Dontnod Entertainment: le narrazioni che straziano il cuore

Dontnod Entertainment è la software house francese che sta puntando su avventure grafiche

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a cura di Valentina Valzania

Alla luce dell’uscita del nuovo Life is Strange: True Colors, risulta necessario prenderci un po’ di tempo per parlare di Dontnod e delle sue produzioni a partire dal 2008 fino a oggi. Perché? Ve lo spieghiamo subito: si tratta di una delle aziende che ha tentato maggiormente di portare la narrazione cinematografica e seriale nel mondo dei videogiochi. Un esperimento che era già cominciato anni prima con Telltale che ha poi lasciato - metaforicamente - lo scettro alla neonata Dontnod.

Da Remember Me, passando per il primo Life is Strange fino a True Colors, la software house francese ha costruito uno splendido percorso in questo complicato settore dell’intrattenimento, passando anche periodi piuttosto difficili e di crisi. All’insegna dell’avventura grafica - genere “preferito” dall’azienda  - il tentativo è sempre quello di raccontarci delle storie ibride: con un gameplay semplice ma affascinante e una tipologia di storia narrata che usufruisce di espedienti profondamente cinematografici e - ancora di più - appartenenti alle serie tv che tutti guardiamo quotidianamente.

Come è nata Dontnod Entertainment? Nel lontano 2008, in Francia ed è stata fondata da Oskar Guilbert; vede nel proprio parterre un numero impressionante di sviluppatori provenienti da realtà enormi come Ubisoft e Quantic Dream, altro grande colosso delle avventure grafiche. Il primo prodotto messo sul mercato fu Remember Me, ambientato in una Parigi cyberpunk in cui il fulcro della trama e del gameplay si trova nella manipolazione dei ricordi. Nel 2013 il gioco creò non pochi contrasti da parte della critica e della community: alcuni lo apprezzarono per il proprio modo di integrare la “modalità a scelta” in un prodotto simile e altri lo trovano un gioco mediocre e statico. La crisi per la piccola azienda fu immediata.

Ci sembra quasi sciocco specificare che per fortuna le sorti di Dontnod si siano rialzate e lo abbiano fatto ampiamente anche grazie al sostengo di Square Enix, entrata in campo per la pubblicazione del primo e iconico Life is Strange. Pur non godendo di una grafica innovativa o affascinante, il gioco ottenne un successo enorme in brevissimo tempo: riuscì a trasformarsi in un titolo al limite del mainstream, in particolare modo tra gli adolescenti e i giovani adulti. Perché? Ha rappresentato in modo egregio non solo il complicato mondo adolescenziale - fatto di conflitti interiori e responsabilità imminenti - ma ha anche creato un’eroina meravigliosamente fragile, credibile sotto ogni aspetto.

Ci credereste mai che abbiamo rischiato di non giocarlo a causa dell’insuccesso economico di Remember Me? Square Enix fu l’unica ad accettare il nuovo progetto e a decidere di pubblicare il titolo, per questo non potremo mai ringraziarla abbastanza. Pensate che probabilmente c’è un universo parallelo in cui il What if - non a caso il titolo iniziale e provvisorio di Life is Strange - è scaturito in un mondo in cui il percorso di Dontnod è terminato al principio, ancora prima di poter esprimere il proprio potenziale.

Ed è così che la software house ha cominciato a guadagnare ufficialmente un posto nel cuore di tutti noi e l’attenzione della critica videoludica, ma non in senso negativo come avvenne anni prima. Il racconto di una giovane con il potere di controllare lo spazio-tempo ha dato inizio alla serie di prodotti dedicati a protagonisti con background complicati, stratificati e un potere inaspettato e capace di stravolgere la loro esistenza in tutto e per tutto. Niente sessualizzazione, niente stereotipi inutili ma tanta emotività e un grado di dramma sempre importante.

Il trauma è alla base dell’esistenza dei protagonisti e anche dei personaggi secondari, il tutto è espresso sempre in modo profondamente emozionante, mai superficiale. In Life is Strange non solo Chloe è distrutta dalla perdita del padre ma anche la maggior parte dei suoi coetanei ha esperienze complicate alle spalle. In Tell Me Why è lo stesso: aldilà di Alyson e Tyler, l’intera cittadina ha un’enorme quantità di segreti da mantenere, segreti che logorano la loro vita private. In True Colors - senza entrare nel dettaglio della trama - si tratta della stessa identica cosa, anzi maggiormente enfatizzata.

Se l’eroina ci sembra essere quella realmente oberata dal peso del proprio dono - unico e speciale - in realtà finiamo per scoprire che ciò che si nasconde sotto la superficie della “città perfetta”  rivela sempre tutto il marcio che mai avremmo potuto immaginare, almeno in un primo momento. Dontnod Entertainment ci propone da anni prodotti vidoeludici in grado di parlarci di persone più vere che mai: i doni sono un semplice espediente per trattare qualcosa di profondamente umano come la depressione, la paura, il timore del cambiamento, la propria identità di genere e chi più ne ha più ne metta.

In buona sostanza l’azienda francese si occupa con cura di raccontarci qualcosa di sempre attuale e di percorrere vie magari già battute ma mai portate avanti con la stesso trasporto. Anche con un prodotto completamente diverso come Vampyr si è tentato di andare nella profondità della creatura vampiresca che prima di essere un “demone sceso in terra” è ancora un uomo, assopito da qualche parte in un corpo immortale.

I continui (ottimi) tentativi dell’azienda francese ci mostrano un buon percorso, cosparso di scelte e di intrattenimento all’insegna della rappresentazione di ciò che è interiore: nel bene e nel male Dontnod riesce a smascherare tutte le fragilità di ogni individuo. Siamo curiosi di vedere cosa ci riserverà in futuro.

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