I game as a service distruggeranno le storie "single player"?

In seguito a quanto offerto dalle crossover stories di Assassin's Creed, scopriamo come i GAAS stanno cambiando le esperienze single player.

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a cura di Raffaele Giasi

Senior Editor

C'è una domanda che mi rode in testa. Un tarlo notevole che sta bucherellando il mio pensiero più o meno da quando ho consegnato la mia recensione di Assasin's Creed: Crossover Stories. Per chi non fosse aggiornato, parliamo di un doppio round di DLC gratuiti, che ha aggiunto una missione extra non solo all'ultimo Assassin's Creed: Valhalla, ma anche al più “vetusto” (in tutti sensi) Assassin's Creed: Odyssey, ed il cui scopo è stato quello di regalare ai giocatori (nello spirito di un fanservice notevole), un racconto che permettesse ad Eivor di conoscere e incontrare Kassandra, la protagonista dell'avventura ellenica della serie.

Ora, senza entrare nei dettagli sui due contenuti, anche perché potete reperirli nella recensione poc'anzi citata, la faccenda ha risvegliato in me un pensiero, relativo a quello che è il senso degli aggiornamenti a lungo termine, ovvero quei DLC che si presentano sul mercato quando un titolo è stato ormai ampiamente masticato, digerito, e talvolta anche sputato. La domanda è semplice, e penso sia anche condivisibile: “ha senso continuare ad aggiornare le esperienze single player?”.

Ora che entriamo nel secondo anno di supporto di Assassin's Creed Valhalla, la domanda mi pare più che legittima. Anche perché, se si mettono da parte gestioni disastrose di titoli controversi, come ad esempio Cyberpunk 2077, ed il suo programma di fix ancora in corso, a distanza di oltre un anno dall'uscita, a memoria non ho ricordi di un gioco single player la cui corsa di aggiornamenti si è protratta per unperiodo più lungo degli 8/10 mesi successivi all'uscita, ed in questo sia Valhalla, che Odyssey, si sono proposti come due mosche bianche nell'attuale panorama videoludico.

Va anche detto, tuttavia, che il mercato del gaming sta cambiando, e che oggi anche esperienze in single player finiscono per maturare una filosofia nel supporto post-lancio che si avvicina, spesso pericolosamente, a quella del mercato dei titoli multiplayer. Ovvero quella di mettere i giocatori nella condizione di acquistare contenuti per la parte multiplayer della loro esperienza di gioco, senza negar loro di potersi godere quei contenuti anche in solitaria, per quanto quasi del tutto privi di senso.

Se l'esempio non vi è chiaro, vi basti pensare a giochi come quelli della serie di Monster Hunter o, perché no, allo sfortunato Marvel's Avengers: giochi che hanno un'identità single player definita, a volte potremmo dire anche “forte”, ma che basano parte della loro esperienza sul multiplayer online, cooperativo o competitivo che sia e che, per questo, si prolungano nel supporto post lancio per offrire missioni extra, costumi, e persino qualche divagazione narrativa.

Con Valhalla, Ubisoft rompe un po' gli schemi di questa regola, perché parliamo di un titolo single player puro, che non cerca alcun pretesto multigiocatore per offrirci nuovi contenuti, cercando in essi anche una scusa per mantenere alto il valore del brand agli occhi del pubblico, giocoforza anche quelli che (presumibilmente) sono i rallentamenti di marcia sullo sviluppo della serie regolare, forse causati dal COVID, forse dalle intenzioni della software house di dare ai giocatori l'impressione di avere “meno Assassin's Creed” da giocare nel corso degli anni, giacché l'uscita annuale del brand era diventata, come forse qualcuno ricorderà, uno dei talloni d'Achille della serie.

Al di la di questo concetto, il prolungato supporto al gioco è, ovviamente, una notizia positiva, a patto che la si intenda come la mera opportunità di avere qualcosa da giocare, ma lo è forse un po' meno dal punto di vista narrativo o, se vogliamo, filosofico. Il punto è molto semplice: cosa mettono e cosa tolgono nell'esperienza complessiva del giocatore, certe tipologie di contenuti? Il pensiero, a mio giudizio, va oggi esplorato a causa di quella che è la nuova ondata di giochi che, a partire proprio dal tavoliere dei titoli online, stanno invadendo anche il mondo dei single player, ovvero quello dei famigerati “game as service”.

Ma cosa sono i game as service? Si tratta, sostanzialmente, non di un genere, ma di un modello di vendita, che fa sì che un videogame possa continuare a generare introiti anche sulla lunga distanza, e non semplicemente grazie al boost di vendite iniziale, e comunque non in correlazione diretta al software venduto.

È il modello che è stato generato, ad esempio, dai free to play, ovvero da titoli come Warframe, Fortnite o anche solo da Destiny: ovvero un gioco che, a prescindere dalle vendite del software in sé, è in grado di generare incassi enormi tramite un piano di abbonamento, una sottoscrizione premium, o anche solo una serie infinita di contenuti aggiuntivi o loot box, il cui acquisto viene incentivato da un supporto al gioco pressoché infinito, che stuzzica i giocatori con eventi in game, partnership più o meno bagnate (Fortnite/Marvel, ring a bell?) o addirittura collaborazioni al di fuori del software.

Non più un gioco dunque, ma un servizio, che vedrà proprio in Assassin's Creed ed il suo chiacchieratissimo “Infinity”, quello che potrebbe essere l'esempio più importante all'interno del panorama single player, giacché parliamo di uno dei più profittevoli e rilevanti franchise di videogame attualmente sulla piazza.

Ora, qual è il punto? Il punto è che, per quanto piacevoli, i contenuti aggiuntivi di Assassin's Creed, non sono mai stati un appuntamento imperdibile per i giocatori, ed anche sei più stoici di noi li hanno acquistati e giocati (anche robe davvero inutili tipo, chessò, i DLC what if di Assassin's Creed III), essi sono stati sempre e solo un pretesto per gironzolare di più in un gioco amato, più che un'occasione (sperata, ma quasi sempre disattesa) per approfondire certi aspetti narrativi della serie. Insomma, come per molti DLC, anche Assassin's Creed ha sempre peccato di avarizia, offrendoci contenuti a pagamento confezionati per creare quel tanto di clamore che bastava a spronare all'acquisto, e nulla di più.

Si tratta, a mio avviso, di un importante campanello d'allarme, che oggi dovrebbe risuonare più forte che mai, perché a differenza, ad esempio, di un titolo più blando dal punto di vista narrativo, o comunque squisitamente incentrato sul gioco online, Assassin's Creed ha al centro della sa identità una forte attitudine narrativa, data dalla sua fittissima lore, che mescola passato, presente, e talvolta futuro, in quello che è un nodo intricato di informazioni, personaggi, cospirazioni, fantascienza, e amenità teologiche di ogni tipo. Certo, non possiamo dire che funzioni sempre ma, indubbiamente, è qualcosa che ha ancora un certo fascino.

Ora, se avete seguito il discorso per filo e per segno e se, come me, avete giocato gli ultimi (ed inconcludenti) DLC della serie, in cui le “Crossover Stories” sono solo la proverbiale “goccia che ha fatto traboccare il vaso”, allora saprete quanto questi contenuti, per quanto divertenti, finiscono per essere solo paccottiglia digitale.

Non parliamo di sopraffini esperienze narrative, ma di mere aggiunte, atte ad allungare il brodo di un'esperienza videoludica che, se parliamo di GDR oper world, anche quando blandi, richiedono al giocatore almeno un centinaio di ore per essere portati a termine. Insomma, certi DLC finiscono per essere una versione alternativa di pacchetti di costumi, o aggiunte di personaggi extra, che non riescono quasi mai a sopperire a quella che è la bulimia del giocatore verso un determinato mondo di gioco, o verso un determinato genere.

Questo perché, diciamocelo, certi giochi sono diventati davvero troppo lunghi. E non è che è cambiato il rapporto che abbiamo noi con il tempo, è che le modalità di vendita di un prodotto sono diverse, ed il mercato è oggi molto più aggressivo di quanto non fosse, ad esempio, 10 anni fa. Allo stesso tempo, la soglia di attenzione è drasticamente calata, forse anche a causa del sovraffollamento di prodotti di cui siamo bombardati ogni anno.

In questo scenario, in cui ogni anno esplode un “capolavoro che tutti dovrebbero giocare”, è ovvio che le case di produzione che hanno la possibilità economica per sostenere un progetto a lungo termine, possano (ma non è detto che tutte vogliano), tenere l'attenzione alta sui loro prodotti, specie se in esse c'è l'ambizione, o almeno l'attitudine, a trasformare le loro uscite di punta in game a service.

Ed ecco perché, assieme all'esponenziale aumento del numero di produzioni AAA e AA di cui il mercato è stato inondato, negli ultimi anni è anche cresciuto in modo mostruoso il numero di titoli che richiedono come minimo oltre 20 ore per essere portati a termine. Molto di questi includoni una serie infinita di collezionabili senza senso, missioni secondarie sviluppate a blocchi (disttuggi le basi, salva gli ostaggi, pedina le persone, ecc...), ed una serie di variazioni che, in generale, sono ben poche rispetto ad un canovaccio standard il cui pregio, semmai, è solo quel guizzo narrativo che fa la differenza. Il motivo? È quello appena detto: cercare di tenere i giocatori incollati ad un determinato mondo di gioco, così che egli si invaghisca del brand, del franchise, e sia magari più propenso a non acquistare altro se non, magari, i tanto discussi contenuti aggiuntivi.

Fateci caso, praticamente ogni gioco di rilievo degli ultimi 10 anni è quasi sempre: a mappa aperta, ampiamente esplorabile, include qualche divagazione ruolistica, ha una mezza infinità di incarichi secondari, e magari è stato “esteso” dopo l'uscita con un pacchetto di missioni più o meno pregno di contenuti, con un costo che, di norma, corrisponde almeno un quarto del prezzo del gioco originale.

Insomma, non è un mero problema di tempo. Non è poi cambiata di molto la percezione del tempo trascorso in gaming da parte dei giocatori, sono proprio i giochi in sé ad essere diventati più lunghi, con lo scopo di tenerci più ancorati al loro mondo di gioco, alla loro proposta con la volontà, se possibile, di non guardare al resto del mercato.

Appurato, insomma, che non è un problema di tempo, perché pur crescendo, chi vuole giocare gioca, e chi non vuole se ne frega, e magari gioca meno o non gioca affatto, mi viene da chiedermi quanto senso abbia estendere così tanto l'orizzonte di certe avventure, specie quando già lunghissime, quando poi la narrazione al loro interno si è ormai esaurita, e non è più in grado di comunicare al giocatore qualcosa di concreto, o di utile.

Tornando a Valhalla, ad esempio, aveva davvero senso uscire con 2 DLC a pagamento che non raccontano davvero nulla al giocatore? Non sarebbe stato meglio, ad esempio, uscire con qualche set di missioni aggiuntive, magari gratuite, a corredo di qualche nuovo trofeo e poco più (strategia, per altro, avviata e poi abbandonata da Odyssey) o, ancora meglio, con un contenuto aggiuntivo che facesse davvero da ponte narrativo per il capitolo successivo? Sarebbe bastato un cliffangher degno di nota per non smorzare nulla al finale del gioco originale, pur regalando ai giocatori un motivo in più per acquistare il capitolo successivo.

Un qualcosa che, diciamocelo, difficilmente sarà appannaggio del prossimo “mega DLC” che, ambientato addirittura nella “timeline mitologica” della serie, sembra avere ancora meno senso in termini di continuità narrativa. Ma magari sto divagando. Il punto, a mio giudizio, è chiedersi questo: quando Assassin's Creed, o qualsiasi altro grosso brand single player si preparerà al grande salto dei “giochi come servizi”, a noi giocatori che cosa verrà offerto?

Crystal Dynamics ci ha dimostrato che a volte non bastano un nome forte ed una buona idea ad avere successo, perché spesso i giocatori vogliono di più, specie quelli single player che non sono così avvezzi a lasciarsi coinvolgere da qualche tutina extra o dall'ennesima promessa di un raid con il cattivo di turno.

È un fatto, e Marvel's Avengers è stato un flop sotto diversi aspetti. Non è un paradosso, a questo punto, ma solo una conferma, il successo ottenuto invece da Guardians of The Galaxy, titolo single player fatto e finito, che se n'è bellamente fregato (fino ad ora) persino dei DLC (che ci sono eh, ma a nessuno frega davvero che ci siano). Insomma, il mercato si vuole orientare verso i giochi come servizi, con l'ambizione di offrirci un gioco, al massimo un paio, che dovrebbero accompagnarci per molti anni prima di lasciare il posto alla loro versione aggiornata e corretta.

Un'ambizione che pare dettata dal denaro, più che dalla volontà di regalare esperienze. I giocatori, dal canto loro, non sono sicuro che cerchino questo, almeno non tutti, come non sono neanche sicuro che sia questo quello che cerca chi quelle esperienze, fino ad oggi, le ha scritte, disegnate, programmate e messe su console e PC. Sembra, insomma, che siano più i soldi a muovere la narrazione del gaming, che per questo può prendersi la briga di essere blanda e inconcludente perché, a conti fatti, a gioco venduto, a DLC scaricato, non si effettuano rimborsi, e comunque a nessuno sembra veramente fregare che quanto raccontato valga davvero il nostro tempo, risicato o meno che sia.

Fa più scena fare finta che sia così e questo, tutto sommato, mi pare sia una mancanza di rispetto verso chi, come me, su quei maledetti videogame ama investirvi un po' di tempo ogni giorno della sua vita.