La ricerca neuroscientifica ha compiuto un passo significativo verso la comprensione di come potrebbero essere salvati i neuroni destinati a morire a causa di una forma genetica del Parkinson. Un team di ricercatori della Stanford Medicine ha scoperto che frenare l'attività di un enzima specifico potrebbe non solo arrestare la progressione della malattia, ma addirittura invertirne alcuni effetti devastanti sul cervello. La scoperta apre scenari terapeutici completamente nuovi per una patologia che colpisce milioni di persone nel mondo.
L'enzima ribelle che scatena la malattia
Al centro di questa forma di Parkinson c'è un enzima chiamato LRRK2, che a causa di una mutazione genetica diventa iperattivo. Questa iperattivazione provoca una catena di eventi disastrosi: le cellule cerebrali perdono le loro "antenne" comunicative, strutture chiamate ciglia primarie che permettono di inviare e ricevere messaggi chimici. È come se improvvisamente tutti i telefoni cellulari di una città perdessero il segnale di rete contemporaneamente.
Il risultato è un crollo delle comunicazioni tra i neuroni dopaminergici della substantia nigra e lo striato, una regione profonda del cervello fondamentale per il movimento e le decisioni. Quando questi neuroni sono sotto stress, normalmente inviano un segnale chiamato "sonic hedgehog" - battezzato così dal famoso personaggio dei videogame - che dovrebbe stimolare la produzione di proteine neuroprotettive. Ma senza le ciglia primarie, questo SOS non arriva mai a destinazione.
La terapia che fa ricrescere le antenne cellulari
I ricercatori guidati da Suzanne Pfeffer hanno testato un inibitore molecolare chiamato MLi-2 su topi affetti dalla mutazione genetica. Inizialmente, due settimane di trattamento non hanno prodotto alcun risultato, lasciando il team scoraggiato. Ma l'ispirazione è arrivata da studi sui neuroni che regolano i ritmi circadiani, dove le ciglia primarie crescono e si riducono ogni 12 ore.
Decidendo di prolungare il trattamento a tre mesi, i risultati sono stati "straordinari", come li ha definiti la stessa Pfeffer. Le ciglia primarie sono ricresciute completamente, ripristinando la comunicazione tra le diverse aree cerebrali. La densità delle terminazioni nervose dopaminergiche nello striato è raddoppiata, suggerendo un recupero iniziale di neuroni che erano in procinto di morire.
Oltre la stabilizzazione: verso il recupero
Quello che rende questa scoperta particolarmente promettente è che non si tratta solo di rallentare la progressione della malattia. Gli indicatori neurologici hanno mostrato un vero e proprio miglioramento, con la produzione di fattori neuroprotettivi tornata ai livelli normali e i neuroni dopaminergici che mostravano segni di minor stress.
La forma genetica del Parkinson rappresenta circa il 25% di tutti i casi, ma gli scienziati ritengono che l'approccio potrebbe funzionare anche per altre varianti della malattia. La chiave è la diagnosi precoce: i primi sintomi - perdita dell'olfatto, costipazione e disturbi del sonno REM - compaiono circa 15 anni prima del tremore caratteristico.
La corsa verso le sperimentazioni cliniche
Attualmente sono in corso diversi trial clinici con inibitori dell'enzima LRRK2, alimentati anche dai finanziamenti della Michael J. Fox Foundation. Il team di Stanford sta ora testando se questo approccio possa funzionare anche per le forme non genetiche del Parkinson.
La collaborazione internazionale tra Stanford e l'Università di Dundee in Scozia ha portato risultati che potrebbero trasformare radicalmente l'approccio terapeutico. Come sottolinea Pfeffer: "Questi risultati suggeriscono che questo approccio ha grandi promesse per aiutare i pazienti in termini di ripristino dell'attività neuronale in questo circuito cerebrale". La speranza è che ciò che funziona nei topi possa presto tradursi in benefici concreti per i pazienti umani.