Anthem è molto più del suo mancato supporto

Di Anthem si è criticato molto il suo mancato supporto, ma il titolo Bioware può anche brillare di una luce propria in alcuni aspetti.

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a cura di Alessandro Tonoli

Se c’è una cosa che mi viene difficile accettare del mondo videoludico è la capacità dell’utenza di aderire fortemente alle logiche di bandiera. Capita così che alcuni prodotti, a prescindere dalla loro qualità, vengano presi estremamente in antipatia. Lo si avverte benissimo quando giri per il web: più che altri medium artistici, i videogiochi, lo sappiamo bene, riescono a creare quella strana propensione alle polarizzazioni estreme, dove i pareri “fantastico” o “orribile”, sembrano essere gli unici in grado di raccontare la realtà di una produzione.

A fronte di questo coro di voci che si susseguono e si finiscono per autoalimentare, capita spesso che sul mercato escano così due versioni differenti dello stesso gioco: il prodotto reale, e il prodotto frutto di questa narrazione alquanto deformata. A farne le spese, più di tutti, sono quei prodotti imperfetti: titoli che nel mondo A, chiamiamolo così, avrebbero avuto modo di mettere in luce le loro qualità quanto i loro difetti (e trattandosi di prodotti lucidi sarebbero stati in grado di intrattenerci piacevolmente, perlomeno, certamente non entusiasmando); nel mondo B invece, il nostro, a ben intendersi, questi stessi prodotti vengono bistrattati quasi come se fossero programmati con un codice maleodorante, e nonostante in loro risieda una indiscutibile qualità artistica o ludica, questa finisce sotto strati di lamentele e critiche, la maggior parte delle volte anche corrette, per carità, ma espresse in maniera totalmente fuori scala.

Vale l’esempio rapido di The Order 1886: indegno perché troppo breve, gameplay bello, sì, ma monotono. Leggendo fra i commenti dell’utenza all’epoca sembrava di trovarsi di fronte a un gioco che ti avrebbe fatto vendere la console. Una sorta di fregatura. C’è da chiedersi però come fa il risultato della pesa ad essere effettivamente così negativo quando la narrativa, anche per quelle poche ore che ci accompagna, è una vera bomba, e, soprattutto, quello che gira davanti ai tuoi occhi è una meraviglia grafica quasi senza paragoni. Come fa, insomma, a contare sempre più quello che manca quando ci sono eccellenze, ovviamente di rilievo, in gioco?

Seppur questi atteggiamenti siano stati perpetrati più e più volte su una bella mole di titoli (c’è un girone dell’inferno apposito che attende tutti quelli del team “I telefoni rossi di Bioshock”), non ho potuto fare a meno di far riaccendere nuovamente in me la scintilla del fastidio piuttosto di recente, e nello specifico durante la prova di un titolo che il backlog mi aveva fatto purtroppo accantonare all’epoca dell’uscita: Anthem.

Quel titolo che (leggendo di qua e di là, bazzicando in rete fra i vari forum nel tempo) avrebbe dovuto impedirmi di andare oltre le cinque ore di gioco per via di ripetitività, mancanza di una seria componente di end-game, etc. E invece, con mio sommo stupore, nulla di tutto questo. Anzi. Quello che mi sono ritrovato tra le mani è stato un titolo che si è rivelato essere quel gioco che ogni sera mi ha fatto accendere la console e, pad alla mano, è stato in grado di raccontarmi del suo un mondo sfavillante, facendomi vivere nel volo il suo concetto di libertà. Ma, cosa più importante, è stato in grado di riportami nuovamente su quella domanda: come fa a contare sempre più quello che manca, rispetto alle meraviglie che gli studi di sviluppo ci portano davanti allo sguardo?

Quando le aspettative pesano più di uno strale

Ricordo ancora la prima volta che ho messo gli occhi su Anthem. Effettivamente penso che ce la ricordiamo un po’ tutti. Quello che era stato uno dei principi dell’ E3 2017 non poteva non imprimersi con forza negli occhi e nel cuore, grazie a quel reveal in game capace di far vivere praticamente su di sé l’intero evento losangeliano. Due sole cose smorzavano l’entusiasmo di addetti ai lavori e pubblico: la frase - shooter a mondo condiviso - e il nome Bioware.

Il fatto che la componente online fosse predominante nell’economia del gioco faceva suscitare immediatamente molti dubbi, e certamente a buona ragione. Dubbi, più che altro, relativi alla sua reale capacità di integrare una componente narrativa che fosse realmente in grado di appassionare i videogiocatori, sempre molto restii (soprattutto dopo il primo Destiny) nel fidarsi delle promesse relative alla presenza di una narrativa esaltante che non sarebbe stata compromessa dalle logiche del multiplayer.

All’epoca lo scotto pagato col percorso di publishing non certo lineare del primo Destiny era certamente ancora bello presente, ed era parso altrettanto chiaro che questo tipo di giochi non avevano ancora trovato delle grammatiche solide. L’altra magagna grossa era il nome Bioware. Sviluppatore, come ben sappiamo, passato dai fasti del decennio pre-EA alle antipatie del pubblico, causate dai risultati non ottimali a cui sono andate incontro le sue saghe principali.

Insomma, il titolo aveva già tutta una sua bella dose di considerazioni che pesavano sulle sue spalle ancor prima di vedere gli scaffali. E l’uscita, come sappiamo, non è stata certo di quelle capaci di riscrivere totalmente il peso di queste considerazioni, anzi. Anthem si è rivelato un titolo imperfetto, non in grado di soddisfare le richieste del pubblico di riferimento, principalmente a causa della sua incapacità di proporre un endgame in grado di far rimanere in vita il titolo anche dopo il completamento delle sue missioni principali. Community scontenta (ed evento pandemico annesso) hanno poi portato EA e Bioware ad annunciare proprio questo gennaio che il progetto che avrebbe dovuto risollevare le sorti di questa IP, il tanto vociferato Anthem Next, non avrebbe mai visto luce.

Questa è la narrazione principale dei fatti, la stessa circa con cui vi scontrerete in rete provando a spulciare tra siti e forum. Eppure, installando il gioco oggi, nel 2021, e provando a cancellare tutta questa mole di parole, nonostante i tre anni dall’uscita, si scopre qualcosa di sufficientemente dissonante rispetto a quello che di Anthem è stato detto.

Anthem Now

Parliamoci chiaro. Giocando ad Anthem, come già anticipato, non scoprirete un gioco perfetto, o un gioco che, andando poi a rileggere quelli che sono stati i suoi “contro”, vi farà pensare che ciò che è stato scritto non corrisponda ad una descrizione obiettiva del prodotto. Quello che è stato detto di lui è tecnicamente corretto, ma pesato non certo benissimo dalla voce popolare, accecata forse dal peso del tam tam mediatico.

Tam tam che non ha permesso di vivere in serenità alcune di quelle emozioni che il gioco suscita prepotentemente. Perchè quando si gioca ad Anthem si entra in un mondo capace di ammaliarti, e catturarti visivamente come pochi altri titoli. A pochi minuti dalla sua conclusione viene naturale infatti soffermarsi con una certa amarezza sul pensiero che non voleremo più tra le lande della regione di Bastion. Che la sua natura non ci rivibrerà intorno, che non sentiremo più lo spin del nostro strale nel momento in cui si lancia in picchiata in una cascata scrosciante, e i colori vividi di quel mondo non appena iniziano a sfocare nella velocità del motion blur.

Non ci saranno più quelle improvvise battaglie pronte ad assorbici, non ci saranno più quelle spettacolari bolle dimensionali in cui finire catapultati. Per non parlare poi delle sue rovine, i suoi vettori. Tutto quello che costituisce la sua spropositata lore, così evocativa e misteriosa: i suoi segreti, i suoi manufatti, e quell’inno che tanto ci risuona in testa per tutta la durata del gioco.Pur senza creare un mondo effettivamente immenso, o particolarmente ricco di attività, Anthem riesce a creare un contesto dove anche la sola possibilità di volare liberi accedendo saltuariamente alle fasi di shooting sono un motivo più che sufficiente per provarlo, e per condividere la meraviglia dalla sua potenza visiva, unita alle sue dinamiche di gameplay, assolutamente distintive. Capace di modellarsi a seconda dello strale che indosseremo, il feeling con il gioco riesce a cambiare abbastanza radicalmente, e gli dona decisamente più strati di quelli che potrebbero sembrare ad una rapida occhiata.

Nonostante a livello narrativo l’opera risuoni particolarmente con il racconto di genere imbastito da Bungie per la sua creatura, Anthem anche in quel campo è stato in grado di trovare una sua formula, una sua chiave che gli permette comunque di risultare riconoscibile, anche grazie ad una lore, come già accennato, capace di rivelarsi addirittura eccitante se gli si concede la giusta attenzione. Le sue rovine, i suoi racconti, sfusi in un contesto naturalistico assolutamente in grado di magnetizzare lo sguardo, non possono che rendersi protagonisti indiscussi di un titolo capace letteralmente di primeggiare in questo senso, nello scenario videoludico attuale. Immaginari così, è bene ricordarsi, non ne capitano spesso.

Fatti questi dovuti appunti, potete capire come sia assolutamente paradossale che la principale pecca del gioco risieda nel suo mancato endgame, tradotto, nel suo non essere, potenzialmente, infinito, desiderio che sempre di più l’utenza sembra incanalare e richiedere a gran voce dai prodotti videoludici. Ma da quand’è il concetto di endgame è finito per diventare così preponderante? Da quando, il fatto che un titolo debba per forza essere in grado di intrattenerci anche dopo la conclusione della sua main quest, è diventato un motivo valido per giustificare la non accettazione del gioco stesso, o ad affibbiargli una valutazione tanto superficiale, come se tutto il resto, improvvisamente, non avesse quasi più valore?

Endgame o niente

Il fattore endgame è diventato in qualche modo predominante nelle dinamiche di molti titoli. La community videoludica si è ormai abituata a considerarlo un requisito praticamente fondamentale, e concetti come game as a service, gioco piattaforma, stanno creando equivoci sia per chi sviluppa, tanto per chi ne fruisce, in quanto le grammatiche di questo genere di esperienze sono ancora sfuggevoli, e troppo relazionate ai titoli specifici che ne fanno da ambasciatori.

Alla conclusione del gioco devi avere un motivo per continuare. Questo il diktat. Sembra di riassistere, per certi versi, alla prima bolla multiplayer della generazione 360/Ps3, o a quella open world che aveva finito per iniziare a contaminare un gran numero di prodotti. Anche in quei casi l’utenza si aspettava che il titolo avesse certe caratteristiche, senza la quali potenzialmente poteva non essere considerato degno di attenzione per una larga parte del pubblico.

E se è pur vero che alcuni titoli, per loro stessa natura, sono basati su questo tipo di asset e, come nel caso di Anthem, sono sponsorizzati dalla produzione stessa come giochi che punteranno sulla continua iniezione di contenuti (e qui sicuramente ci si è scavati la fossa da soli, come anticipavamo), anche per questi titoli non bisogna far sì che questo parametro diventi l’unico, o il principale metro di giudizio, soprattutto per quelle opere che durante il viaggio (nella loro cosiddetta main-quest) mettono sul piatto un contenuto in linea con quello che mediamente offrono altre produzioni non per forza fondate sul concetto di game as a service. Anthem è sicuramente un titolo valido, anche senza il potenziamento che gli avrebbe potuto conferire un diverso tipo di supporto.

Posto il fatto che l’errore sta sicuramente alla base delle promesse fatte e non mantenute, risulta quantomeno ingiusto ridimensionare le qualità di un titolo, arrivando addirittura a prenderlo in “antipatia”, gioendo del fatto che la sua espansione non sarebbe più stata realizzata, cosa che si è verificata per l’appunto con la cancellazione di Anthem Next, questo febbraio. Dopo tutti i “meno male” letti nella bolla web, mi chiedo cosa sia diventato oggi il mondo videoludico, se neanche un titolo con questo tipo di immaginario riesce a creare fascino e curiosità, anche senza convincere del tutto; cosa serve che abbia un titolo, oggi, per portarci comunque dalla sua parte? Più osservo Anthem e più mi duole il cuore a pensare che la sua strada sia già giunta al termine, che non sapremo mai cosa avrebbe potuto produrre l’ulteriore sviluppo della sua lore se gli fosse stata data fiducia, o se l’odio verso Bioware non avesse generato quel disprezzo diffuso di cui Anthem sembra godere in eccessiva quantità.

È comprensibile il fatto che Anthem abbia un problema di longevità, e che questo stesso venga sottolineato, ma trovarsi a invalidare il titolo per questo significa non essere in grado di godere delle sue eccellenze a causa, anche, della nostra eccessiva voglia di contenuti “infiniti”, a causa della nostra bulimia contenutistica; proprio quella che rende indigeribili esperienze più confinate, ma di valore artistico indiscusso, cosa che potrà facilmente riconoscere solamente chi ha davvero provato su di sé (e non guardato su Youtube o Twich) il feeling distintivo che Bioware è riuscita a riprodurre con i suoi strali.

Sicuramente con Anthem non sono andate bene molte più cose rispetto ai soli concetti insiti nell’accoglienza riservata dalla community. E altrettanto sicuramente, ora, titoli come questo andranno incontro a destini potenzialmente migliori grazie a servizi come Gamepass, fondamentali per garantire una corretta relazione fra pubblico e videogiochi, meno improntata sul concetto di “valutazione per sentito dire”, e più calata sulla reale qualità del prodotto, data dall’esperienza. Se Anthem fosse stato lanciato sul Gamepass, non avrebbe magari avuto la stessa fortuna di Outriders, ma sono sicuro che poco ci sarebbe mancato.

Altrettanto sicuramente però il nostro allarme, come community, è quello di moderare con attenzione il nostro giudizio, capendo che la longevità non può diventare un parametro assoluto in grado di oscurare qualunque altro tipo di caratteristica, e che le logiche di bandiera, le antipatie covate verso brand, software house, non creano valore per nessuno. Tutt’altro: distruggono, limitano, e creano potenzialmente una via per farci diventare un pubblico incapace di meravigliarci, schiacciato dal peso delle aspettative, del tam tam social/mediatico, che la comunicazione del web ci fa piovere costantemente addosso.

Quello stesso che poi magari non ci fa prendere più nemmeno in mano il pad per capire se quello che abbiamo visto fugacemente in uno streaming su Twich ci riesce davvero a divertire oppure no, e che all’annuncio dell’annullamento di un’espansione che avrebbe potuto ridare linfa ad un gioco ci fa esultare. Al posto che piangere per un mondo potenzialmente incredibile, ormai perduto per sempre.