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a cura di Ecleto Mucciacciuoli

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Ci troviamo in un’era in cui essere stimolati vuol dire tutto, lo stesso vale per il game design nel mondo del videogioco. Non che questo sia per forza ricercato dai più, ma è l’ecosistema che respiriamo ad aver cambiato le nostre attitudini. Prima di questo articolo avevo già esplorato alcuni pensieri circa il contesto in cui i piccoli videogiocatori muovono i primi passi, ma questa volta proviamo ad andare più affondo. Che sia per strada, sui mezzi pubblici o in compagnia di altre persone è sempre più preoccupante il fatto che non riusciamo stare da soli con i nostri pensieri. L’eterno vortice del dinamismo che ha inghiottito la nostra quotidianità ha condizionato il nostro modo di pensare e, in alcuni casi, anche il nostro modo di divertirci.

È preoccupantemente vero che le nostre passioni solitarie ormai debbano essere di dominio pubblico. Il contesto social in cui ci troviamo quasi esige che per sentirci appagati e mostrare che ci stiamo davvero divertendo, occorre sbandierarlo sui social o nelle nostra bolla di amici. Da questa premessa, ormai sempre più concreta, vien da sé che anche il nostro modo di giocare risente della mancanza di feedback e partecipazione. Postiamo i nostri record videoludici per sentirci parte di un gruppo, proviamo titoli solo se amati dalle masse e sentiamo il pruriginoso bisogno di essere messi in competizione. Le stesse community che ruotano intorno ad un videogioco ci attraggano con un folle magnetismo a partecipare.

Certo, fortunatamente ci troviamo in una fase ancora transitoria per le generazioni più grandi, quindi magari questo modo usare il videogioco ancora non è all’esasperazione, ma è reale. Non si tratta di puntare il dito contro chi gioca in modo “sbagliato”, non esiste errore nel passatempo e nessuno ha il diritto di imporre cosa voglia dire trovare conforto in un’esperienza ludica. È tuttavia necessario essere consapevoli del contesto in cui viviamo e ricordarci - sempre - che anche le opere più solitarie posso essere catartiche.

Così come è di dibattito pubblico l’ipotesi che nell’era social noi fatichiamo a stare sconnessi dal mondo e soli con i nostri pensieri, così il passatempo può essere rivalutato per migliorare il nostro io. Questa riflessione è dedicata a tutti coloro che ritengono il giocare in solitaria uno spreco di tempo o, peggio, evitabile perché “fuori moda”.

Il videogioco e l'importanza delle atmosfere

Il videogioco è una forma d’arte anche contemplativa e poetica, non per forza deve essere vissuta come valvola di sfogo ogni volta. Partendo da questo innegabile incipit, ho ascoltato più voci ed opinioni per farmi un’idea su cosa vuol dire “esperienza solitaria” in un gioco. Badate bene: non ha nulla a che vedere con il modo in cui siete abituati a divertirvi, ma più che altro cercare un comun denominatore in quei titoli che riescono a toccare le corde del nostro animo, magari grazie ad esperienze virtuali atipiche. Journey forse incarna perfettamente questo concetto, considerando che si tratta di un gioco ben lontano dagli stilemi dell’industria odierna. Facilmente associabile a un viaggio fuori dall’ordinario, l’opera cerca di farci trattenere il respiro a più riprese dinnanzi a paesaggi onirici. Raramente si riscontrano emozioni simili, anche perché non è il solito gameplay.

Sebbene sia stato largamente apprezzato da pubblico e critica per la sua maestosa originalità, la sua natura puzzle platform è la cornice di un’idea ampia e complessa: come mettere a proprio agio il giocatore in un ambiente che non sgorga stimoli ad ogni passo? Ancora una volta vi invito al parallelismo con il mercato ludico odierno. Come può l’utente medio apprezzare un titolo che lascia libertà assoluta senza pungolarlo o guidarlo continuamente? Una provocazione forte, ma che ci permette di riflettere sui metodi di game design usati per avvolgere il fruitore senza soffocarlo di stimoli. Il videogioco può essere anche un’esperienza intima, che non dobbiamo per forza condividere e che ha il diritto di sorprenderci.

Le riflessioni morali e il coinvolgimento

Ogni tanto farsi una vacanza mentale in qualche videogioco creativo e magari senza un apparente scopo può essere catartico. Spezzare il ritmo diventa un modo per ricaricare la nostra materia grigia e abbassare il livello di stress che viviamo ogni giorno. Undertale su di me ha avuto quest’effetto per esempio. Non solo perché le musiche mi cullavano, ma perché, tra quelle poche righe di codice, percepivo passione e umanità. Da una vita spolpo con soddisfazione RPG di tutti i tipi e sono abituato ad essere stimolato dagli impulsi meccanici che questo genere ha da offrirmi, ma mostri con una coscienza?! Cioè, non esiste solo il pigiare tasti per salire di livello, perché questi esseri fatti di pixel hanno sentimenti? E lì ti senti in colpa per tutti quegli esserini virtuali che ti lasciato lungo la strada. Cavolo, quindi questo gioco non mi invita a finirlo o a spremerlo, ma vuole che io rifletta ad ogni incontro.

Spegno dunque la mia parte meccanica ed accendo la mia sensibilità in un contesto che credevo fosse solo gioco senza freni. Così Undertale mi ha fatto comprendere, storia dopo storia ed incontro dopo incontro, che c’è molto di più oltre il visibile. Un altro esempio di catarsi, che non ha richiesto stimoli. Un ultimo esempio, giusto perché discutiamo di alcuni casi che hanno rasentato la perfezione critica, è Chicory: A Colorful Tale.

Se con Journey e Undertale abbiamo riflettuto sull’importanza dell’atmosfera e della prospettiva ludica, qui sfioriamo un concetto molto delicato: la trasposizione virtuale delle emozioni. Sulla falsa riga del concetto “non serve pungolare il player con attività se queste non permeano nell’animo”, quest’avventura colorata profuma dei vecchi album da colorare che avevamo da piccini.

Il videogioco e il potere delle emozioni

La semplicissima trama affronta la difficoltà di urlare le proprie emozioni al pubblico e tocca lo struggente abisso di chi affronta la depressione. È come vivere in un mondo spento, una tela da pittore con solo linee sparse e fioche, incapaci di urlare perché prigionieri della carta. Il gameplay desidera dare a voi il potere di liberare le emozioni sotto forma di colori e vi donerà il potere magico di colorare ogni porzione del mondo virtuale, con ovvie meccaniche di game design collegate. Anche in questo gioco è facile avvertire come ad ogni passo e tasto premuto si possa contemplare qualcosa di così profondo.

Dopo ogni piccolo passo vi sentirete un pochino meglio anche voi e questo perché l’opera desidera di rendervi migliori e più felice con voi stessi. Se non è catarsi ludica questa. Dopo aver citato degli esempi lampanti che sottolineano l’importanza di un gameplay a volte più ricercato e semplice in un videogioco, ci si chiede quali siano i punti in comune. Ironia vuole che i titoli citati, così come altri esempi scartati, ma comunque validi, avessero in comune gli elementi puzzle. Non ha un vero e proprio significato, ma certamente le dinamiche ambientali e l’ingegno sono alla base di titoli di natura più riflessivi.

Ciò che rimane impresso è il fatto che ho elencato dei giochi che sono stati accolti con le lacrime da critica e pubblico, perché portavoce di un “modo di raccontare diverso”. Siamo così abituati alle tendenze di mercato e alla velocità aumentata in ogni titolo, che talvolta ci dimentichiamo la bellezza di esperienze più catartiche. Ogni tanto giocare a qualcosa che è esclusivamente per noi, senza competizione, condivisione o completismo, ci può fare davvero bene. Questo non vuol dire cambiare il proprio stile e le preferenze, ma magari spezzare la nostra routine per dare modo alla nostra creatività di irradiarsi. A volte non serve che un videogioco faccia tanto clamore per rimanerci nel cuore.