Nel complesso scacchiere geopolitico dell'industria tecnologica mondiale, Taiwan continua a rappresentare una pedina fondamentale, che gli Stati Uniti non possono ignorare nonostante le nuove politiche dei dazi atte a favorire la produzione di chip casalinga. La recente proposta americana di dividere al 50% la produzione di semiconduttori destinati al mercato statunitense tra fabbriche taiwanesi e impianti sul suolo americano ha scatenato immediate reazioni di rifiuto da parte di Taipei.
Il no categorico di Taiwan alla divisione paritaria
La risposta taiwanese non si è fatta attendere e ha assunto toni decisamente netti. Cheng Li-chiun, vice premier dell'isola, ha dichiarato pubblicamente che nessun impegno è mai stato preso riguardo a una spartizione al 50% della produzione di chip. "State tranquilli, non abbiamo discusso questa questione durante questo round di colloqui, né accetteremmo simili condizioni", ha affermato il politico taiwanese, smorzando sul nascere le aspettative americane.
Questa presa di posizione arriva in risposta alle dichiarazioni del Segretario al Commercio americano Howard Lutnick, che aveva annunciato l'intenzione di proporre proprio questa divisione paritaria. L'idea di fondo è semplice: costringere Taiwan a trasferire la metà della produzione di semiconduttori destinati agli USA direttamente sul territorio americano, sfruttando gli impianti che TSMC sta già costruendo in Arizona.
La strategia dei dazi come arma di persuasione
L'amministrazione americana non si limita alle richieste dirette, ma sta costruendo un sistema di incentivi e penalizzazioni piuttosto articolato. Da un lato, le aziende che producono su suolo americano ricevono agevolazioni "a costo zero", dall'altro vengono minacciati dazi fino al 20% sui prodotti taiwanesi, con Trump che in passato ha parlato di tasse "enormi" che potrebbero arrivare "forse al 100%".
Questa strategia sembra aver già prodotto alcuni risultati concreti. TSMC ha annunciato investimenti per 100 miliardi di dollari in tre nuove fabbriche americane, mentre Apple ha incrementato i propri impegni negli Stati Uniti fino a 600 miliardi di dollari. Tuttavia, resta il problema dei tempi di produzione e della tecnologia disponibile.
Il divario tecnologico tra Taiwan e Stati Uniti
Uno degli aspetti più delicati della questione riguarda il gap tecnologico tra gli impianti taiwanesi e quelli americani. Mentre TSMC Taiwan è in procinto di avviare la produzione di massa del processo N2, considerato all'avanguardia nel settore, gli impianti americani dell'azienda producono ancora con tecnologia N4 e raggiungeranno il processo N3 solo nel 2028.
Questa differenza non è casuale: Taiwan ha implementato una politica che obbliga le aziende dell'isola a mantenere gli impianti esteri almeno una generazione tecnologica indietro rispetto a quelli nazionali. Una strategia protezionista che garantisce a Taiwan di mantenere il proprio vantaggio competitivo nel settore più strategico dell'economia moderna.
Prospettive future tra diplomazia e realpolitik
Nonostante le dichiarazioni ufficiali di rifiuto, i canali diplomatici restano aperti. Il Premier taiwanese Cho Jung-tai ha confermato che sono in corso "consultazioni sostanziali critiche" e che ci sono stati progressi significativi nei colloqui. Tuttavia, l'implementazione di qualsiasi accordo richiederebbe tempi lunghi, considerando la complessità dei processi produttivi dei semiconduttori.
La partita tra Stati Uniti e Taiwan sui semiconduttori rappresenta molto più di una semplice disputa commerciale: è il simbolo della competizione globale per il controllo delle tecnologie del futuro. Mentre Washington cerca di ridurre la propria dipendenza dall'Asia orientale, Taipei lotta per mantenere la propria posizione dominante in un mercato che costituisce il cuore pulsante della sua economia nazionale.