Il momento in cui Destiny ha fermato il tempo

Nel giorno in cui Destiny fu pubblicato nel 2014, ricordiamo la magia che Bungie riuscì a creare con il suo nuovo universo.

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a cura di Alessandro Palladino

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Il nostro obiettivo era quello di costruire un mondo dove ogni idea fantastica fosse possibile – non un palco solo per le nostre storie ma anche per i giocatori. Noi volevamo creare mondi e luoghi d’avventura, spazi brulicanti di misteri da risolvere e pericoli da superare. Noi volevamo che Destiny fosse familiare e riconoscibile, magnificamente strano, e istantaneamente credibile. È stata una sfida monumentale.

Con queste parole Christopher Barrett, Art Director di Destiny, apre le pagine di The Art of Destiny, il libro che illustra la nascita di un vasto universo fatto di fantascienza, magia, cavalieri, astronauti e Guardiani. Mondi, stelle e visioni che nel 2014 hanno stregato milioni di giocatori in quello che si sarebbe rivelato come un viaggio tra le generazioni videoludiche. E come veri pionieri del nuovo millennio, anni fa scandagliavamo la cartografia del Navigatore di gioco alla ricerca di nuove avventure in un immaginario completamente inesplorato.

A prescindere da quanto uno abbia vissuto o meno Destiny, la creatura di Bungie ha segnato indelebilmente il cuore di un’intera industria e delle fantasie che solamente essa riesce a tirare fuori. Un fenomeno che ha spinto enormemente il salto verso PlayStation 4 e Xbox One, dandoci un’idea di quello che volesse dire passare alla nuova generazione e dei mondi in essa. Anche questo era parte del fascino di Destiny, talmente futuristico nel concetto da spingerci verso nuove frontiere digitali, tutto per goderci al meglio i panorami familiari e impossibili che proponeva.

Ripensarci adesso, in questo giorno di commemorazione, il suo lancio genera un forte senso di nostalgia in noi appassionati. Non tanto perché giochi come Destiny non siano usciti più, anzi la saga continua tutt’oggi con Destiny 2, quanto perché quel titolo preciso ha fatto nascere in noi delle sensazioni talmente forti da essere quasi irripetibili. E non per il merito di un singolo elemento, del marketing o della nuova generazione alle porte, ma per l’idea generale che tutti i fattori creavano nella loro misteriosa armonia proveniente da uno spazio alternativo. Un qualcosa che si è tentato di ricreare con il lancio di Destiny 2 in un tentativo coraggioso, riuscendo solamente parzialmente e dimostrandoci che perfino la compagnia dietro lo stesso gioco abbia difficolta a ricreare la formula magica di un tempo.

Se doveste pensare al momento in cui avete capito di essere interessati a Destiny, innamorandovi nel più ardito dei casi, probabilmente scavereste nei ricordi fino al primo video di gameplay dell’E3 2013, pubblicato ufficialmente il 3 luglio 2013 dopo una kermesse in cui ogni testata di settore aveva mostrato il suo totale apprezzamento per ciò che Bungie aveva tirato fuori dal cilindro. Va da sé che un’accoglienza del genere per un progetto così ambizioso avrebbe galvanizzato anche il più scettico tra gli scettici. I fiumi di caratteri in merito, per quanto ottimi, non rendevano però l’effetto che quel singolo filmato era in grado di creare con la sua visione creativa mostrandoci semplicemente la prima missione del gioco, divenuta talmente iconica da rappresentare completamente ciò che era, ed è, l’anima di Destiny.

In tutta onestà, è davvero così. L’apertura su un paesaggio bellissimo e al tempo stesso devastato, ricco di nemici che attendono nell’oscurità e un Guardiano che scende dalla sua astronave per trovare la luce nei resti della nostra terra. Mistero, cura estetica, cooperazione e idee originali nel panorama sci-fi, tutto racchiuso in quei 12 minuti di magnificenza che sembravano proporci una dimensione a metà tra l’epico e il futuro. Perfino la cromatura, che giocava con la luce e fondeva tonalità naturali con le rugginose sfumature dell’acciaio antico, aveva una sua storia da raccontare.

Così come i primi Caduti ad apparire sullo schermo, con i loro sontuosi stendardi a coprire le pastellose icone dell’industria russa e un’apparente gerarchia a sottolinearne la supremazia o l’intelligenza. Non pupazzi da sbaragliare e dimenticare, bensì una vera civiltà che ci ha sostituito e che in un modo o nell’altro deve essere conosciuta per essere eliminata. Immaginazione che lavorava ben prima della pressione del grilletto e che suggeriva all’osservatore che non stava guardando un semplice sfondo narrativo di uno sparatutto, bensì che c’era un qualcosa di molto più profondo anche in quella piccola missione.

Un ecosistema che riassume ciò che poi abbiamo vissuto sulla Luna o su Marte ma con civiltà e minacce diverse, dando ai luoghi di Destiny una valenza che andava ben oltre il semplice livello da esplorare e facendoli diventare dei piccoli mondi indipendenti, con le loro regole e padroni alieni. Era come avere più esperienze in un unico pacchetto, avventure che ci hanno poi accompagnato fino ai bordi della galassia in maniere sempre diverse a ogni espansione ed aggiornamento, aggregandoci in una realtà così ben descritta da essere molto di più di un passatempo. Un dovere solenne quello del Guardiano, a cui molti si sono dedicati con onore e trasporto anche – e soprattutto – nelle profondità delle iconiche Incursioni. Era difficile non sentirsi parte di un qualcosa di più grande quando partivano le note solenni e avveniristiche della colonna sonora, in azione o davanti al panorama sul Viaggiatore.

E non si tratta certo di musiche qualsiasi, ma di composizioni che sono state generate dalla Musica delle Sfere: un progetto compositivo enorme ideato da Martin O’Donnel, Michael Salvatori e Paul McCartney, le tre menti che ci hanno fornito brani strumentali letteralmente capaci di descriverci un pianeta semplicemente con le note. A prescindere dalle beghe legali e della diffusione di queste composizioni, la loro genesi riverbera ancora oggi nell’anima del gioco e nelle orecchie degli amatori, trovando spazio perfino nei più moderni brani di Destiny 2. Eppure è nella loro forma più pura che riescono a rapirci completamente, a portarci indietro ai giorni in cui vagavamo per la Torre o stazionavamo in Orbita con i nostri amici alla ricerca della prossima destinazione da esplorare, regalandoci la meraviglia del mistero un po’ come l’effetto che avevano nel video del 2013.

Ma è alla fine di esso che Destiny si rivelava davvero, quando i due protagonisti (di cui uno nominato Oryx non casualmente) distruggono i caduti delle rovine del Cosmodromo e tornano all’aria aperta, sotto il cielo azzurro della Terra. Qui, astronavi nemiche e altri giocatori si univano in un vasto terreno dove i conflitti e le storie sembravano dipanarsi ancora di più, chiamandoci nuovamente all’avventura subito dopo averne conclusa una.

La meraviglia continua, quel senso di non aver mai finito di esplorare è stato il punto più importante che ha definitivamente definito e venduto l’esperienza di Destiny. La meraviglia di scoprire un nuovo brano, i segreti dei pianeti del Sistema Solare, le potenzialità e personalizzazione del nostro Guardiano, nuove storie, nemici e ricompense da ottenere. Non c’era mai un momento in cui ci sembrasse che Destiny fosse finito e non sembra esserlo neanche oggi dopo tutti questi anni e un secondo capitolo pronto alla sua seconda espansione maggiore. È questa la vera anima dell’immaginario creativo che componeva l’insieme del titolo di Bungie, che continua ad attrarci verso la galassia al centro di esso: un posto in cui il tempo sembra fermarsi e le gesta dei Guardiani continuare all’infinito, meravigliandosi ad ogni salto orbitale.