C'era una volta... Bungie

In occasione dei suoi trent'anni, ripercorriamo la storia di Bungie, una delle software house più importanti dell'intero panorama videoludico.

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a cura di Andrea Maiellano

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We Make Games We Want To Play. Questo il primo dei due motti impressi sulla parete d’ingresso della sede di Bungie a Bellevue, la terza da quando lo studio nacque a South Chicago nel 1991. Il secondo motto invece, redatto in un latino improvvisato e velato di modernità, troneggia sulla porta d’ingresso avvisando gli ospiti dell’eventualità di venir presi a calci nel sedere, chiaro segno di come la natura di Bungie, al netto della sua trentennale storia costellata di molti alti, e pochi bassi, sia rimasta la stessa degli esordi.

Per quanto il nome Bungie sia divenuto famoso grazie al franchise di Halo, la software house conta ben trentanni di storia. Tre decenni in cui, al netto della fama ottenuta grazie alla saga di Master Chief, e all'universo di Destiny, Bungie ha segnato l’universo videoludico grazie proprio a quella volontà di realizzare giochi che gli stessi creatori volessero giocare. Una storia che comincia nel lontano 1990 in quel di Chicago e che, come di consueto, non potrebbe che cominciare nel più tradizionale dei modi...

C’era una volta Alexander Seropian, giovane sviluppatore che si stava formando, giorno dopo giorno, sviluppando software per Macintosh. La sua idea era di realizzare videogiochi per i computer costruiti da Apple e la sua prima creazione fu una copia di Pong, ribattezzata ironicamente !Gnop. Il primo, vero, titolo rilasciato sotto il nome di Bungie, però, fu uno shooter bidimensionale chiamato Operation: Desert Storm, una produzione a tratti surreale (basti pensare che il boss finale del gioco è un faccione robotico di Saddam Hussein), con visuale dall'alto che, pur risultando godibile per l’epoca. non eccelleva realmente in nulla ma riuscì a mostrare la forte motivazione che muoveva il giovane sviluppatore.

Attorno a Operation: Desert Storm aleggiano numerose storie, alcune al limite della leggenda metropolitana. La più famosa sostiene che i floppy disk, prodotti e confezionati artigianalmente da Alexander grazie a una colletta fatta da amici e parenti, siano stati rubati in un ufficio di Microsoft nel quale il giovane lavorava in quel periodo. Che sia vero o no, ciò che realmente conta è che Operation: Desert Storm fu il primo titolo realizzato da Bungie, segnando l’inizio della storia dell’azienda nel lontano 1991.

Anche sulle origini del nome Bungie si staglia una fitta coltre di mistero, più volte la fanbase ha cercato di scoprire cosa volesse dire e perché Alexander lo scelse. La definizione più celebre sostiene che sia una distorsione del termine “bungee”, un grido d’incoraggiamento utilizzato dalle forze speciali quando si lanciano da un’altezza, potenzialmente, mortale (ripetuto più volte anche dai celebri Lemmings nello storico videogioco, quando cadono da un’altezza vertiginosa), ma la verità dietro alla scelta dl nome rimane tuttora un segreto... e probabilmente lo rimarrà per sempre.

Nel mentre che Alexander stava valutando se attendere o meno di mettersi in proprio, fondando la sua software house, Jason Jones entrò in contatto con il giovane. Quest’ultimo era uno spirito creativo, aveva poco del business man ma era dotato di un fortissimo estro artistico e riuscì a catturare l’attenzione di Alexander grazie a Minotaur: The Labyrinths of Crete, un RPG sviluppato per Apple II, che Jason voleva convertire per il più recente Macintosh.

I due iniziarono a lavorare assieme sulla conversione del gioco, anticipando i tempi e introducendo un comparto multiplayer online nel quale i giocatori potevano comunicare fra loro attraverso il rudimentale Apple Talk. Il gioco fu un fiasco, non tanto per la qualità del titolo, quanto per il suo essere troppo in anticipo sui tempi, in un’epoca in cui internet non era così diffuso globalmente.

Il flop di Minotaur, però, servì a rendere più solida la collaborazione fra Jason e Alexander, che decisero di sviluppare assieme un titolo altresì ambizioso ma ben più al passo con quei tempi... il Doom che mancava sui computer Apple. Pathway to Darkness fu il primo gioco in tre dimensioni per Macintosh, un FPS dalle tinte horror che riuscì a convincere così tanto la critica, e i giocatori, da fargli guadagnare numerosi riconoscimenti quell'anno.

Il gioco era stato, nuovamente, sviluppato grazie al’aiuto delle persone vicine ad Alexander, in questo specifico caso fu la sua futura moglie a pagare la maggior parte del progetto, ma la caparbietà dei due fu premiata e Bungie divenne una software house a tutti gli effetti. Alexander si occupava della gestione della società mentre Jones si sarebbe dedicato completamente allo sviluppo di nuovi progetti.

A detta degli stessi Alexander e Jason, in quegli anni presero un vecchio ufficio a South Chicago, il quale si trasformo ben presto in una sorta di “confraternita”. I dipendenti di Bungie erano pochi e tutti si dedicavano completamente allo sviluppo i nuovi prodotti. Vivevano assieme, mangiavano assieme e dormivano assieme in un'atmosfera compagnona, tipica dei camerati. Nel 1994 Bungie contava “ben” sei dipendenti, tutti al lavoro su quello che, in seguito, divenne il primo vero franchise della software house: Marathon.

Marathon nacque originariamente come seguito diretto di Pathway to Darkness ma lo sviluppo prese ben presto una piega diversa quando iniziarono ad affiorare tutti quegli elementi divenuti poi cari a Bungie: ambientazione spaziale, razze aliene diversificate e commistioni con gli usi e costumi del presente. Marathon fu un evento per la comunità videoludica che gravitava attorno ai computer Apple, venendo elogiato dalla critica dell’epoca per la sua verticalità marcata, il level design ambizioso e la capacità di creare un universo con una mitologia complessa e affascinante. Al primo capitolo seguirono due sequel (rispettivamente nel 1995 e nel 1996) che consolidarono il successo di Bungie e ne definirono la sua espansione.

Sul finire degli anni 90 Bungie Software era suddivisa in tre team di sviluppo completamente indipendenti ma per quanto la situazione sembrasse rosea le prime problematiche in merito alla gestione di un organico così numeroso cominciarono a palesarsi. Jason Jones voleva seguire ogni progetto che la software house realizzava ma questo gli rendeva impossibile supervisionare tre gruppi di lavoro, portando alla difficile decisione di uscire con un gioco all'anno e sfruttare gli altri team per convertire i propri titoli su piattaforma Windows.

La decisione di effettuare dei porting per il sistema operativo di Microsoft venne motivata dal successo ottenuto da Myth, uno strategico in tempo reale sviluppato in primis per Windows che raccolse numerosi consensi di critica e pubblico al punto da spingere Bungie a realizzare due seguiti negli anni a venire.

La decisione di cominciare a effettuare porting per Windows non venne ben vista dalla community videoludica di Apple (che vedendosi privata di una serie di esclusive per la propria macchina generò una “platform war” al pari di quelle odierne) ma Bungie non poté fare altrimenti, poiché voleva mantenere l’indipendenza che l’aveva contraddistinta in quei primi anni di vita. Nel mentre che la software house cercava la sua dimensione, il team di sviluppo guidato da Jones stava proseguendo i lavori per un nuovo progetto battezzato, provvisoriamente, Blam!

Blam! era un agglomerato di tutto quello che di buono Bungie aveva realizzato negli anni precedenti: la componente strategica di Myth, la frenesia tipica degli FPS maturata con la serie Marathon e un’inedita visuale in terza persona che Bungie West (uno dei tre team di sviluppo che componevano la software house) stava mettendo a punto per Oni, uno shooter/hack and slash ancora in fase di sviluppo. Proprio in merito a quest’ultimo, Alexander aveva iniziato a cercare investitori per Bungie, sul finire del precedente millennio, ed entrò in contatto con Take Two che era interessata alla futura distribuzione del titolo su PC, Mac e PlayStation 2. L’accordo stipulato fra le due parti fece sì che Take Two acquistò il 20%  di Bungie Software garantendosi i diritti per il gioco negli anni a venire.

Tenete a mente questa piccola digressione in merito a Oni perché si rivelerà importante per alcuni eventi che andremo a raccontarvi fra qualche riga. Nel frattempo ritorniamo a Blam!, il cui pitch, assieme a qualche artwork di accompagnamento, fu presentato molto timidamente durante il Macworld del 1998.

Oltre alla struttura di gioco, che come accennato poc'anzi prevedeva che il giocatore controllasse delle truppe composte da decine di soldati spaziali in un mix fra titolo strategico e sparatutto, venne anche comunicato il nome di queste unità di guerrieri, scelti per difendere la galassia: gli Spartan. L’anno successivo Bungie lo passò interamente a lavorare su questa nuova proprietà intellettuale fino a luglio 1999, quando durante la conferenza del Macworld, Steve Jobs invitò sul palco Jason Jones per presentare il trailer del prossimo videogioco esclusivo per computer Apple: Halo Combat Evolved.

Il trailer conteneva già tutti gli elementi che avrebbero caratterizzato la saga negli anni a venire: un prototipo di Master Chief, i Covenant, l’iconico Warthog e le ambientazioni spacca mascella, per l’epoca ovviamente, il tutto accompagnato dal celebre tema composto da Martin O’Donnell e Michael Salvatori, lo storico duo a cui Bungie, e il panorama videoludico tutto, devono alcune fra le sinfonie più famose della storia del videogioco.

La presentazione ebbe una risonanza mediatica incredibile, con pubblico e critica di settore totalmente focalizzata sul capire come la software house sarebbe riuscita a sfruttare l’hardware di Apple per realizzare un titolo completo con quelli standard qualitativi.

La risposta a questa domanda, però, non arrivò mai poiché il 19 giugno del 2000, Microsoft annunciò di aver acquistato Bungie, e l'IP di Halo, per 30 milioni di dollari. Vi ricordate il breve aneddoto in merito a Oni? Ecco. Durante la sua ricerca di finanziatori per Bungie, Alexander entrò in contatto anche con Microsoft che, una volta accortasi del clamore ottenuto dalla presentazione di Halo al Macworld, decise che quello doveva assolutamente essere il gioco di lancio della sua nuova console in uscita nel 2001: Xbox.  Steve Jobs, ovviamente, andò su tutte le furie e si prodigò in una lunga telefonata al vetriolo con Steve Ballmer (il CEO di Microsoft in quegli anni) che terminò con un accordo per il rilascio di un porting di Halo Combat Evolved per Mac, il quale, però. arrivò solamente nel  dicembre del 2003.

Concluse le trattative di acquisizione, a Bungie rimanevano solamente 4 mesi di tempo per terminare lo sviluppo di Oni, trasferire la propria sede a Redmond e concentrare il lavoro di tutti e tre i team di sviluppo per completare Halo Combat Evolved in tempo per l'uscita di Xbox. Ingenuamente, e capirete il perché a breve, Jones si dichiarò "eccitato" all'idea che Bungie fosse stata acquisita da un'azienda che aveva a cuore i videogiochi e li trattava con la dovuta serietà.

I mesi successivi furono tutti dedicati allo sviluppo di Halo Combat Evolved, il cui lancio si trasformò in uno dei momenti più importanti della storia del videogioco. La nuova creatura di Bungie mostrò chiaramente che era possibile fruire, comodamente, del genere FPS attraverso un controller e lo fece sfruttando un protagonista carismatico e una storia affascinante, ambientata in un'universo narrativo destinato a espandersi come pochi altri esponenti del genere fantascientifico. Master Chief divenne istantaneamente il simbolo di Xbox e la console di Microsoft, attraverso Halo Combat Evolved, mostrò l'incredibile potenza computazionale della macchina da gioco realizzata da Redmond.

Nel mentre che tutto il settore videoludico era concentrato a elogiare la produzione di Bungie, e la prima console da gioco realizzata da Microsoft, le prime tensioni dell'accordo fra la software house e il colosso di Redmond cominciarono a concretizzarsi. Il contratto stipulato fra le due parti prevedeva che Microsoft avrebbe finanziato ogni futura produzione di Bungie ma non vi era scritto da nessuna parte che si sarebbe trattato esclusivamente di nuove proprietà intellettuali.

I vertici della divisione Xbox, difatti, volevano assolutamente un seguito per Halo, e lo volevano entro un anno. Non gli interessava che fosse avveniristico, innovativo o semplicemente diverso, gli bastava che avesse un comparto multigiocatore funzionante, per promuovere il servizio Xbox Live che sarebbe stato rilasciato nel corso del 2002.

Questa imposizione generò una serie di frizioni proprio con uno dei fondatori di Bungie, Alexander Seropian, che conscio di aver perso l'indipendenza decisionale che da sempre era parte dell'essenza di Bungie, lasciò l'azienda e fondò, nel 2003, una compagnia più contenuta, la Wideload Games, la quale realizzò Stubbs The Zombie, alcuni titoli minori, un numero di produzioni pensate per servizi quali l'Xbox Live Arcade fino a venire assorbita, nel 2009, dalla The Walt Dinsey Company facendola diventare parte della divisione Disney Interactive.

La dipartita di Alexander, e di alcuni degli sviluppatori principali del primo organico di Bungie, ridusse la software house a poco meno di settanta dipendenti. Jason Jones restò al timone di Bungie e fu affiancato da Pete Parson, una figura importante per la divisione marketing di Microsoft che prese particolarmente a cuore la filosofia alla base di Bungie.

Mentre i lavori per realizzare Halo 2 proseguivano, Jones e i vertici di Xbox continuavano a scontrarsi. Microsoft voleva tassativamente che Halo 2 uscisse durante le festività del 2003, con una presentazione in pompa magna durante l'E3 del 2002, mentre Jones voleva che il gioco fosse un vero e proprio seguito, in grado di migliorare pressoché ogni aspetto del capitolo precedente.

Il co-fondatore di Bungie non pretendeva solamente di realizzare un'infrastruttura online priva di problemi per il comparto multigiocatore di Halo 2 ma aveva in cantiere anche nuove meccaniche di gioco, personaggi inediti e una storia molto più strutturata che si sarebbe dipanata in oltre due ore di filmati. Jones, alla fine, mediò con Microsoft e dilatato le tempistiche necessarie allo sviluppo di Halo 2.

Durante l'E3 del 2002 fu, solamente, annunciato che il seguito di Halo era in produzione e per l'edizione dell'anno seguente fu realizzata una demo che mostrasse le novità del gameplay, mandando in estasi il pubblico della fiera. Halo arrivò sugli scaffali dei negozi il 9 novembre del 2004, un anno prima dell'uscita di Xbox 360, monopolizzando per settimane ogni classifica di vendita. Nelle prime ventiquattro ore vendette oltre due milioni di copie, generando introiti per oltre 120 milioni di dollari. In America, quel Natale, esisteva solo Halo 2. Non c'era PlayStation 2, o Game Cube, che potessero contrastare il successo del secondo capitolo delle avventure di Master Chief.

Il ritardo di Halo 2, però, generò un effetto a catena che obbligò Microsoft a cambiare i piani per l'uscita di Xbox 360. Originariamente i vertici di Xbox avevano chiesto a gran voce di avere Halo 3 come titolo di lancio per la nuova console in uscita nel 2005 ma la fermezza di Jones nel non voler realizzare un prodotto mediocre con Halo 2, portò il terzo capitolo della serie a uscire due anni più tardi, il 25 settembre 2007. Come per il precedente capitolo, anche la terza iterazione della saga di Bungie ruppe il mercato, generando oltre 170 milioni di introiti per Microsoft nelle prime ventiquattro ore sul mercato.

Seppur il successo di Halo 3 fu travolgente, all'interno di Bungie qualcosa si era incrinato. Fin dalle prime fasi dello sviluppo del terzo capitolo, l'atmosfera non era delle più rilassate. Jason Jones si era preso un periodo di pausa per riflettere sul suo futuro all’interno di Bungie, lasciando il team senza un vero e proprio leader che tirasse le fila del progetto. Joseph Staten, che si occupava del comparto narrativo delle produzioni di Bungie, oltre che della realizzazione delle cinematiche, si allontanò anch'egli a causa di alcuni scontri in merito alla storia che aveva realizzato originariamente per Halo 3, ritornando solamente nelle fasi finali della scrittura dello script per sistemarlo e correggerlo.

Tutte le tensioni interne durante lo sviluppo di Halo 3 erano generate da un'insoddisfazione costante dei membri della software house, i quali si sentivano imprigionati in un gabbia dorata, costretti a realizzare sequel su sequel di quel franchise che li aveva resi famosi in tutto il mondo. Tutte queste tensioni collimarono con l'uscita di Halo 3 che, se pubblicamente fu un punto di svolta importante per il franchise, dietro le quinte segnò la fine del sodalizio fra Bungie e Microsoft.

Il primo ottobre 2007, infatti, le due società comunicarono la loro separazione: Bungie sarebbe tornata indipendente, mentre Microsoft avrebbe mantenuto la proprietà del brand Halo, potendone gestire liberamente ogni aspetto senza nessun consenso da parte dei suoi creatori. L’accordo fra le due parti, inoltre, prevedeva che Bungie avrebbe realizzato altri due capitoli della serie Halo, prima di distaccarsi completamente da Microsoft. Nel 2009 venne rilasciato lo spin-off Halo 3: ODST, mentre nel 2010 Halo: Reach segnava, definitivamente, la chiusura del sodalizio fra le due società.

Negli anni in cui una parte degli sviluppatori di Bungie stava lavorando alle ultime due produzioni dedicate all'universo di Halo, Joseph Staten realizzò un filmato, della durata di due ore, intitolato supercut. La lunga cinematica racchiudeva la quasi totalità delle scene, e dei dialoghi, di un progetto ancora nelle sue fasi embrionali di sviluppo: Destiny.

Jason Jones, invece, in seguito al periodo di pausa presosi durante le fasi iniziali dello sviluppo di Halo 3, cominciò a collaborare con Jaimie Griesemer, che stava a sua volta lavorando a una nuova proprietà intellettuale: un titolo fantasy in terza persona intitolato Dragon’s Tavern. Quanto proposto da Griesemer piacque così tanto a Jones, che decise di lavorare assieme al collega per combinare alcune delle idee di Dragon’s Tower all’interno di Destiny.

Già sul finire del 2007 gli addetti ai lavori erano a conoscenza che Bungie si era messa al lavoro su una nuova proprietà intellettuale che prometteva, a detta delle ovvie voci di corridoio, di rivoluzionare nuovamente il genere degli FPS su console. Consce del potenziale dello studio di sviluppo, sia Sony che Microsoft provarono ad accaparrarsi in esclusiva il titolo ma entrambe fallirono nel momento in cui inclusero, nelle rispettive proposte, una clausola per diventare proprietari della nuova IP di Bungie. La software house, ancora scottata da quanto successo con Halo, declinò entrambe le proposte, seppur in un primo momento considerò molto attentamente una collaborazione con Sony, e continuò a cercare un publisher pronto a investire nel progetto senza vincoli eccessivamente stringenti.

Dal 2007 al 2010 la storia di Bungie è ricca di eventi prettamente “aziendali”: la software house sposta la sua sede a Bellevue, all’interno di un immenso multisala ridisegnato per l’occasione dal precedente presidente di Bungie, Harold Ryan. Il numero dei dipendenti salì vertiginosamente in quel triennio, raggiungendo l’imponente quota di 170 impiegati (a oggi sono oltre 200 n.d.r.). Ryan, inoltre, continuava a vagliare le costanti proposte che venivano fatte a Bungie da numerosi publisher, tutti interessati alla loro futura proprietà intellettuale.

Nell’aprile del 2010, finalmente, Bungie e Activision comunicarono ufficialmente un accordo decennale, e multimilionario fra le due compagnie, rendendo pubblici alcuni dei termini del contratto che le legava: Bungie era l’unica proprietaria della sua nuova creatura mentre Activision avrebbe avuto l’esclusività della sua pubblicazione; la nuova proprietà intellettuale sarebbe stata suddivisa in tre diversi giochi, in uscita ogni tre anni, alternati da alcune macro-espansioni in uscita a cadenza annuale; un premio in denaro sarebbe stato offerto da Activision, a Bungie, se la media Metacritic del loro nuovo titolo, avesse superato il 90; al termine del contratto Bungie poteva continuare a sfruttare la sua nuova proprietà intellettuale ma non poteva collaborare con Valve, Gearbox o Epic Games per realizzare i successivi prodotti legati al marchio; Activision doveva venire informata di ogni singolo Easter Egg presente nel titolo prima della sua release e Bungie doveva garantire che ogni bug riscontrato nel gioco sarebbe stato sistemato entro 30 giorni dal suo accertamento.

Un contratto indubbiamente ricco di clausole peculiari ma che garantiva a Bungie lo stratosferico budget di 500 milioni di dollari, ripartiti ovviamente nei 10 anni previsti dall’accordo. Con Activision a garantire la sopravvivenza della nuova, e ambiziosa, proprietà intellettuale di Bungie, la compagnia si mise al lavoro, nel triennio successivo, per ultimare i lavori su Destiny.

Lo sviluppo di Destiny, però, fu costellato da una serie di problematiche non di poco conto. Il supercut realizzato da Joseph Staten era stato accolto in maniera decisamente tiepida da Jones, che lo reputava interessante ma troppo lineare. Il CEO di Bungie voleva una struttura narrativa meno lineare, che permettesse al giocatore di intraprendere percorsi diversi senza mai sentirsi vincolato da una progressione eccessivamente guidata.

Gli scambi fra Jones e Staten si fecero sempre più accesi, al punto che il CEO di Bungie decise di cestinare, quasi, totalmente il lavoro svolto dal team di scrittori di Staten e riscrivere la storia da zero. Questa decisione, però, rischiò di mandare a monte l’intero progetto poiché lo sviluppo era quasi ultimato e la storia che doveva sorreggere l’enorme universo narrativo di Destiny doveva venire riscritta da capo. Inoltre, pochi mesi prima di questa peculiare decisione, Destiny fu presentato al pubblico, mostrando proprio alcuni elementi del supercut realizzato da Staten.

Conscio delle problematiche a cui stava andando incontro il progetto, Jones formò un gruppo di lavoro, ribattezzato Iron Bar, composto dall’art director Christopher Barrett, dal designer Luke Smith e dallo scrittore Eric Raab. Lo scopo di questo team era molto semplice: riscrivere la storia di Destiny, inserirla in un gioco praticamente finito e completare il tutto in meno di un anno.

Ovviamente questa presa di posizione da parte di Jones ruppe completamente i rapporti con Staten che, durante l’estate del 2013, lasciò Bungie. L’annuncio ufficiale fu dato solamente il il 24 settembre 2013 e per quanto Bungie avesse appena perso una delle persone più importanti del suo organico, la saga di Halo riabbracciò uno dei suoi creatori originali, in quanto Joseph Staten rientrò, nel gennaio del 2014, nei Microsoft Game Studios e attualmente ricopre il ruolo di Head of Creative per Halo Infinite.

Il contenuto del mitologico supercut, però, non venne del tutto perduto. Il team di scrittori che da sempre collaborava con Staten, salvò molteplici elementi della mitologia realizzata originariamente e la inserì in Destiny sottoforma di Grimorio, una raccolta di brevi descrizioni dell’universo di gioco, della sua storia e delle sue figure leggendarie, ripartite all’interno di una serie di file testuali che sbloccabili dal giocatore progredendo con l’ avventura.

Attualmente il Grimorio è uno degli aspetti più iconici del primo capitolo di Destiny, talmente celebre fra i giocatori da spingere Bungie a realizzare una serie di libri che raggruppano tematicamente i vari scritti fungendo da contenuto accessorio per comprendere al meglio la mitologia dietro al mondo di gioco.

Quel triennio costellato da una serie di eventi tumultuosi all’interno di Bungie, però, non era ancora finito. Dopo aver composto assieme a Michael Salvatori, C. Paul Johnson e Sir Paul McCartney, una sinfonia in otto movimenti dal titolo Music Of The Spheres, la quale sarebbe poi diventata la colonna sonora di Destiny, l’11 aprile 2013 Martin O’Donnell annuncia via Twitter di essere stato licenziato da Bungie senza alcuna motivazione apparente. La notizia fu uno shock per l’intera industria, così come la lunga faida legale fra la software house e il compositore, risoltasi soltanto lo scorso 2021, rimane una delle pagine più tristi della storia di Bungie.

Al netto di tutte le problematiche incontrate durante lo sviluppo, il 9 settembre 2014 Destiny vide finalmente la luce e se da un lato la critica di settore non lo incensò come le precedenti opere di Bungie, perlopiù in virtù di una storia confusa e di un numero di contenuti non proprio ricchissimo al lancio, il pubblico lo accolse con un entusiasmo, letteralmente, fuori scala. I preorder di Destiny permisero ad Activision di spedire, per il giorno del lancio, un numero di copie così elevato che, se si sommava il prezzo di listino di ognuna di esse, si sarebbe raggiunto l’astronomico ammontare di 500 milioni di dollari.

Per i videogiocatori il concept alla base del gioco fu una vera e propria epifania, non solamente si trattava di uno sparatutto cooperativo dalla forte componente online ma andava ad attingere da una serie di meccaniche tipiche degli MMORPG, e degli RPG occidentali in generale, per dare vita a dinamiche di gioco inedite, fino a quel momento, sul panorama console.

Dalla possibilità di incontrare giocatori di tutto il mondo semplicemente esplorando le mappe del gioco, passando per la possibilità di unirsi in maniera pressoché istantanea a una squadra appena conosciuta sulla Torre (l’oramai iconico HUB di Destiny), fino ad arrivare al creare un team organizzato per affrontare un raid, Bungie dimostrò, nuovamente, al settore che era possibile creare qualcosa che fino a quel momento era ad appannaggio esclusivo dei giocatori PC.

I meriti, nel caso di Destiny, non erano da attribuire solamente a Bungie ma anche all’accordo con Activision che permise alla software house di entrare in contatto con numerose figure importantissime per il settore. Gli sviluppatori poterono confrontarsi con i creatori di Diablo per comprendere come gestire al meglio il loot presente nel gioco, in modo da offrire una motivazione costante ai giocatori per accedere al gioco; team esterni come i Vicarious Vision affiancarono Bungie per supportarli nella creazione costante di contenuti; addirittura Sony pare supportò Bungie negli anni dello sviluppo di Destiny in parte grazie ad alcuni accordi stretti con Activision e in parte, pare, per i feedback che ricevette da Bungie su come migliorare l’ergonomia del Dualshock 4.

I tre anni successivi videro la software house impegnata a far crescere la sua nuova creatura, creando contenuti sempre nuovi per Destiny e andando a definire meglio quel comparto narrativo che al suo esordio risultava, evidentemente, confuso e ricco di buchi di trama. Allo stesso tempo la community che gravitava attorno a Destiny si faceva giorno dopo giorno sempre più grande, con decine di milioni di accessi registrati mensilmente sulla nuova creazione di Bungie.

Per comprendere realmente quanto impattante fu per il mercato videoludico l’arrivo di Destiny, però, bisogna aspettare il 18 maggio 2017, quando al Jet Center di Hawthorne, California, Bungie presentò Destiny 2 di fronte a una platea composta da centinaia di invitati fra content creator, critica specializzata e giocatori divenuti celebri all’interno della community che gravitava attorno al titolo.

Lo sviluppo del nuovo capitolo della saga fu meno burrascoso del precedente ma le novità che portava con se furono molteplici, a cominciare dall’arrivo della serie su PC. Il 6 settembre dello stesso anno Destiny 2 fece il suo esordio su console, arrivando solamente il 13 ottobre successivo su PC, e la risposta del pubblico fu la medesima del precedente capitolo, facendolo svettare rapidamente in cima alle classifiche di vendita al punto da diventare il secondo gioco più venduto in Nord America (il primo fu Call Of Duty: WWII).

La critica specializzata, invece, riservò a Destiny 2 un’accoglienza analoga al primo capitolo. Il gioco fu valutato generalmente in maniera positiva ma non venne considerato un capolavoro in  virtù di una ripartenza ritenuta come “non necessaria” e un comparto narrativo intrigante ma, nuovamente, afflitto da buchi di trama e parti poco coese fra loro. La critica più aspra, però, fu indirizzata al “modus operandi” attuato da Bungie che da un lato introduceva nuove attività mentre dall’altro andava a rimuovere contenuti, presenti invece nel precedente capitolo, oramai rodati e apprezzati dai giocatori.

Per mettere d’accordo pubblico e critica fu necessario, nuovamente, l’arrivo della seconda macro-espansione di Destiny 2, I Rinnegati, in grado di modificare pesantemente le fondamenta del gioco e garantire un comparto narrativo decisamente più interessante e coeso fra le varie attività presenti nel gioco.

Dal 2010 Bungie stava lavorando esclusivamente sul franchise di Destiny e i successi ottenuti dal brand potrebbero farci pensare che la nostra storia finisca qui, con un “canonico” e vissero tutti felici e contenti. In realtà la storia della software house riserva ancora un paio di pagine d’indubbia importanza. Nel 2016 Ryan fece un passo indietro e lasciò la presidenza di Bungie che passò a Pete Parson, l’addetto marketing di Microsoft che affiancò Jones in seguito alla dipartita di Alexander.

Nel 2018, invece, NetEase (una delle più grandi compagnie al mondo dedita a giochi mobile, e-commerce e servizi internet in Cina) investì 100 milioni di dollari in Bungie, in cambio di una piccola partecipazione nell’azienda e di una poltrona nel suo consiglio amministrativo.

Nel 2019, infine, Bungie e Activision annunciarono la fine della loro partnership in anticipo sui tempi. Come da accordi, la software house mantenne i diritti su Destiny e ricominciò a distribuire autonomamente il proprio prodotto, riottenendo quella totale indipendenza che bramava fin dai suoi esordi nel lontano 1991. A più riprese, il direttore della comunicazione di Bungie David Dague, affermò che le due compagnie si erano lasciate in totale amicizia e che avevano intrapreso strade diverse a causa di una serie di idee differenti sullo sviluppo del franchise.

Oggi, a 30 anni dalla sua fondazione, Bungie è diventata un punto saldo per l’intera industria. Capace di dimostrare che è possibile realizzare ciò che viene considerato impossibile, alla software house dobbiamo riconoscere il merito di aver cambiato per sempre il genere FPS su console e di aver esteso il concetto di MMO anche a tipologie di produzioni impensabili per l’epoca.

In tre decadi Bungie è partita da un clone di Pong, sviluppato da un giovane sviluppatore in erba, per arrivare a realizzare alcuni fra i franchise più famosi del panorama videoludico, contare oltre 200 dipendenti fra le sue fila, una fondazione di beneficienza fra le più attive del settore e uno studio di produzione, e distribuzione, di titoli indipendenti realizzati da giovani sviluppatori in erba.

L’eredità lasciata dalle creazioni di Bungie è, praticamente, impossibile da quantificare, dalle produzioni che si sono ispirate ad Halo fino ai numerosi cloni di Destiny, usciti nel corso dell’ultima decade, la sofware house ha lasciato un segno indelebile nell’industria e dopo i suoi primi trent’anni di storia siamo tutti in attesa di scoprire la sua prossima proprietà intellettuale, oramai in sviluppo in assoluta segretezza da svariati anni, che siamo certi saprà cambiare le regole del gioco… ancora una volta.