amici del ragazzo.
Da queste conversazioni è emerso che il ragazzino giocava spesso degli scherzi a parenti e conoscenti e l’autore è quindi giunto alla conclusione che anche la possessione fosse stata uno scherzo orchestrato da Roland per ricevere attenzioni.
La verità però rimarrà per sempre un mistero per tutti tranne che per i presenti al rituale.

 

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