C'era una volta... Monkey Island

Ripassiamo assieme la storia di Monkey Island, della mai dimenticata LucasArts, e della gloria, e decadimento, delle avventure grafiche.

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a cura di Andrea Maiellano

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Il 4 Aprile 2022, senza nessun preavviso o indiscrezione a seguito, Return To Monkey Island è stato annunciato direttamente dal creatore della serie, Ron Gilbert. Nemmeno a dirlo che tutto il panorama videoludico è trasalito istantaneamente, dividendosi fra chi pensava a un pesce d’aprile in ritardo e chi semplicemente non riusciva a contenere la gioia per un annuncio talmente inaspettato da venir paragonato all’oramai mitologico Half Life 3.

L’aspetto divertente di questo inaspettato annuncio, è che lo stesso Ron Gilbert, nel lontano settembre 2013, dichiarò che, nel caso fosse tornato a lavorare su un nuovo Monkey Island, lo avrebbe annunciato il primo di aprile. Un Tweet che, all’epoca, fu accolto goliardicamente dai fan del celebre Ron, soprattutto in virtù dei numerosi rifiuti di Lucasarts a voler proseguire la collaborazione con Gilbert. Venne da se che quando, il primo aprile 2022, Ron Gilbert annunciò Return to Monkey Island sul suo blog, tutti presero l’annuncio per un pesce d’aprile ricolmo di autocitazionismo, almeno fino a quando, una manciata di giorni dopo, il tutto non venne rimarcato su Twitter con annesso un breve trailer di presentazione del prodotto. 

Se vi state chiedendo come mai abbiamo deciso di aprire questo nostro episodio con un fatto così recente, la risposta alla vostra domanda sta tutta in questo intercedersi di avvenimenti, in grado di mostrare limpidamente la personalità di Ron Gilbert, una personalità così istrionica da permeare all’interno dei personaggi di Monkey Island, rendendolo uno dei franchise più famosi dell’intero panorama videoludico.

La storia che stiamo per raccontarvi, però, comincia una decade prima e, come da tradizione, non potrebbe che iniziare nel più tradizionale dei modi…

Galeotto fu un Apple II

C’era una volta una coppia di sposi decisamente atipici. I loro nomi erano Ken e Roberta Williams e il loro lavoro era  quello di realizzare videogiochi. Nel 1979 a Simi Valley, in California, i due fondarono la On-Line Systems, una piccola azienda famigliare pensata originariamente per sviluppare un compilatore FORTRAN per l’Apple II. Un progetto che, però, non vide mai la luce in quanto Roberta Williams, insoddisfatta per il formato di solo testo delle avventure grafiche testuali con cui si dilettava in quel periodo, si rese conto che la capacità di visualizzazione grafica dell'Apple II poteva migliorare l'esperienza proprio in quei giochi di avventura.

Ken e Roberta decisero di cimentarsi nella realizzazione di un videogioco che sfruttasse pienamente il potenziale dell'Apple II e che, allo stesso tempo, si ponesse come l'evoluzione delle avventure testuali. Vide così la luce Mistery House, quello che a oggi è considerato come il capostipite delle avventure grafiche. Rispetto alle tediose schermate ricolme di testo, la creatura dei Williams permetteva di interagire, sempre attraverso la scrittura, con le varie ambientazioni presenti nella dimora in cui era ambientato il gioco, proponendo una forma di interazione attiva totalmente inedita per l'epoca.

Per quanto Mistery House entrò nella storia in virtù del passo evolutivo enorme che fece compiere al genere delle avventure grafiche, non fu il titolo di maggior successo di quella che, nel 1982, venne ribattezzata Sierra On-Line. Bisognò aspettare il 1984, quando il primo capitolo della serie King's Quest cementò il nome Sierra nella memoria dei migliaia di appassionati di avventure grafiche.

Il titolo espandeva in ogni direzione le già ottime innovazioni introdotte con Mistery House, permettendo di controllare direttamente il protagonista, Sir Graham, non più scrivendo ma, semplicemente, spostandolo direttamente utilizzando la tastiera. Ci vollero diciotto mesi di lavoro, e una spesa di circa 700.000$ per implementare tutte le novità ideate dai sei membri che componevano il team di sviluppo ma, alla fine, il titolo fu un successo incredibile in grado disegnare un traguardo tecnologico, apparentemente, insuperabile per l'epoca.

Il successo ottenuto dalla serie King's Quest, oltre alla reale assenza di contendenti al trono, portò Sierra On-Line a diventare la regina delle avventure grafiche che, tronfia della sua unicità, iniziò a rilasciare una valanga di avventure grafiche, tutte realizzate con la stessa formula di King's Quest. Negli anni successivi, Sierra On-Line, invase il mercato con un numero esorbitante di titoli praticamente identici fra loro, a esclusione della storia e delle ambientazioni, senza tenere in considerazione che il primo King's Quest, per quanto innovativo, aveva dei difetti che andavano tenuti in considerazione.

I titoli realizzati da Sierra On-Line continuavano a portarsi dietro delle reminiscenze delle avventure testuali che tanto volevano stravolgere, oltre che numerose sbavature puramente stilistiche legate all'astrusità di alcuni puzzle o alla confusione di alcuni scenari che non offrivano al giocatore una visione chiara di come procedere. Difetti trascurabili se si pensa al primo King's Quest ma che si trasformarono in criticità nel momento che vennero riproposte, senza evoluzioni o migliorie di sorta, in ogni gioco realizzato successivamente.

Quando alcune pessime scelte di game design, iniziarono ad affliggere l'emozione che le meccaniche di gioco del primo King's Quest riuscirono a infondere nei giocatori di metà anni 80, Sierra On-Line dovette affrontare la sua prima parabola discendente, con la critica specializzata dell'epoca che cominciò ad accusare la casa di sviluppo di aver accantonato la voglia di innovare per dedicarsi a compiere meri, ed economicamente più sicuri, esercizi di stile.

Ma la vera minaccia al predominio di Sierra On-Line non giaceva nella ripetitività delle proprie opere, quanto più in un nuovo rivale giunto sul mercato... con fondi che, per quegli anni, parevano infiniti.

In una galassia lontana, lontana...

Facciamo un piccolo salto indietro nel tempo e torniamo al 1977 quando Star Wars divenne un fenomeno di culto in grado di cambiare per sempre le regole del cinema. La Lucasfilm, grazie ai fondi sempre maggiori ottenuti con il suo franchise di punta, stava realizzando che la CGI sarebbe stata il futuro del cinema ma, allo stato in cui verteva in quegli anni, era ancora troppo presto per implementarla in maniera credibile all'interno di una pellicola.

Per questo motivo, nel 1982, George Lucas decise di fondare la Lucasfilm Games, un gruppo di sviluppo parallelo alla Lucasfilm che si sarebbe dedicata alla realizzazione di altre forme di intrattenimento sfruttando le tecnologie più all'avanguardia per l'epoca. Fu praticamente immediata la connessione con il settore videoludico e, grazie a un accordo con Atari (che all'epoca vi ricordiamo che era la regina incontrastata del settore videoludico), iniziò a realizzare, a partire dal 1984, una serie di titoli atti a spingere al limite le possibilità offerte dagli home computer a 8-bit dell'epoca.

La vera rivoluzione, però, arrivò nel 1986, quando il franchise di Star Wars iniziava a essere meno popolare, in seguito al termine della prima trilogia, e il panorama videoludico necessitava di nuove esperienze futuristiche. Erano gli anni in cui i videogiochi, grazie a Nintendo, stavano riprendendo sempre più piede in seguito alla crisi del videogioco del 1983 (il celeberrimo "Atari Shock") e Lucasfilm Games decise di dimostrare, nuovamente, la sua potenza in ambito tecnologico, realizzando Labyrinth, un'avventura grafica ispirata all'omonimo film diretto da George Lucas e interpretato da David Bowie.

Il titolo era pensato, in primis, per stupire il giocatore con un comparto grafico avveniristico per l'epoca ma si rivelò, ben presto, molto di più di un semplice esercizio di stile. La produzione di Lucasfilm Games, difatti, rappresentò quel passo evolutivo per il genere che Sierra On-Line non riuscì mai a compiere. Labyrinth mescolava al suo interno elementi da avventura testuale, da avventura grafica in terza persona, sezioni arcade e momenti action, il tutto adornato da quella serie di enigmi oramai imprescindibili per il genere.

I controlli di gioco erano reattivi e, soprattutto, intuitivi, in grado di spazzare via in pochi minuti di gioco tutte le farraginosità che oramai si pensava fossero un elemento inamovibile per il genere. Al netto di tutte le innovazioni che portava con se, Labyrinth non fu un successo di pubblico, restando "solamente" un importante tassello nella storia del videogioco grazie alla sua capacità di svecchiare un genere che divenne stantio nel giro di pochi anni.

Nel mentre che il pubblico poteva sperimentare la ventata di aria fresca che Lucasfilm Games soffiò sul genere delle avventure grafiche, dietro le quinte dell'azienda la voglia di innovare la faceva da padrona. In procinto di realizzare il primo MMO della storia (Habitat, 1986/1987), grazie agli albori della diffusione di internet, lo studio assunse una serie di giovani talentuosi sia con l'intenzione di incrementare la propria forza lavoro, che con la speranza che portassero nuove idee allo studio di sviluppo. Uno di questi "nuovi arrivati" fu proprio Ron Gilbert che, dopo aver dimostrato le sue capacità realizzando alcuni porting di vecchi titoli della compagnia, iniziò a proporre nuove idee per titoli futuri, oltre che cimentarsi, con l'aiuto del meno famoso Chip Morningstar, nella realizzazione di un engine pensato per semplificare la realizzazione delle future avventure grafiche sviluppate da Lucasfilm Games.

Dopo essersi visto cestinare la sua prima proposta, lo sci-fi visionario "I Was A Teenage Lobot", Ron Gilbert ottenne il consenso per realizzare la sua prima avventura grafica: Maniac Mansion. Il titolo fu rilasciato per Commodore 64 nel 1987 e presentava un istrionico cast di sette personaggi, intenti a salvare una loro amica dalle grinfie di uno scienziato pazzo la cui mente fu soggiogata da un meteorite senziente... avete letto bene!

Maniac Mansion, oltre a un canovaccio decisamente sopra le righe, offriva tutta una serie di innovazioni rispetto al precedente Labyrinth: un'interfaccia con delle primitive dinamiche da "punta e clicca", un comparto tecnico migliorato, situazioni differenti in base ai personaggi scelti dal giocatore nelle fasi iniziali, enigmi che richiedevano di sfruttare le abilità peculiari dei vari protagonisti e, soprattutto, l'innovativo engine SCUMM a muovere le fila dell'intera avventura.

SCUMM (Script Creation Utility for Maniac Mansion), era l'engine realizzato, principalmente, da Ron Gilbert che serviva per semplificare notevolmente il processo di sviluppo delle avventure grafiche, permettendo di realizzarle partendo, come suggerisce il nome, da uno script simile a quelli realizzati per le produzioni cinematografiche. A metà strada fra un motore grafico e un linguaggio di programmazione, lo SCUMM aveva l'enorme vantaggio di permettere agli sviluppatori di realizzare ambientazioni, oggetti, e linee di dialogo, in maniera molto più semplice e naturale, velocizzando notevolmente i tempi di produzione richiesti per realizzare un'avventura grafica.

Per quanto Maniac Mansion fu elogiato dalla critica con valutazioni entusiastiche, non fu istantaneamente un successo. Vendette tanto, questo è vero, ma lo fece con costanza nel corso delle settimane seguenti, diventando lentamente un cult per il genere, nonché un nuovo punto di riferimento per le avventure grafiche prodotte successivamente da Lucasfilm Games.

Maniac Mansion dimostrò sia le immense potenzialità di SCUMM, che la capacità delle avventure grafiche di poter fare ancora breccia nel pubblico, e nella critica, se realizzate con la dovuta cura e con la giusta varietà di tematiche e ambientazioni. Lucasfilm Games, convinta dai risultati ottenuti dall'opera di Ron Gilbert, decise di perpetrare la via delle avventure grafiche e, nel 1988, ripropose la formula vincente di Maniac Mansion in Zak McKracken and the Alien Mindbenders.

In quegli anni, però, il progresso tecnologico era indubbiamente più frenetico che nei giorni nostri, compiendo passi in avanti importanti nel corso di una manciata di settimane. Nel 1984 l'Apple Macintosh aveva reso il mouse uno standard e, ovviamente, le prime produzioni "punta e clicca" si palesarono timidamente già dal 1985, mostrando una pallida visione del futuro delle avventure grafiche. In parallelo all'evoluzione nell'utilizzo dei personal computer, le prime macchine a 16-bit mostravano i "muscoli di silicio" sciorinando, negli occhi dell'utenza, comparti grafici inimmaginabili per l'epoca e pensati, principalmente, per impressionare i giocatori.

Nel bel mezzo di questo "turbinio evolutivo", la Lucasfilm Games si trovò di fronte alle prime difficoltà: i soldi provenienti dal franchise di Guerre Stellari iniziavano a diminuire concretamente, così come i "flop al botteghino" di quegli anni imposero alla Lucasfilm di assumere una strategia maggiormente difensiva. Tutte le produzioni in sviluppo presso la Lucasfilm Games furono messe in stand by per permettere all'azienda di concentrarsi completamente sulla realizzazione di Indiana Jones and the Last Crusade: The Graphic Adventure.

La Lucasfilm, difatti, voleva concentrarsi  360° sul terzo film dedicato a Indiana Jones e su tutte le produzioni satellite che ne avrebbero adornato il rilascio nelle sale cinematografiche. Una strategia pensata, principalmente, per fare introiti e permettere di riorganizzare l'azienda, e le sue divisioni, facendola concentrare maggiormente su delle produzioni che, per quanto sempre alla ricerca dell'innovazione tecnologica, si rivelassero realmente redditizie per la Lucasfilm.

Indiana Jones and the Last Crusade: The Graphic Adventure fu un successo incredibile. Grazie alla riorganizzazione della Lucasfilm Games, e allo script già pronto grazie alla realizzazione in contemporanea del film, il titolo arrivò un paio di mesi dopo al rilascio della pellicola nelle sale cinematografiche e, cavalcando l'onda del successo del film, vendette oltre 250 mila copie. Al netto della fretta con cui venne realizzato, il gioco offriva alcune novità rispetto alle precedenti avventure grafiche realizzate da Lucasfilm Games che gli permisero di ottenere ottimi consensi anche dalla critica specializzata, oltre che convincere la Lucasfilm a concedere nuovamente totale libertà creativa ai suoi team di sviluppo.

Nell'estate del 1989 la Lucasfilm Games aveva due team di sviluppo al lavoro sui loro rispettivi progetti: quello guidato da Brian Moriarty, impegnato nella realizzazione dell'avveniristico fantasy musicale Loom, e quello diretto da Ron Gilbert, e dalle due nuove leve della Lucasfilm Games: Dave Grossman e Tim Schafer, al lavoro sull'avventura piratesca: Mutiny On Monkey Island.

Il progetto originale nasceva, come tutte le opere precedenti realizzate da Gilbert, sul suo detestare profondamente i cliché delle avventure grafiche. Il game designer non riusciva a comprendere l'abuso ossessivo del genere fantasy da parte degli sviluppatori, specialmente in virtù della varietà di film d'avventura che popolavano le sale cinematografiche. Mutiny On Monkey Island voleva essere proprio quello, la personale celebrazione di Ron Gilbert verso il genere di avventura.

Mutiny On Monkey Island vedeva il capitano Smear West, un pirata decaduto in cerca di redenzione, imbarcarsi in un'avventura che lo avrebbe portato a confrontarsi con la "ciurma infernale" del governatore Marley. Il titolo sarebbe stato caratterizzato da una serie di meccaniche innovative per l'epoca che prevedevano battaglie navali che sarebbero culminati in quei duelli di spade che poi trovarono spazio nella versione finale del progetto.

Il canovaccio originale di Munity On Monkey Island iniziò a subire una serie di modifiche sostanziali via via che i lavori procedevano e il capitano Spear West fu il primo a pagarne le conseguenze. Il protagonista non convinceva appieno Gilbert Shafer e Grossman, che optarono per modificarlo totalmente optando per un protagonista più giovane, un ventenne che indossava una camivcia a balze e un paio di pantaloni tipicamente dei Caraibi. Per il nuovo nome del protagonista, i creatori erano alla ricerca di qualcosa che suonasse pretenzioso e ridicolo allo stesso tempo e, per diverso tempo, si limitarono a chiamarlo semplicemente "Guy".

Il cognome Threepwood fu il primo a essere trovato. Preso in prestito da un racconto di P.G. Wodehouse, il cognome del protagonista di Munity On Monkey Island era deciso, e suonava decisamente pretenzioso. Per il nome, invece, fu il caso a decidere in quanto uno dei modelli del protagonista, da utilizzare all'interno del gioco, venne salvato all'interno di Deluxe Paint con l'estensione file ".brush". Da questa simpatica coincidenza, nacque ufficialmente Guybrush Threepwood, il "temibile" pirata.

Con il procedere dei lavori, la storia di Mutiny On Monkey Island mutava sempre più, così come SCUMM continuava a essere migliorato costantemente. L'engine poteva finalmente scalare le dimensioni dei personaggi in tempo reale, senza più aver bisogno di sfruttare oggetti presenti nei fondali per coprire le transizioni fra i diversi modelli poligonali. L'interazione offerta al giocatore venne migliorata sensibilmente, andando a rimuovere una parte dei comandi testuali posti nella parte inferiore dello schermo, grazie all' introduzione di alcune meccaniche tipiche dei "punta e clicca", le quali permettevano al giocatore di spostare, semplicemente, il cursore sugli oggetti a schermo per interagire con essi.

La sceneggiatura ebbe un ruolo primario nella produzione, motivo per il quale non solo venne migliorata, ed espansa, la meccanica a "scelte di dialogo" realizzata per Indiana Jones and the Last Crusade: The Graphic Adventure ma ogni possibile conversazione fra i personaggi, doveva risultare interessante per il giocatore. Con in mente le produzioni più celebri del cinema d'avventura di quegli anni, venne realizzato un comparto audio che provasse a trasmettere nel giocatore la costante sensazione di trovarsi all'interno di un film interattivo.

Proprio in virtù delle costanti critiche mosse al comparto audio delle produzioni precedenti rilasciate da Lucasfilm Games, Monkey Island non solo avrebbe offerto una colonna sonora di prim'ordine ma quest'ultima sarebbe stata riadattata per coprire ogni tipologia di sorgente audio presente nelle macchine dell'epoca. Che fossero i "tradizionali Blip Blup", generati dagli speaker presenti nei primi home computer, tracce audio sintetizzate in MIDI o le composizioni originali inserite all'interno di un CD-ROM, il gioco doveva avere una colonna sonora coerente, e perfettamente riconoscibile, in ogni sua versione.

Mutiny On Monkey Island, infine, sarebbe uscito in un'epoca dove il progresso tecnologico stava compiendo passi da gigante in tempi relativamente brevi, quindi fu realizzato con l'obbiettivo di supportare un'ampia gamma di schermi, che partissero da quelli monocromatici, fino ai VGA da 256 colori.

Deep in the Caribbean, the Island of Mêlée

Queste due frasi, accompagnate da una manciata di suoni eterei, sono l'apripista alla schermata principale di The Secret of Monkey Island. La title track melliflua, e dalla forte connotazione caraibica, composta da Michael Land, ancora oggi riesce ad ammaliare chiunque si approcci per la prima volta al titolo.

Il nuovo titolo fu il frutto di tutte le modifiche apportate alla storia, e ai personaggi, durante le fasi di sviluppo. Guybrush Threepwood non era più un pirata decaduto ma un giovane che aspirava a diventare un bucaniere. Le tematiche più serie della prima stesura dello storyboard, fecero spazio a tonalità più comiche e sopra le righe. Fin dai primi momenti di gioco, la produzione si divertiva a rompere la quarta parete, camuffando il tutorial all'interno dei dialoghi fra i vari personaggi e delle ambientazioni che Guybrush avrebbe visitato (qualcuno ha detto SCUMM bar?).

The Secret of Monkey Island offriva al giocatore una libertà mai vista precedentemente in un'opera della Lucasfilm Games, permettendo a quest'ultimo di interagire con, praticamente, ogni elemento a schermo e testare ogni linea di dialogo presente nel titolo. Per permettere questa libertà narrativa, gli sviluppatori resero il titolo meno complesso rispetto al passato.

I puzzle si rivelarono ben congegnati, e mai eccessivamente confusionari o privi di logica ma morire era praticamente impossibile e gli ambienti, raramente, si rivelavano ostili nei confronti di Guybrush. Tutto era studiato per far divertire il giocatore e fargli vivere un'avventura grafica diversa dal passato, maggiormente cinematografica e pregna di una comicità studiata per tenere alta l'attenzione di quest'ultimo in ogni momento, grazie a situazioni al limite del demenziale.

The Secret of Monkey Island ebbe un'accoglienza da parte della critica decisamente positiva e tutte le testate giornalistiche dell'epoca rimarcavano l'impressionante capacità di un team di sviluppo così piccolo, di realizzare una produzione del genere in soli 15 mesi. Il gameplay fluido e curato, la storia divertente e mai pretenziosa, l'ambientazione differente dal solito, un comparto artistico ispirato e una colonna sonora di prim'ordine, furono solo alcuni degli elogi redatti a proposito della produzione di Ron Gilbert, Tim Schafer e Dave Grossman.

Nel giro di una manciata di mesi dalla prima versione rilasciata nell'ottobre del 1990, The Secret of Monkey Island venne reso disponibile praticamente per ogni tipologia di home computer presente sul mercato (EGA, VGA, Amiga e Atari ST) ma pur con un'accessibilità così elevata, e la critica dell'epoca a elogiarlo come uno dei migliori prodotti mai realizzati per il genere delle avventure grafiche, il titolo non decollò istantaneamente, mostrando dei grafici di vendita analoghi a quelli di Maniac Mansion: vendite mai eclatanti ma costanti nel tempo,  restando fra la settima e la terza posizione nelle chart americane fino all'ottobre 1991.

Alla Lucasfilm Games, però, questo non interessava poiché The Secret of Monkey Island era una produzione di cui andare fieri per le innovazioni che portò per il genere e per la capacità del suo team di sviluppo di mostrare come l'azienda puntasse ancora all'innovazione. Furono sufficienti le critiche positive raccolte dal titolo per far approvare, a Lucasfilm Games, la realizzazione di un secondo capitolo.

Nel mentre che The Secret of Monkey Island generava reazioni entusiastiche, Lucasfilm Games, Industrial Light+Magic e Skywalker Sounds vennero fuse assieme dalla Lucasfilm, dando vita alla LucasArts. L'operazione era atta principalmente a riorganizzare, ulteriormente, l'azienda fondendo gli studi dedicati all'innovazione tecnologica sotto un unico nome. Il seguito di The Secret of Monkey Island sarebbe stato il primo gioco a uscire con il nome LucasArts.

Dopo aver definito nuovi standard per il genere, aver riorganizzato le risorse e aver approvato un la realizzazione di un secondo capitolo di Monkey Island, LucasArts si stava preparando a una decade di totale predominio nel genere delle avventure grafiche, anche in virtù di una totale assenza di reali competitor. Infocom era stata definitivamente "spenta" da Activision e Sierra, pur dominando le classifiche di vendita dei giochi per PC, grazie alla crescita incredibile ottenuta nell'epoca di Ken e Roberta Williams, aveva lentamente cambiato il suo focus, spostandosi dalle sole avventure grafiche a una pletora di produzioni di generi diversi e dalla qualità altalenante.

LucasArts invece puntava a restare "contenuta", a non invadere il mercato con decine e decine di produzioni ma a concentrarsi, in primis, sulla qualità dei suoi prodotti, lasciando agli sviluppatori "carta bianca" sul processo creativo e produttivo. Motivo per il quale, nel corso degli anni seguenti, divenne un baluardo per il genere delle avventure grafiche, nonché un importantissimo attore all'interno della storia videoludica.

Con un ulteriore evoluzione dello SCUMM engine, una migliore resa grafica, un'ulteriore semplificazione dell'interfaccia e una storia, per certi versi, più ispirata, ilare e sopra le righe, rispetto al primo capitolo, Monkey Island 2: LeChuck's Revenge arrivò sul mercato 14 mesi dopo il suo predecessore. The Secret of Monkey Island era ancora presente nelle chart di vendita e la critica specializzata fu, nuovamente, estasiata da quanto realizzato da Ron Gilbert, Tim Schafer e Dave Grossman.

All'epoca considerato come la "Migliore avventura grafica di tutti ti tempi!", Monkey Island 2: LeChuck's Revenge raccolse critiche entusiastiche e una serie di Perfect Score incredibili per quegli anni. Nonostante tutto, però, il titolo non divenne un immediato Best Seller nemmeno stavolta. Le vendite furono simili a quelle del predecessore, con presenze costanti nelle chart di vendita videoludiche ma senza mai raggiungere, almeno in quegli anni, numeri incredibili. Pensate che venne addirittura interrotta l'operazione di conversione del titolo per Sega CD a fronte di un numero di vendite eccessivamente esiguo del precedente capitolo sulla console giapponese.

Le vendite non furono mai insoddisfacenti, ma in quegli anni le avventure grafiche non riuscivano a mergere come meritavano. Vendevano, per carità, ma occupavano una nicchia che a fatica riusciva a emergere, specialmente quando doveva confrontarsi con l'immediatezza di altre tipologie di giochi, per lo più presenti sulle console da gioco. A LucasArts, però, tutto questo non interessava, non rischiava la bancarotta e le vendite costanti offrivano comunque la possibilità di investire in nuove produzioni, l'unico vero problema che riscontrò fu che nel 1992, Ron Gilbert, decise di abbandonare LucasArts per fondare una sua software house che andasse a realizzare avventure grafiche per i più piccini.

Un colpo decisamente duro da accusare per la Lucasarts la quale, però, continuò con la sua ideologia, approvando le idee degli altri creativi, vecchi e nuovi, che componevano le sue fila. Negli anni seguenti realizzò una serie di avventure grafiche che entrarono nella storia, sia per la loro qualità che per la loro capacità di migliorare sempre più il genere. Indiana Jones and the Fate of Atlantis, Sam and Max Hit the Road, Day of the Tentacle e Grim Fandango, furono solo alcune delle pietre miliari che LucasArts produsse tra il 1992 e il 1998.

Un'epoca di radicali cambiamenti

Qualcosa però stava cambiando nuovamente, e questa volta non c'era niente che la LucasArts potesse fare. L'avvento del CD-Rom, la graduale scomparsa delle macchine a 16-Bit e l'abbandono definitivo del Floppy Disk, furono un momento importante per lo sviluppo tecnologico. Allo stesso tempo, però, questa evoluzione ridefinì gli standard, e i costi, dello sviluppo videoludico. Laddove lo sviluppo di The Secret of Monkey Island costò "solo" 100 mila dollari, la realizzazione di Grim Fandango venne a costare alla LucasArts, approssimativamente, 3 milioni di dollari.

I motivi erano tutti da ritrovarsi nella possibilità del CD-Rom di raccogliere più dati che, conseguentemente allo sviluppo del panorama videoludico, imponeva alle produzioni di avere una grafica tridimensionale, una colonna sonora composta e registrata in maniera analoga a quelle cinematografiche e, soprattutto, di offrire dei personaggi che parlassero non più attraverso delle linee di testo ma dialogando fra di loro, andando ad aggiungere degli inevitabili costi di doppiaggio.

In concomitanza con i costi sempre maggiori per le proprie produzioni, da raffrontare con dei dati di vendita non sempre eccelsi (ricordiamoci che stiamo parlando degli anni in cui il PC gaming era considerata una nicchia se paragonato alle console casalinghe), LucasArts dovette anche affrontare la perdita di Dave Grossman, che in seguito al rilascio di Day Of The Tentacle decise di dedicarsi a una carriera da Freelance, e all'arrivo sul mercato di numerosi competitor quali Adventure Soft, Revolution Software e Interactive Binary Illusions, le quali si prodigavano nel prendere gli aspetti migliori delle produzioni di Sierra e LucasArts e farli collimare in produzioni votate al genere "punta e clicca", sviluppate attorno alle più moderne tecnologie e disponibili anche per console domestiche (basti pensare al successo ottenuto da Broken Sword sulla prima PlayStation).

Nel corso degli anni produzioni come MYST o The 7th Guest mostravano il potenziale delle nuove tecnologie a disposizione del panorama videoludico e, pur non essendo titoli memorabili, riuscivano a stupire i giocatori con un comparto tecnico che la stampa di quegli anni adorava definire "spaccamascella". I giochi giravano esclusivamente su CD-Rom, e segnavano record di vendite altisonanti (basti pensare ai 6 milioni di copie venduti da MYST, che lo portarono a essere il titolo più venduto su PC prima dell'avvento di The Sims).

I costanti investimenti fatti da LucasArts in quegli anni non si rivelarono, però, mai fallimentari. Full Throttle, diretto da Tim Schaffer, e The Dig, che segnava la prima collaborazione con Steven Spielberg, furono dei successi sia di critica che di pubblico. Non raggiunsero mai i numeri toccati da produzioni quali MYST ma mostravano che l'azienda stava ancora seguendo il suo mantra.

Nel 1997 fu il momento per la LucasArts di rispolverare il suo brand di maggior successo e The Curse of Monkey Island vide la luce. Rispetto alla pixel art che contraddistinse i primi due capitoli, la terza avventura di Guybrush mostrava uno stile grafico decisamente diverso, un inedito doppiaggio e una storia che, per quanto risulti difficile da disprezzare, non riuscì mai a entrare nei cuori di chi amò i primi due capitoli realizzati da Ron Gilbert. The Curse of Monkey Island, però, segnò un importante momento per la storia di LucasArts. Il titolo infatti fu l'ultima produzione in 2D, nonché l'ultimo titolo a utilizzare SCUMM, realizzato dall'azienda.

La costante richiesta di produzioni in tre dimensioni non poteva continuare a essere ignorata da LucasArts, motivo per il quale la terza avventura di Guybrush, segnò anche la fine di un'era per la LucasArts. Fu proprio il Grim Fandango di Tim Schaffer a segnare quell'importante cambio generazionale per l'azienda, con il delicatissimo compito di mantenere invariate le emozioni che da sempre le produzioni di LucasArts trasmettevano nei giocatori, traslandole da un ambiente bidimensionale a uno tridimensionale.

Grim Fandango fu indubbiamente una boccata d'aria fresca, destinato a diventare un cult nel corso degli anni grazie al passaparola dei giocatori e alle ottime recensioni che ricevette al momento del suo rilascio ma i dati di vendita che ottenne inizialmente mostravano chiaramente che la fine di un'epoca era prossima.

Nel 2000 LucasArts rilasciò la sua ultima avventura grafica: Escape From Monkey Island. Una produzione particolare, difficile da valutare e quasi impossibile da comprendere. Un misto fra una lettera di addio per i fan e un disperato tentativo di rilanciare un genere, oramai sul viale del tramonto, attraverso uno dei suoi esponenti più celebri.

Il quarto capitolo di Monkey Island non si può dire che fosse un brutto gioco, se preso individualmente. Il suo problema più grande era quello di non intraprendere una direzione precisa in, praticamente, nessun ambito. Il passaggio dalle due alle tre dimensioni, risultò poco convincente e per quanto Escape From Monkey Island sfruttasse lo stesso engine di Grim Fandango, il comparto artistico che caratterizzò i primi due capitoli non si sposava con i modelli in tre dimensioni. Alla stessa stregua la storia non riusciva mai a decollare realmente, continuando a mescolare citazioni dei primi due capitoli, momenti genuinamente divertenti e situazioni forzatamente comiche.

Ribadiamo, però, che Escape From Monkey Island non fu assolutamente un brutto gioco, se analizzato individualmente. Il titolo ottenne, difatti, recensioni molto discordanti fra loro. Chi lo analizzò come una avventura grafica pensata per perpetrare il rilancio del genere nell'era delle tre dimensioni, lo trovò brillante, ispirato e ben confezionato (infatti tutt'ora il metacritic si staglia sull' 86%) ma chi lo approcciò pensando ai capitoli precedenti, lo trovò eccessivamente autocitazionista e privo del fascino che caratterizzò i primi, indimenticabili, capitoli.

"Dopo attente valutazioni dell'attuale mercato videoludico, e dopo alcune considerazioni di aspetto economico, abbiamo deciso che non è il migliore dei momenti per rilasciare una nuova avventura grafica"

Mike Nelson - General Manager, LucasArts

Con questa dichiarazione, rilasciata sul sito della LucasArts nel 2003, l'azienda annunciava il suo addio, temporaneo, al genere delle avventure grafiche, cancellando i lavori per i sequel, in tre dimensioni, di Sam & Max e Full Throttle. Il panorama videoludico era cambiato drasticamente e per quanto il mercato dei videogiochi per PC fosse in costante crescita, quello delle console da gioco cresceva più rapidamente. Gli interessi dei giocatori erano cambiati, i budget per produrre un videogioco erano aumentati sostanzialmente e sviluppare un'avventura grafica, con quegli standard, non era più sostenibile.

Tutti gli elementi che resero celebre il genere delle avventure grafiche vennero riadattati, nel corso degli anni, all'interno di altre tipologie di gioco. Le avventure grafiche continuarono a uscire, non erano morte, ma furono per lo più sviluppate da team europei che riuscirono a tenere in vita un genere di nicchia con alcuni titoli davvero memorabili, uno fra tutti Syberia (2002). Nel mezzo di tutto questo, LucasArts si ritrovò nel mezzo di una crisi economica che ne fermò ogni nuovo progetto, portandola a dare in licenza Monkey Island, per realizzare un progetto parallelo (Tales From Monkey Island - Telltale Games), e a realizzare le due remastered dei primi capitoli della serie (The Secret Of Monkey Island: Special Edition - LeChuck's Revenge: Special Edition), pensate principalmente per preservare le loro opere più celebri.

The Walt Disney Company, nel 2012, rilevò LucasArts assieme all'intera Lucasfilm e nel 2013 decise di chiudere lo studio e spostarne tutti i dipendenti all'interno della Disney Interactive. La divisione rimase attiva esclusivamente per gestire le licenze Lucasfilm, per gli sviluppatori di terze parti, fino allo scorso 2021, quando la Lucasfilm annunciò che avrebbe resuscitato il nome Lucasfilm Games per tutti i futuri videogiochi su cui avrebbero collaborato esclusivamente come licenziatari delle loro proprietà.

Monkey Island, la serie che nessuno vuole comprare ma che tutti dovrebbero giocare!

E Ron Gilbert? Bè lui dal 1992 al 2020 ha lavorato prima con la sua Humongous Entertainment, con la quale realizzò numerose avventure grafiche per i più piccini che generarono vendite per oltre 50 milioni di copie, poi si dedicò a collaborare con altri studi su progetti di vario tipo. Nel 2012 dichiarò che era intenzionato a chiedere alla Disney i diritti di Monkey Island per poter realizzare un "reale terzo capitolo", con una storia differente, e maggiormente coerente, da quella narrata nei capitoli successivi del franchise di cui lui non è stato autore.

Una dichiarazione che apparentemente sembrò una semplice boutade, considerando che negli anni seguenti il designer collaborò ad altri progetti assieme a Tim Schaffer e realizzò, assieme a Winnick e grazie a una massiccia campagna di Crowfunding, Thimbleweed Park, un'avventura grafica punta e clicca, in pixel art, che segnò il ritorno degli autori al sistema, e alle dinamiche di gioco, della fortunata serie di titoli progettati con lo SCUMM.

Il titolo divenne, come da tradizione, una "silent hit", ovvero una produzione capace di vendere con costanza nel tempo, mentre raccoglieva, nell'immediato, recensioni unanimemente positive. Le avventure grafiche, nel corso di tutti questi anni, si sono trasformate dal "genere di punta" di numerose aziende, a una tipologia di produzioni, maggiormente di nicchia, e pensate prettamente per i nostalgici e per appagare tutta quella serie di giocatori alla costante ricerca differenti tipologie di gioco, le quali hanno proliferato nel settore degli indie game.

Una visione d'insieme che si mostra maggiormente eterogenea rispetto ai primi anni 2000 e che offre una tale vastità, e varietà, di pubblico da permettere anche a titoli meno "pomposi e pretenziosi" di emergere grazie alle loro qualità in ambito artistico, di gameplay e narrativo. Se si unisce all'attuale panorama videoludico un franchise come quello di Monkey Island, che pur non avendo mai realmente conquistato le chart negli anni passati è entrato nella storia videoludica, grazie alle sue indubbie qualità, si comprende come mai l'annuncio di Return To Monkey Island, quando si è scoperto non fosse un pesce d'aprile, generò così tanto scalpore ed entusiasmo nei videogiocatori di tutto il mondo.

Chissà se, grazie all'indubbio talento degli autori originali e a una costante fame di produzioni d'altri tempi, questo nuovo capitolo della serie riuscirà a guadagnarsi, fin dal giorno della sua uscita, quel successo che la serie non ha mai potuto, realmente, saggiare... in attesa di scoprirlo, e magari di scriverne la storia fra una decina di anni, noi torniamo, ancora una volta, sull'isola di Mêlée a goderci i paesaggi mozzafiato offerti dai Caraibi, respirare la loro aria salmastra e a capire come usare questo pollo malandato che abbiamo trovato.