Alla (ri)scoperta di... Borderlands

Anche le grandi storie hanno bisogno di un’infiorettatura. E quando si parla di Borderlands, è inevitabile ricordare le parole di Marcus.

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a cura di Nicholas Mercurio

Quando si parla di Borderlands, è inevitabile ricordare le parole di Marcus, il narratore delle peripezie di ogni avventura creata e sviluppata da Gearbox Software, il celeberrimo studio di sviluppo che, nel corso degli ultimi anni, ha offerto ai giocatori opere memorabili e uniche, nonché capaci di far scattare nella mente di tutti ricordi impossibili da dimenticare.

Era il 2009, il mercato era ancora reduce da Mass Effect e Oblivion, e c’era un gran bisogno di novità per compensare l’abisso scavato dalle due opere menzionate. Borderlands, proprio in quell’anno, venne rilasciato facendosi apprezzare e conoscere per il suo tono esagerato. Premiato dalla critica e apprezzato dai giocatori di tutto il mondo, il videogioco di Gearbox si portò dietro grandi aspettative, specialmente per via del suo trailer di gioco che si mostrò in tutto il suo splendore, arrivando nel proverbiale momento giusto dove c’era fortemente bisogno di un’opera identitaria e originale.

C’è da dire che, da allora, ne sono passate parecchie di acque sotto i ponti e che Gearbox è diventata una casa sviluppatrice talentuosa che non ha ancora compiuto dei reali passi falsi, neppure con Borderlands 3, considerato dal pubblico il videogioco meno riuscito della serie. Anche se, e lo dico consapevolmente, Borderlands è una delle mie saghe videoludiche preferite, una delle poche che mi ha dato modo di viaggiare in un universo lontano, facendomi appassionare alle peripezie dei Cacciatori della Cripta. E quanto è stato meraviglioso aprirne una, e poi un’altra, e un’altra ancora… fino allo sfinimento, sì, specialmente in Tales from the Borderlands.

Quattro Cacciatori, un mondo di avventure...

Quanti di voi ricordano Brick, Lilith, Mordecai e Roland? Quattro personaggi, uno più folle dell’altro, ed era inevitabile: niente in Borderlands è mai stato lineare o regolare, e tutto è sempre stato fuori dagli schemi. Il primo viaggio a Pandora, d’altronde, non si scorda mai, e come potrebbe essere altrimenti? Al tempo non mi guardavo indietro, ero sempre curioso, perché volevo esperienze capaci di sorprendermi e appassionarmi. Se ci rifletto, fu meraviglioso: e se ci penso ora, in realtà, mi viene da sorridere. Mai avrei pensato, infatti, che la serie sarebbe continuata con un secondo capitolo, un terzo episodio, dei videogiochi spin-off e addirittura un prequel. Anche se, a conti fatti, il suo nome effettivo era Borderlands: The Pre-Sequel proprio per mantenere il tono sprezzante dei seguiti quanto dei prequel.

Tornando però a Borderlands, al primo Borderlands, viene inevitabile abbandonarsi al passato e, in generale, al primo contatto con l’opera di Gearbox, che ebbe la capacità di costruire un mondo verosimile, oltre che vivo, pulsante e unico. Giocarlo ora, dopo Borderlands 2 e Borderlands 3, potrebbe in effetti essere un passo indietro non indifferente per chi non ha immediatamente cominciato a interfacciarsi con la serie dal primo capitolo del franchise. Eppure, già all’epoca si intravedeva quel tono ironico che sapeva come strappare ben più di una risata, sebbene non fosse esagerato come in Borderlands 2. Se nel prosieguo della serie si conoscevano meglio Jack il Bello e i suoi piani malvagi per impossessarsi dell’Eridium distruggendo Pandora, il nemico è il comandante Steele, una figura abietta pronta a tutto pur di impossessarsi della Cripta.

La trama, che era appunto estremamente classica, si poneva al giocatore in modo del tutto leggero, e non si accontentava di raccontare una storia qualunque. Ispirandosi al Vecchio West e, nello specifico, ad alcuni dei film di Sergio Leone, Gearbox ebbe la capacità di creare un videogioco forte e ironico, nonché divertente e spensierato. Ce n’era un gran bisogno, in effetti, dopo la seriosità di Dragon Age Origins di BioWare, giunto sul mercato presentandosi in pompa magna, e dimostrando un eccellente modo per proporre un mondo fantasy che non fosse quello di Oblivion o dedicato a Il Signore degli Anelli. Borderlands, tuttavia, intendeva essere un videogioco totalmente diverso da quelli conosciuti. Intanto, era un RPG loot and shooter, dove è il giocatore a scegliere quali armi equipaggiare mentre esplora il mondo di gioco e combatte contro bestie di qualunque caratura.

Pensato per sfondare persino la decima parete, interfacciandosi con il pubblico con unicità e passione, Borderlands giunse nel momento giusto perché, oltre a differenziarsi dalle altre produzioni più classiche e sbattendo i pugni sul tavolo della concorrenza, era quel gioco alternativo che tutti ricordano perché era mostruosamente divertente, con una storia e un’ironia tagliente. Come ben sappiamo, però, c’è sempre molto altro dietro la creazione di un videogioco, e in questo caso Borderlands era forte di un racconto sicuramente non innovativo ma credibile e azzeccato. Nessun altro gioco, a parte Gun di NeverSoft e Duke Nukem, si presentava in maniera così unica e del tutto imprevedibile.

Mentre a Fyrestone lasciavo il cuore e pure qualche spicciolo, sapevo di essere il protagonista di un’avventura incredibile. Capitemi, ho sempre adorato i film d’avventura come Indiana Jones e non nascondo di essere un grande fan di Brendan Fraser ne La Mummia, e il pensiero di potermi accaparrare del tesoro di una cripta aliena mi spingeva a non volere null’altro. Mentre me ne innamoravo, quindi, non ne avevo mai abbastanza: la mia esperienza continuava imperterrita tra sparatorie, momenti da lacrime virili e situazioni alquanto imbarazzanti. Eppure, funzionava, c’era passione e c’era soprattutto tanto lavoro, perché Gearbox, al contrario di tanti studi di sviluppo, ha sempre tenuto in gran considerazione la creazione di un mondo che avesse una propria identità.

Borderlands, il videogioco che sorprese tutti

Borderlands propose dei protagonisti che, per quanto stereotipati, potevano essere chiunque. E chiunque poteva mettersi alla ricerca del tesoro della Cripta di Pandora, pure i robot senzienti come Claptrap, la mascotte di ogni singolo episodio di Borderlands, compresi gli spin-off. Se non altro, in Borderlands c’è sempre lui a dare il benvenuto ai nuovi giocatori. È una figura immancabile, come lo è lo stesso Marcus, e come lo sono stati Jack il Bello e il capitano Flynt, un villain di Borderlands 2, fratello di Zane, uno dei quattro personaggi giocabili di Borderlands 3, che scelsi proprio nel corso della mia prima e unica run all’interno della produzione. Al netto di questo, tuttavia, ad avermi appassionato del primo episodio del franchise, oltre al suo stile folle, era soprattutto la capacità di raccontare con semplicità una trama senza renderla scontata e immediatamente leggibile.

Quanti di voi, insomma, si sono mai stufati del racconto di Borderlands? È qualcosa che, oggettivamente, non può accadere, dato che l’approccio utilizzato da Gearbox è inedito ed esagerato proprio perché tutto sia costruito per mettere il giocatore in una condizione di forza. Non ci sono solo parolacce e, soprattutto, i dialoghi non sono scritti per riempire i buchi lasciati magari da troppi silenzi. Ogni elemento, all’epoca, fu gestito proprio per dare modo al giocatore di divertirsi anche grazie alle freddure di Mordecai, il personaggio che ho scelto prima di provare Roland e Lilith, legati in Borderlands 2 dal sentimento più bello che esista. E no, non era assolutamente l’odio, anche se saperlo mi ha sorpreso grandemente perché, insomma, come si poteva amare qualcuno mentre tutto esplodeva e c’era una Cripta da aprire per diventare più ricchi di uno sceicco spaziale?

Non contando il solito cattivo della situazione che non aspettava altro che banchettare sul nostro cadavere, raccogliendo magari quel poco che rimaneva di noi per darlo in pasto agli skag (delle creature selvagge del mondo di Borderlands che ricordano dei cani rabbiosi non molto predisposti al pacifismo). E allora capitava di difendersi, prendendo magari delle contromisure, difendendosi alla bell’e meglio, ma combattendo ferocemente e senza freni. Mordecai, che era il mio personaggio preferito, era armato di un fucile da cecchino ed era supportato da Bloodwing, un avvoltoio utilissimo nei momenti delicati.

Giusto perché lo sappiate, e lo scrivo consapevole di essere di parte, Mordercai era il personaggio migliore tra i quattro proposti nel primo capitolo del franchise. Calmo, ponderato, legato ai suoi amici e ai suoi modi di fare, agiva spesso in maniera fredda e distaccata, eppure aveva un cuore grande, che doveva solo essere riempito. Insomma, per quanto fosse abile nell’uccidere indistintamente gli capitasse a tiro, c’era un cuore sotto quella scorza dura apparentemente impossibile da scalfire. Borderlands, insomma, seppe concentrare tutte queste sinergie e fare molto di più, contribuendo a offrire delle fasi shooting estremamente ben implementate e divertenti, sfruttando i giocatori e le loro abilità. Mai noiose e sfaccettate, rappresentavano il fiore all’occhiello del prodotto, perché risultavano costantemente vivaci e, soprattutto, impossibili da non amare e apprezzare se combinate con le abilità di ciascun protagonista.

Se all’epoca qualcuno cercava pane per i suoi denti e un’avventura capace di appassionare e intrattenere il giocatore, Borderlands era la migliore opzione, e in realtà potrebbe esserlo ancora oggi. In tal senso, l’edizione gioco dell’anno è la versione migliore per vivere l’esperienza dell’opera di Gearbox, poiché contiene al suo interno tutti i contenuti aggiuntivi rilasciati durante il primo e il secondo anno di pubblicazione. Nulla a che vedere, a mio parare, con i DLC di Borderlands 2 e Borderlands 3, che hanno offerto storie, trame e momenti indimenticabili a chiunque abbia amato gli altri due capitoli del franchise, apprezzati anch'essi dalla critica e dal pubblico. D’altronde, nessuno poteva aspettarsi di meglio da un team così affiatato e apprezzato, che con Tiny Tina’s Wonderlands ha voluto esagerare e portare un altro modo di intendere le avventure di Borderlands, ambientate però in un medioevo fantasy immaginifico e assolutamente imperdibile.

Cosa aspettarsi dal futuro?

Mentre ci prepariamo ad accogliere New Tales from the Borderlands, il nuovo capitolo spin-off del brand di Gearbox, mi domando quale futuro potrebbe coinvolgere per la serie. In realtà lo faccio ormai da anni, da quando ho concluso Borderlands 3, e in un certo modo potrei già persino scrivere un intero articolo dedicato alle aspettative di un eventuale Borderlands 4.

La verità che, ancora oggi, in tanti – me compreso – sono ancora reduci dal terzo capitolo, e che l’annuncio di un nuovo capitolo del brand, per quanto atteso, potrebbe essere pesante, perché il prossimo episodio del franchise dovrà portare ulteriori novità in un sistema rodato ma comunque vincente. Di sicuro, non si può fare altro che abbandonarsi con la mente ai ricordi, magari preparando la propria arma e, chissà, immaginandosi ricco come Jack il Bello. O almeno, è così che mi immagino.