Lo Spazio nei videogiochi: quando l'infinito è davvero oltre

Scopriamo insieme la potenza dello Spazio nei videogiochi, andando oltre l'infinito e citando alcune delle opere più significative

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a cura di Nicholas Mercurio

Un tempo per la meraviglia alzavamo gli occhi al cielo sentendoci parte del firmamento. Ora, invece, lo abbassiamo preoccupati di far parte del mare di fango”.

A dirlo era Joseph Cooper, interpretato da Matthew McConaughey, in Interstellar, la celeberrima pellicola cinematografica diretta e scritta da Christopher Nolan e suo fratello, la quale ha dimostrato quanto lo Spazio, oltre ogni misura, abbia sempre qualcosa da raccontare a chi resta affascinato dai suoi astri. Nel panorama dei videogiochi, però, il tema è ancora più profondo di quanto qualcuno potrebbe immaginarsi, complici le produzioni pubblicate negli ultimi quarant’anni. Una delle più famose, in tal senso, è Space Invaders, uscito nel lontanissimo 1979, quando ancora il mondo dei videogiochi doveva scoprire sé stesso.

Una data non casuale, perché dieci anni prima l’uomo camminò sulla superficie lunare, scoprendo un satellite ricco di sorprese. Pur apparendo come una pallina da golf nell’oscurità, questo satellite aveva un’importanza vitale per comprendere al meglio uno dei passaggi fondamentali del pianeta Terra, oltre che la sua stessa formazione. A distanza di così tanto tempo, una delle tante teorie che spiega la nascita della Luna è quella della collisione, sebbene non vi siano prove che ne confermino l’autenticità. È certamente la più probabile, stando alle fonti della NASA e dell’ESA, anche se molti sostengono che la Terra e la Luna siano nate insieme.

L’uomo è sempre stato attratto dalla scoperta e dall’ignoto, curioso di conoscere ogni cosa che leghi l’Universo e spieghi la sua origine. Per ora, tuttavia, so che là sopra è ancora tutto da comprendere. Cinema, videogiochi e soprattutto letteratura hanno fantasticato molto su cosa potesse esserci oltre la stratosfera, in quei corpi celesti ancora tutti da scoprire e capire. Io non andrò mai nello Spazio, e lo accetto a malincuore, anche se vedere l’umanità superare la mesosfera e partire per l’ignoto sarebbe uno spettacolo assolutamente indimenticabile. So per certo che un giorno, quando la diventerà inabitabile, ci saranno colonie ben oltre la mia comprensione in ogni angolo del Sistema Solare. O così, perlomeno, me lo auguro. Dopotutto, l’umanità deve andare avanti, evolversi e non è detto che lo faccia sulla Terra, com’è inevitabile.

Il panorama videoludico è in perpetuo mutamento: come l’Universo, a detta del professor Stephen Hawking nel suo libro “Dal big bang ai buchi neri: breve storia del tempo”, si sta espandendo a perdita d’occhio. A differenza dell’Universo, però, il mondo dei videogiochi si blocca, a volte perde la bussola e poi la ritrova. Poi ci ricasca, si riprende e così via, come un qualunque circolo vizioso, e forse il bello è proprio questo: l’umanità è imprecisa, non sa cosa vuole ed è solo un granello di sabbia in un piano esistenziale vasto e impossibile da contemplare. Non è un caso, infatti, che il mondo dei videogiochi parli della fantascienza, del sci-fi e di tutte le correnti che riguardano l’Universo in modo particolareggiato, diverso e al tempo stesso interessante, riuscendo a trasmettere le stesse sensazioni che si proverebbero all’interno di un buco nero. Andare ben oltre firmamento e la Via Lattea, immaginandosi lontano anni luce della Terra, è qualcosa che chiunque si augurerebbe.

L’uomo può soltanto farlo, al momento, inviando delle sonde, ma anche attraverso il cinema, la letteratura e soprattutto i videogiochi. D’altronde, i mezzi migliori per raccontare qualcosa di cui non si conosce ancora tutto sono gli stessi che la specie umana utilizza per stare meglio, per svagarsi e immaginarsi in fantasie uniche, personali ed intime, e la cosa straordinaria è che sono diverse in base a ogni individuo. Lo Spazio non è perfetto, non è indicativo o relativo. Cambia e migliora, non cambia e peggiora. Proprio come gli esseri umani.

Lo Spazio nei videogiochi: raccontare l’infinito attraverso le emozioni

Lo Spazio è freddo e inospitale, ed è morte, poiché è imprevedibile e ineluttabile. Qualcuno direbbe che è un’ultima frontiera, ma nel mondo dei videogiochi non è mai stata tale. Quando si esplora l’ignoto, cosa potrebbe accadere è una probabilità, e non si può fermare, non si può frenare, non si può controllare. Raccontare lo Spazio, infatti, è una parte estremamente complessa per chiunque scriva un videogioco. Se penso a Mass Effect, non immagino neppure quanto sia stato complesso riuscire a sviluppare un mondo capace di entusiasmare e coinvolgere in questo modo, a tal punto da appassionare per anni una nutrita cerchia di appassionati ed estimatori della serie in ogni sua formula. E se penso alle altre contaminazioni, alcune delle quali provenienti dalla letteratura, quanto si configura è ancora ben più profondo di quanto appaia. Mass Effect, in tal senso, è una serie che è riuscita nel complesso tentativo di ricordare Battlestar Galactica e Star Trek, due delle produzioni che si avvicinano al capolavoro sviluppato da BioWare. Dello Spazio, in realtà, si era già scoperto che l’uomo non fosse l’unico essere esistente, e che c’erano varie razze aliene sparse per una Galassia infinita, che diventò facilmente accessibile per chiunque. Inoltre, si potrebbe persino citare Halo, il suo mondo, i suoi libri e la serie televisiva, che ne approfondisce le sfaccettature.

Immaginatevi di passeggiare per la Cittadella, incontrare una Quarian e parlarci, per poi salire a bordo della Normandy e partire verso l’infinito. La scrittura scelta per descrivere lo Spazio, in tal senso, è stata sopraffine e intelligente, perché ha parlato al cuore dell’infinito, andando a ripescare le fondamenta stesse del genere. Alcune delle particolarità che si possono riscontrare nei libri di Asimov è la scoperta, che in Mass Effect: Andromeda, l’ultimo capitolo della serie scollegato dalle trame di John Shepard e dall’equipaggio della Normandy, è raccontata con passione e attenzione ai dettagli. Una nuova Galassia da scoprire, altrettanti pianeti da visitare e nuove voci da ascoltare e conoscere: l’uomo si è spinto oltre la Via Lattea, attraversando lo Spazio conosciuto e arrivando là dove nessuno avrebbe mai osato avvicinarsi.

Un percorso, però, non è fatto di sole conquiste. È composto da difficoltà e momenti complessi, alcuni dei quali potrebbero scoraggiare chiunque. Con Outer Wilds, sviluppato da Mobius Digital e pubblicato da Annapurna Interactive, mi sono interfacciato, in passato, ricordandomi la legge di Murphy: “Se qualcosa può andare male, andrà male comunque”. È una probabilità scientifica, la si può evitare, ma non sarà impossibile riuscire per tempo a trovare un altro modo per risolverla. Ecco perché è interessante vedere, nell’immaginario dello Spazio e della sua potenza, quanto sia effettivamente confortante che esiste una fine anche se non la si può vedere.

Outer Wilds parla dell’evoluzione attraverso le imprevedibilità della vita, rivolgendosi all’Universo con gli occhi sgranati per lo stupore, sapendo che niente potrà mai essere diverso, niente sarà mai sfaccettato e uguale. Tutto avrà sempre una sua conclusione. Come ci si arriva, però, a questo? Non esiste una legge che lo spieghi: lo si può accettare, cominciando ad accettarlo, mentre si convive con il peso delle scelte fatte. La Terra, al momento, non se la sta passando bene: è vittima del surriscaldamento globale, dello scioglimento dei ghiacciai, dell’innalzamento dei mari e di condizioni atmosferiche letali per moltissimi organismi, nello specifico per gli orsi polari. In Outer Wilds, però, arriva quando il Sole è ormai alle sue battute finali, con l’inevitabile da cui non si può fuggire. Morte, sangue e disintegrazione: la fine sopraggiunge nel momento in cui una nuova vita inizia, proprio come avviene in Don’t Look Up, solo che in Outer Wilds si sono ascoltati gli avvertimenti degli scienziati, c’è stata una sensibilizzazione e in molti si sono prodigati perché certi problemi si risolvessero al più presto, seppure con estrema difficoltà, se non con una speranza disperata per evitare la disintegrazione.

Il mondo di Outer Wilds si aggrappa a una sola speranza, l’unica in grado di salvare la Galassia: l’esplorazione spaziale, la ricerca di una nuova casa e di un posto in cui vivere. La scrittura scelta per descrivere questo dramma, che si focalizza peraltro su temi fondamentali e complessi, è forte e potente, tanto da coinvolgere emotivamente chiunque ci giochi. Non per niente, il team di produzione avverte che, a causa di specifici avvenimenti, qualcuno potrebbe sentirsi emotivamente coinvolto a tal punto da trovare difficoltà a procedere nella scoperta di queste nuove realtà. Utilizzando un metodo narrativo infallibile, ben implementato e ispirato, si ha poi la consapevolezza che là fuori, fra quelle galassie infinite, ci sia qualcosa di unico da scoprire. È un tipo di approccio intelligente, utile e assolutamente ispirato, perché permette di conoscere e approfondire al meglio cosa c’è oltre la conoscenza e le basi stesse dell’esistenza. Lo Spazio, in Outer Wilds, diventa un’ancora di salvezza, una delle poche su cui contare nel bel mezzo del nulla, mentre si avvicina la fine di tutto, con il peso nel cuore di non aver mai vissuto realmente perché non c’è più tempo per farlo. Non ho mai sperimentato cosa volesse dire vedere la propria Galassia completamente sgretolata da un’esplosione massiccia di una stella, ma so per certo che Outer Wilds ha avuto la crudeltà di manifestarlo in modo appassionante.

Potrei citare Deliver Us To The Moon, una produzione che vede la Luna protagonista del nostro passaggio evolutivo. Sarebbe consono menzionare alcuni titoli che si raccontano attraverso la simulazione, scandendo in modo preciso cosa significhi lasciare la Terra, andare per l’Universo e perdersi fra le sue stelle. Marte, in tal senso, è ancora oggi il sogno a occhi aperti per molti scienziati e anche per il magnate Elon Musk, che sogna di mandare missioni in collaborazione con la NASA e l’ESA per studiarne la fisionomia e le caratteristiche. Un piano alquanto complesso che però potrebbe aprire ad ulteriori dibattiti sul passato della nostra casa e soprattutto sulla storia del Pianeta Rosso, ancora oggi una vera e propria incognita.

Quando lo Spazio è paura

L’Universo, per qualcuno, è da scoprire e capire. Molti sviluppatori e game designer, nel corso degli ultimi anni, hanno proposto produzioni che ricalcassero gli orrori dell’infinito e le sue ipocrisie, non capendo esattamente cosa potessero celare. Al contempo, però, qualcosa è cambiato: gli horror spaziali, attualmente troppi nel panorama, hanno raccontato di navi spaziali alla deriva, di creature provenienti da lontano e di bestialità che solo in pochi sanno affrontare.

La prima volta che ho messo piede sulla USG Ishimura ne fui terrorizzato, non essendo più il luogo che ospitava i migliori viaggiatori dello Spazio profondo. Ho impersonato Isaac Clarke, inconsapevole di cosa mi sarei potuto trovare davanti, e accettavo l’idea che niente sarebbe mai stato come prima, né per lui e tanto meno per me. Sono disceso nell’ignoto, ma un ignoto fatto di sangue, morte e di munizione da raccogliere nei corpi dei malcapitati, mentre comprendevo meglio cosa vessi davanti solo in un modo: esplorando, capendo che la nave era ormai dominata da qualcuno che non avevo compreso fino in fondo, e che comunque mi affascinava tremendamente.

Succede quando la curiosità diventa talmente trascinante da risultare appagante solo osservandola: le percezioni mutano, si affinano e si moltiplicano a dismisura, e cominciano a tratteggiare il futuro in modo appassionante e coinvolgente, parlando al cuore delle esistenze comuni in maniera sfaccettata. Raccontare la morte nello Spazio, insomma, è una cosa che affascina chiunque, specie chi è rimasto sospeso nell’ignoto. Dead Space è un’opera scritta con innegabile passione per due generi capaci di affascinare e coinvolgere positivamente chiunque a tal punto da farlo diventare un’icona ancora oggi, garantendosi addirittura un remake da riscoprire con la stessa passione di allora.

Lo ammetto, non ne ho mai avvertita molta in Dead Space, perché ero più concentrato a sopravvivere, tenendo sotto controllo le risorse. In Alien: Isolation, però, è stato totalmente diverso: basta la schermata iniziale per disarmarti, trasmetterti nostalgia e ansia. All’interno della stazione Sevastopol, una volta sotto il controllo della razza umana e poi campo di caccia dello Xenomorfo, ho compreso che ogni mossa repentina o rumore poteva costarmi caro, e ho visitato questo spaccato di follia con distacco, impaurito di conoscere cosa potesse esserci nascosto in quei freddi corridoi una volta illuminato da luci artificiali. Lo Spazio, d’altronde, fa paura per questo motivo e non sai realmente cosa potrebbe esserci pronto a fare la sua comparsa improvvisa. Sai che è necessario sopravvivere, resistere e andare avanti, non fermandoti e continuando il tuo percorso fino alla libertà.

Quando l’Universo coinvolge a tal punto da farti sentire scomodo, in totale balia di te stesso e in continua difficoltà, significa che la migliore opzione è quella di non permettergli di prendere il controllo. Detta così sembra facile ma non lo è per niente, specie in un contesto come quello di Alien: Isolation, in cui sopravvivere è l’unica cosa che conta. L’umanità, a Sevastopol, non c’è più e nessuno è disposto a piegarsi ad etiche morali insulse, che diventano di troppo e persino fin troppo numerose. A nessuno importa della tua debolezza: è la legge del più forte, e arriva anche nello Spazio profondo dopo il disastro della Nostromo.

Un Universo in continua espansione

L’ultima produzione degna di nota è The Callisto Protocol, che al momento ha ottenuto pareri contrastanti dalla critica specializzata. Sto parlando di un titolo con un’ottima grafica, in realtà molto più prossimo agli action veri e propri che al genere horror, dato che non mi ha mai fatto saltare dalla sedia e non mi sono trovato in difficoltà come avrei immaginato. Non è un contesto molto diverso da altri, in realtà, e non è un mistero che Glen Shofield, autore di Dead Space, abbia preferito restare in acque sicure, non prendendosi grossi rischi e continuando il suo percorso immaginifico iniziato ormai quindici anni fa per non tradire la sua creatività. Ad attirarmi grandemente, però, è Starfield, la prossima pubblicazione di Bethesda che sta destando l'interesse di molti appassionati. Non vedo l'ora di scoprirlo a fondo.

La sua ultima epopea spaziale, al netto di qualche difetto, è stata comunque capace di far riaffiorare dei ricordi rimasti probabilmente nascosti nelle memorie di tanti appassionanti. Lo Spazio, come accennato, è ancora in espansione. Non si sa cosa potrebbe offrire, non si è al corrente di cosa potrebbe mostrare e non si è ovviamente sicuri di altro, se non che ormai sta migliorando ogni suo approccio proprio per offrire in futuro delle produzioni certamente meglio sviluppate. È quel tipo di connessione che, al giorno d’oggi, migliora in gran parte le visioni di realtà e mondi ancora da conoscere. Un giorno comprenderemo, non appena ci renderemo conto che Marte sarà solo una tappa in un piano più vasto, che là fuori ci saranno esopianeti da scoprire e sviscerare. La speranza è che non si scopri una razza aliena pronta a disintegrarci. A riguardo, penso che l’umanità ne uscirebbe con le ossa rotta, se non proprio definitivamente estinta. Quindi sì, si guardano gli astri con la stessa meraviglia del passato.

Non andartene docile, in quella buonanotte. I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno; infuria, infuria contro il morire della luce”.

- Dylan Thomas.