"Bulimia" videoludica, quando i videogiochi sono troppi

Quanti videogiochi consumiamo spinti dalla FOMO e dal venire esclusi dalle interazioni sui social? Un racconto e la ricerca di un'alternativa

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a cura di Andrea Baiano Svizzero

Nel discorso intorno ai videogiochi, vi sarà capitato di utilizzare almeno una volta la parola backlog, o quantomeno sentirla uscire dalla bocca di un vostro conoscente. Con backlog tendiamo ad identificare una serie di compiti che si sono accumulati nel tempo, e che andranno necessariamente smaltiti. Nel mondo dei videogiochi, ovviamente, il backlog non è altro che tutti quei titoli, acquistati o meno, che sono lì in attesa di essere giocati.

Una sorta di checklist immaginaria che ogni videogiocatore vede crescere, uscita dopo uscita, in una sorta di ciclo senza fine. Sui social questo è un termine piuttosto in voga, soprattutto tra chi bazzica il settore o tra i giocatori più scafati. Tanto da creare situazioni surreali in cui smaltire qualcosa dal backlog assume i connotati di un lavoro, dando al recupero e consumo di videogiochi un significato piuttosto differente dall'escapismo che dovrebbe fornire.

"Finalmente ho tolto gioco X dal mio backlog" oppure "Aggiungo gioco X alla mia interminabile lista di recuperi", delle frasi fatte che hanno quasi il sapore del burn out, il completo disfacimento psicologico di una passione o di un lavoro, per qualcuno. Prendiamo come esempio chi con i videogiochi, in una forma o nell'altra, ci lavora. Per chi deve scrivere di videogiochi come il sottoscritto, la possibilità di avere a che fare con tantissimi titoli differenti è molto alta.

Che siano recensioni o altro, giocare tanti titoli diventa un mezzo con cui produrre contenuti. La logica del "recupero" diventa quindi occasione di arricchimento per la propria professione, con dei tempi che però alle volte non sono sostenibili. Di recente la questione si è riaccesa proprio con Elden Ring, spingendo qualche nome del settore ad alzare bandiera bianca di fronte all'enormità dell'Interregno.

Quando i prodotti sono così tanti e la necessità di esprimersi al meglio su ognuno di essi è imprescindibile, ci si ritrova a scendere a compromessi. Mi è capitato spesso di dover sacrificare la godibilità di un'esperienza a favore di un'altra, magari correndo verso il finale o evitando i contenuti secondari che mi venivano offerti. Mi è anche capitato di sentire la necessità di una sorta di conoscenza enciclopedica, con recuperi di titoli che "dovevo assolutamente giocare" in nome di una completezza professionale non meglio specificata.

Il consumo del videogioco in funzione del suo essere raccontato, da bene di consumo a un oggetto mercificato in funzione di altro. Ma questo è un discorso da "addetto ai lavori", di chi dietro le quinte di un sito web deve fare i conti con una realtà e un modo di fare informazione ben specifico, che risponde ad altrettante specifiche esigenze.

Si consuma e si va avanti, verso la prossima esperienza da raccontare. Ma è davvero qualcosa collegabile soltanto alla stampa di settore? Decisamente no, poiché le prime vittime in questo senso sono proprio i giocatori/consumatori. Prendiamo in esame il mese di Febbraio 2022, che si è rivelato uno dei più ricchi e incredibili degli ultimi mesi (anche Marzo non scherza): Horizon, Elden Ring, Sifu, la nuova espansione di Destiny 2 e addirittura il ritorno di Cyberpunk 2077. Tantissimi titoli, di una qualità mediamente piuttosto alta.

Non mancano sui social o nelle community persone che hanno acquistato al day one più titoli tra questo roster. Voi mi direte: "Oh ma scusa, saranno fatti loro come e quando vogliono spendere i loro soldi!" e su questo siamo anche d'accordo, ci stringiamo in un forte abbraccio e continuiamo a parlare del nostro hobby preferito. Eppure non posso che notare un pattern, un meccanismo mentale che spinge chi ha potere d'acquisto a "cadere" nel tutto e subito, nella FOMO di cui si è tanto parlato negli ultimi anni (proprio su Destiny 2!).

La FOMO (Fear of missing out) è "una preoccupazione compulsiva riguardo alla perdita di un'opportunità di interazione sociale", che nel caso dei videogiochi può essere declinata in diversi modi, anche nella partecipazione a un discorso sui social intorno ad un prodotto, che per forza di cose avrà il suo picco maggiore nel periodo d'uscita. Tanti videogiochi, che vengono acquistati e consumati uno dietro l'altro in una voglia compulsiva di raccontarli o di dire semplicemente la propria negli spazi che ci vengono concessi.

Twitter, Facebook, Instagram, Twitch, Reddit e le tantissime community che a loro volta si generano altrove, anche nel nostro piccolo. Ognuno di questi spazi diventa quasi un ricatto, partecipare al discorso o essere automaticamente esclusi. I videogiochi sono tanti, e sono sempre di più. Una notizia fantastica per il settore, ma con le trasformazioni in atto anche nel mercato, quanto è troppo?

Videogiocare nell'era dei servizi

Negli ultimi anni si parla spesso di come sia il tempo la vera merce di scambio. Per Netflix il concorrente è Fortnite piuttosto che Disney+, perché è in grado di catturare il suo pubblico per tantissimo tempo e con continuità. Infatti, anche Netflix sta investendo nei videogiochi. Proprio in questi ultimi abbiamo visto nascere un nuovo "genere", i cosiddetti giochi servizio.

Molti hanno fallito, solo pochi sono sopravvissuti. Destiny ad esempio, ma anche il meno chiacchierato Warframe. Ognuno di loro vuole una fetta del vostro tempo, trasformando la vostra fidelizzazione e costanza in una fonte di guadagno stabile e con diversi livelli di monetizzazione. E quando si estende questa idea al modo in cui usufruiamo di tutti i videogiochi?

Ecco che arriva il Game Pass di Microsoft, che al prezzo di un abbonamento mensile vi offre centinaia di titoli (anche al day one!) da sfruttare. E magari vi dà anche una pacca sulla spalla e i soldi per comprare il gelato, vista l'enorme convenienza del servizio Microsoft. Sfogliare quella libreria è croce e delizia, ma è anche l'ennesimo esempio di quanto spesso ci relazioniamo male col consumo di videogiochi.

Mi è capitato spesso di sfogliare il catalogo e aggiungere tantissime cose al "Gioca dopo", un vero e proprio backlog virtuale. Magari ne scaricavo una e poi, in una sorta di agitata fretta, volevo subito passare alla successiva. Recupero dopo recupero, mi sono reso conto che il mio tempo aveva effettivamente un valore.

Scevro da qualsiasi dispiacere o rimorso per dei soldi spesi, visto il sistema di abbonamento, mi sono accorto che alcune di queste esperienze non volevo realmente giocarle. Non erano abbastanza o, semplicemente, non era il momento adatto. Il servizio in abbonamento resta un'incredibile realtà, anche democratica, con cui accedere ad una vasta libreria di titoli. Eppure, se utilizzati nel modo sbagliato possono alimentare quegli stessi meccanismi di cui sopra, in una sorta di bulimia videoludica, priva di ogni significato o reale beneficio. La rovina stessa di un hobby, o di quelle esperienze che tanto di più avrebbero potuto darci in altre circostanze.

Per uno slow food del videogioco

Per me fu emblematica la debacle dei The Game Awards 2021, dove il sempreverde Geoff Keighley giustificava l'assenza di Returnal tra le nomination dei GOTY con "la scarsa disponibilità di PS5 ha contribuito a rendere Returnal un gioco meno provato dalle redazioni internazionali". Laddove Ratchet & Clank Rift Apart è riuscito, Returnal non è arrivato.

Sarà stato l'hype o l'aver raccontato il titolo Housemarque solo nei suoi errori, con i problemi legati al salvataggio all'uscita, ma fatto sta che a differenza di Returnal del titolo Insomniac non si parla più. Una stella cadente, che ci ha divertito nel tempo che le è stato concesso e basta, esaurendo il suo discorso già pochissime settimane dopo il day one.

Consumato e poi buttato, ma comunque presente in una manifestazione gigantesca come quella dei The Game Awards. Returnal, di contro, si è insinuato lentamente nei videogiocatori che lo hanno provato e sviscerato, divenendo una piccola sleeper hit del primo anno di PS5. Il modo in cui raccontiamo i videogiochi è spesso caotico, con dei ritmi dettati da un'industria in continuo movimento ed evoluzione.

Ma chi quei videogiochi li gioca e basta può rinunciare a tutto questo, abbracciare uno "slow food" del videogioco. Consumare senza fretta, con gli giusti spazi e tempi. Metabolizzare e, perché no, approfondire anche al di là dello schermo e del pad.

E stato molto bello (e mi ha fatto anche sorridere), trovare su Reddit un movimento chiamato "Patient Gamers", un sub reddit per chi vuole restare lontano dalle news e dal chiacchiericcio delle uscite, godendosi titoli dopo mesi se non anni dall'uscita. Il movimento conta 481 mila iscritti, con tanti post che discutono di titoli usciti da diverso tempo o che mostrano come sia ok abbandonare esperienze che non hanno più niente da dirci, che non ci divertono.

Sfogliare quel sub reddit nell'era dell'informazione fa sorridere, del resto sono meccanismi a cui un po' tutti abbiamo ceduto almeno una volta. Ma fa anche riflettere, per citare la meme culture. Un'alternativa è possibile, senza necessariamente passare per la privazione. Niente estremismi, ma videogiocare senza smarrire ciò che questo hobby significa per noi.