Aspettando Elden Ring | Le regole del mondo nei Soulsborne

Da Demon's Souls, fino al recente Elden Ring, scopriamo cosa rende uniche le produzioni firmate da Hidetaka Miyazaki.

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a cura di Edme Gaulle, Andrea Maiellano

A pochi giorni dall’arrivo di Elden Ring, abbiamo deciso di analizzare, assieme a un cultore del genere, tutto ciò che differenzia una produzione di Miyazaki (amichevolmente definita Soulsborne dalla sua fan-base) da tutti quei titoli che, dall’esplosione di quel fenomeno noto come Dark Souls, si sono cimentati nel tentare di riproporre quella formula magica ideata da Hidetaka, provando a ottenere lo stesso successo di pubblico e critica.

A 13 anni di distanza dall’esordio del genere su PlayStation 3 con Demon's Souls, cerchiamo di comprendere cosa renda una qualunque produzione targata Miyazaki così equilibrata in ogni suo aspetto, al punto da non essere perfettamente riproducibile dai suoi emulatori, pur riproponendo uno o più elementi, e comprendere come sia possibile che Elden Ring, apparentemente così “diversamente identico”, riesca a presentare queste peculiari caratteristiche in una struttura inedita per la serie.

Mondi inter-connessi

Sulla carta il mondo in cui prendono vita le vicende dei vari Soulsborne non è niente di realmente nuovo. Di fatto ci troviamo di fronte a una lunga serie di corridoi alternati da stanze di dimensioni più generose e collegate ad aree di più ampio respiro. Laddove, scritta in questa maniera, questa struttura può sembrare molto simile, se non identica, a quell’Open Map diventato celebre con l’immortale The Legend Of Zelda Ocarina of Time, la realtà dei fatti è che il level design delle produzioni targate Hidetaka Miyazaki pesca a piene mani da differenti tipologie di produzioni per illudere, sedurre e sorprendere il giocatore.

Basta pensare per un istante al primo Dark Souls e alla sensazione straniante del trovarsi liberi di scegliere dove andare una volta giunti presso il contenuto Hub di gioco. Due campane da suonare, poche indicazioni per capire dove dirigersi, o da dove cominciare l’avventura, piena libertà di scelta e un mondo di gioco ostile e pronto a punire i giocatori poco timorosi.

Eppure, analizzando con fredda obiettività la mappa di gioco di Dark Souls, si può tranquillamente notare che siamo davanti a una planimetria piuttosto ridondante dove, quasi, tutte le strade che partono dall’hub centrale propongono dei percorsi decisamente lineari che si muovono come spirali per permettere la creazione di scorciatoie atte a collegarle fra loro, creando nel giocatore l’illusione di trovarsi di fronte a un mondo più vasto di quello che realmente è.

Per ottenere questa illusione, poi ampliata nel corso delle produzioni successive fino ad arrivare all’open world di Elden Ring, Dark Souls sfrutta una serie di escamotage, e di “muri artificiali”, atti a favorire l’esplorazione del giocatore facendogli comprendere, attraverso le morti più orribili, quale sia il percorso migliore con il quale affrontare l’avventura. Il tutto senza mai incanalarlo in una direzione obbligata ma lasciandolo libero di sperimentare, esplorare e fallire.

Gli escamotage, di cui vi accennavamo poc’anzi, sono tutti riconducibili a piccoli “trucchi da sviluppatore” (come l’apparente assenza di caricamenti, celati all’interno di determinate sezioni lineari e che separano due macro-aree) e a quella che potremmo amichevolmente chiamare “la regola Miyazaki”, ovvero “se lo vedi, lo puoi raggiungere”.  Il miglior esempio che ci viene in mente, così su due piedi, è il panorama che si staglia di fronte al giocatore in seguito alla sconfitta di Vordt in Dark Souls 3. Dal villaggio a Faron’s Keep, passando per l’iconica cattedrale, quasi tutto il mondo di gioco si staglia dinnanzi al giocatore con la promessa di poter essere raggiunto in tutta la sua vastità.

Una progressione ansiogena

Da questa inter-connessione fra le diverse zone che compongono le mappe dei Soulsborne, derivano delle planimetrie al limite del labirintico. La verticalità degli ambienti viene sfruttata appieno per connettere diverse sezioni del mondo di gioco fra loro, sfruttando i dislivelli per complicare ulteriormente il level design attraverso scale, porte apribili solo in un determinato verso e ostacoli di ogni sorta che facciano credere al giocatore di percorrere molta più strada di quella che realmente sta percorrendo.

Tutto questo per poter rendere il mondo di gioco pericoloso tanto quanto le creature che lo abitano. La distanza fra due checkpoint (siano essi falò, lanterne o siti di grazia), la prima volta che la si percorre nella sua interezza, è studiata per far soppesare al giocatore ogni suo passo, facendogli credere di essere sempre più distante da quell’accogliente sicurezza offerta dai checkpoint e non offrendogli nessun indizio di quanto manchi al prossimo punto di sosta.

Questo, unito all’ignoranza del giocatore su dove si possano celare le minacce o su cosa possa incontrare sul suo percorso, rende la progressione all’interno di ogni Soulsborne una costante battaglia fra il gioco e il giocatore. Una perenne ansia, unita a un costante sentore di fragilità, concretizzata non solo dalle intricate planimetrie realizzate dagli sviluppatori ma, soprattutto, dalla combinazione: elementi ostili e potenziale perdita di anime o echi del sangue.

Che siano visibili, invisibili, appesi al soffitto, piccoli, giganti, demoni o funghi, ognuno dei nemici presenti nei Soulsborne non è mai posizionato in maniera casuale ed è ubicato in maniera tale da sfidare la fiducia del giocatore, e la sua volontà di rischiare, nel momento in cui meno ne avrebbe il bisogno.

Portarsi appresso decine di migliaia di anime, o echi del sangue, collezionati con perizia per decine e decine di minuti spesi soppesando ogni passo e finire per perderli perché, poco prima del prossimo checkpoint, un gruppetto di nemici, deboli singolarmente ma potenzialmente letali in gruppo, prende alla sprovvista il giocatore, mandando in fumo tutti i suoi sforzi, non è una sensazione piacevole ma riesce perfettamente a creare quella situazione in cui quest'ultimo accuserà solamente se stesso, e la sua incapacità di restare concentrato, per la perdita appena subita.

Una sensazione frustrante ma che non pecca mai di scorrettezza. Il vero punto di forza dei Soulsborne è la loro capacità di essere sì difficili ma mai sbilanciati (a parte Dark Souls 2 ma questa è un’altra storia). Tutto è messo nelle mani del giocatore; fino a che non ci si riposa presso un checkpoint i nemici non respawnano e le scorciatoie rimangono aperte in maniera perenne anche in seguito a una morte. Sta solo al giocatore decidere se rischiare proseguendo mosso dall’avidità o dall’arroganza delle precedenti vittorie o se piegarsi alla ragione e ritornare sui suoi passi per riorganizzarsi.

Una sensazione claustrofobica che avevamo il timore si andasse a perdere nella vastità dell’open world di Elden Ring e che invece, in seguito alle ultime sessioni di prova a cui abbiamo partecipato, si è dimostrata ancor più marcata proprio in virtù di un Interregno tanto ammaliante in termini esplorativi, quanto letale non appena si abbassa la guardia.

Gratificare l’esplorazione

Tutta l’abilità di From Software in termini di level design, verrebbe meno se il coraggio del giocatore non venisse premiato. Ed è per questo che le difficoltà affrontate per esplorare le aree presenti nei Soulsborne vengono sempre ricompensate con delle “chicche” di level design che, in molteplici situazioni, si rivelano addirittura più gratificanti di una nuova, e scintillante, spada.

Quante volte, cercando di arrivare al prossimo checkpoint, ai giocatori è capitato di intravvedere percorsi alternativi, magari accompagnati da architetture tortuose e da creature deformi pronte a dargli il benvenuto, che immancabilmente attiravano la loro attenzione, spingendoli a intraprendere quella direzione rischiando di perdere tutto? E quante volte, dopo minuti che sembrano ore, esperienza accumulata e la sicurezza di quel checkpoint oramai lontana, una voce gli sussurrò: “non morire adesso che poi dovrai rifare tutta questa strada per recuperare le tue anime”. E altresì quante volte una porticina posta alla fine di quell’impervia rotta si aprì dinnanzi al checkpoint precedentemente incontrato, mostrando una scorciatoia tanto appagante in termini di level design quanto in termini prettamente videoludici?

Questo è uno dei più chiari esempi di come si possa gratificare gli sforzi del giocatore attraverso un level design realizzato con sapienza, che riesce ad accantonare strutture inutilmente convolute riuscendo sempre a far orientare il giocatore anche dopo minuti e minuti spesi all’interno di aree, apparentemente, fini a se stesse. Una soluzione che, solo apparentemente, può sembrare banale ma che richiede una perizia certosina in termini architettonici per riuscire a risultare sempre coerente e mai realizzata con superficialità.

Quello che ci ha stupito è come questo elemento, così peculiare e legato indissolubilmente a mappe dalle dimensioni contenute, riesca a convivere all’interno dell’immenso open world proposto da Elden Ring, semplicemente trovando la sua dimensione all’interno degli intricati dungeon nei quali il giocatore approderà durante il suo girovagare per l’Interregno.

Senza una mappa o una bussola

Tutti i punti analizzati fino a ora, riescono a emergere grazie alla totale assenza di una mappa di gioco. Una mancanza dettata non dalla pigrizia ma dalla forte volontà di far sorprendere, e spaesare, il giocatore esattamente come se si trovasse, a tutti gli effetti, in una città mai visitata fino a quel momento.

Non si tratta solo di incoraggiare l’esplorazione ma anche di spingere il giocatore a conoscere ogni strada, scorciatoia e luogo nella stessa maniera, e con le stesse tempistiche, con le quali si ambienterebbe in un nuovo quartiere. Una soluzione che, unita a un sapiente level design, riesce nel suo intento spingendo chiunque ad ambientarsi sempre di più all’interno dei mondi realizzati per i Soulsborne. Lo scopo ultimo è quello di spingere il giocatore a realizzare una mappa mentale dei luoghi che ha visitato, fargli ricordare attraverso quale checkpoint potrà raggiungere più rapidamente una determinata destinazione o decidere quale scorciatoia imboccare per evitare di incrociare le numerose minacce presenti nel mondo di gioco.

L’assenza di una rotta ben definita, permette di rendere uniche le esperienze vissute dai vari giocatori all’interno dei Soulsborne. C’è chi opterà per una direzione e chi per un’altra. Chi troverà più comodo passare attraverso aree più ampie, e tranquille, e chi, invece, riterrà più idoneo seguire percorsi più rapidi seppur irti di insidie. Un elemento tanto semplice quanto in grado di restituire al giocatore un senso di unicità nel momento in cui deciderà, di volta in volta, come approcciarsi al mondo di gioco.

La presenza di una mappa in Elden Ring potrebbe far scomparire questa caratteristica tipica delle opere di Miyazaki nella prossima produzione di From Software ma, dopo averci speso qualche ora assieme, abbiamo compreso come il team di sviluppo sia stato in grado di mutare quest’insieme di sensazioni in qualcosa di “diversamente analogo”.

Sentirsi minuscoli da Demon’s Souls fino a Elden Ring

Tutti questi elementi analizzati fino a ora servono a comprendere la caratteristica, forse, più importante dei Soulsborne: far sentire minuscolo e insignificante il giocatore. Al netto di trame incentrate sull’essere l’ultimo anello della “catena alimentare” del mondo di gioco, intento a sconfiggere creature al pari di vere e proprie divinità, il level design di ogni Soulsborne alterna  architetture maestose e imponenti, a spazi ampi e desolati, passando per tortuosi e claustrofobici corridoi ricolmi di nemici.

Che sia la maestosa, e imponente, architettura di Anor Londo; un dragone che rompe la tranquillità data dall’attraversare una pianura palustre, apparentemente, disabitata; la danzatrice della valle boreale che, con il suo fare dinoccolato, rompe il religioso silenzio di una cattedrale… ogni elemento architettonico presente all’interno di un Soulsborne si pone il chiaro obiettivo di far sentire minuscoli i giocatori, non importa se lo fa attraverso la possanza delle sue strutture o se ci riesce giocando con gli eventi che accadono al loro interno.

Un opprimente senso di impotenza che gioca sadicamente con la mente del giocatore non lasciando mai spazio alla prevedibilità e portando quest’ultimo ad aspettarsi, letteralmente, “la qualunque” anche nella più quieta delle aree. Una sensazione che abbiamo vissuto in prima persona all’interno del vasto interregno di Elden Ring e che siamo ansiosi di sperimentare in ogni sua sfaccettatura per vedere fino a che punto si è spinta From Software con la sua ultima creatura.

La nostra prima analisi sui Soulsborne termina qui, fra un riassunto di ciò che è già noto ai fan più accaniti del genere e una disamina del perché non basti introdurre un combat system similare, alzare l’asticella della difficoltà e copiare la “meccanica della perdita delle anime” per ottenere un risultato analogo a quello ottenuto dalle ultime opere firmate da Hidetaka Miyazaki. Ovviamente non stiamo dicendo che non esistano Souls-Like meritevoli di attenzione, ma se vi state chiedendo come mai non ci sono stati ancora titoli in grado di strappare la corona dal capo di From Software… ora potrete comprenderlo meglio.