Sarà colpa di Zelda se vi siete dimenticati il valore del giocare?

In seguito a tutte le critiche sulle grafica e prestazioni di Zelda: Tears of the Kingdom, cerchiamo di fare un punto della situazione.

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a cura di Raffaele Giasi

Senior Editor

Se rifletto sugli ultimi 30 anni di videogame, mi verrebbe da dire che la strada percorsa è stata indubbiamente tantissima e che, a conti fatti, di acqua sotto ai ponti ne è passata in mucchio. Parlo di 30 anni perché, indubbiamente, da quando è nata PlayStation, certe cose sono cambiate ed è stato proprio il marchio Sony, non nella plastica della prima macchina, ma nella natura della sua narrazione, ovvero nelle modalità in cui il marchio desiderava presentarsi al pubblico, che ha certamente cambiato un po' le carte in tavola, spingendo sia la comunicazione, che l'interesse del pubblico, verso vette che, fino a quel momento, aziende come Atari, Sega e Nintendo si erano solo sognate.

Sega, ad esempio, aveva cercato di venderti la sua console e il suo Sonic facendo comparire in TV il faccione di Gerry Calà, pronunciando claim che, già al tempo, significavano molto poco, anche per una cultura di bambini che guardava, quasi senza restrizioni, film pieni di volgarità, tette e culi, e che aveva un'idea chiara di chi fosse Gerry Calà e del perché fosse famoso. PlayStation, invece, si concentrava su aspetti completamente differenti, tra cui uno particolarmente efficiente fu quello della denigrazione del prossimo, dove “il prossimo” erano le console avversarie, e dove la denigrazione era una aperta, e spesso dichiarata, volontà di dimostrare che la visione di Sony era diversa, era avanti, ed era futuristica.

Primo passo di questa evoluzione fondamentale furono i poligoni e, per la precisione, la costruzione di mondi 3D attraverso l'uso della grafica tridimensionale. Spesso artificiosa, grazie all'uso sapiente di sfondi statici e, talvolta, disegnati addirittura a mano, ma con un effetto complessivo che, rispetto anche al più bel capitolo di Sonic (e Sonic era tanta roba), ti dava l'idea di guardare direttamente nel futuro.

Stiamo parlando di un imprinting tanto forte sulla mentalità dei moderni videogiocatori che, ne sono certo, alcuni di voi ricorderanno certi giochi in una veste molto migliore di quanto non sia stata poi la realtà. Come se il ricordo si fosse proprio distorno, ed avesse applicato a certi vecchi titoli un “filtro realismo” così sofisticato, da aver reso memorabile anche della roba che, a conti fatti, non era così incredibile come si ricordava.

Sarà allora da lì che è partita tutta questa fascinazione per “la grafica”, con un pubblico sempre più vorace di numeroni e performance, tale che a un certo punto si è cominciato a presentare certe componenti dei PC in base ai videogame che potevano far girare. Ma non per qualità oggettiva eh, ci mancherebbe, ma solo perché poi un dato videogame “può girare a ultra”, come se questo poi potesse effettivamente migliorare anche roba mezza deprecabile tipo, chessò, la serie Crysis, che visto il primo visti tutti, e infatti è ormai bella che morta.

Ma divago, scusatemi.

Si parlava della grafica, e quell'esigenza di “fare di più” che poi è sempre stata propria del brand PlayStation. E voglio dire, non è un caso che sia proprio a causa di PlayStation che sia nata la cosiddetta “Nintendo Difference. Che poi, magari, qualcuno mi dirà che non è proprio a causa dello strapotere di Sony sul mercato che il compianto Iwata si sia ingegnato un modo diverso di vedere le cose, eppure tocca ammettere che se forse Sony non fosse esistita, se non avesse preso palesemente per il culo un certo modo di comunicare i videogame, così come di produrli, allora certe scelte forse non le si sarebbe prese e questo, per certi versi, è stato indubbiamente un male.

Pensate, ad esempio, alla Nintendo Difference ed a cosa rappresenta: un'identità precisa, ma anche una precisa direzione aziendale. Architettata da Satoru Iwata nei suoi brillanti anni di CEO di Nintendo, la Difference della grande N stabilisce, in modo chiaro e semplice, che al centro di tutto non c'è l'hardware, non c'è la conta poligonale, non c'è la necessità, il bisogno o la pretesa di conformarsi allo standard imposto dal mercato, ma c'è il giocatore, e quella che è l'unica cosa che conta: farlo giocare.

E voglio dire: sfido chiunque a dire che non sia questo il punto fondamentale della filosofia Nintendo, e che non sia stato questo il motivo per cui, ad un certo punto, avrete visto vostra madre, vostro padre o persino i vostri nonni giocare, o almeno provare a toccare, una Nintendo Wii o un Nintendo DS. Non lo dico io, è un fatto. Lo dicono i numeri macinati da quelle che sono, rispettivamente, la settima e la seconda console più vendute della storia, per altri in tempi non sospetti ovvero quando il videogame era, per certi versi, ancora un argomento di nicchia, per quanto la nicchia spendesse già miliardi e miliardi di dollari in plastica e circuirti stampati.

Viene allora da ridere quando, un po' per caso, un po' forse per moda, ci si rende conto che l'argomento che tiene banco in queste ore/giorni, è quello relativo alle qualità grafiche di Zelda: Tears of the Kingdom. Un gioco che, almeno qui in casa nostra, abbiamo giudicato praticamente perfetto, assegnandogli un sonoro 10/10, pur consci che qualcuno penserà che il voto ricevuto è frutto del più becero markettismo (accusa mai fatta, certo, ma so bene che qualcuno lo starà pensando).

Ben chiaro che qui markette non se ne fanno (e se proprio non ci credete, è un problema solo vostro), la cosa che fa sorridere è approcciarsi a Tears of the Kingdom ignorando del tutto, o quasi completamente, che il titolo di Nintendo altro non è che la più chiara, recente e limpida espressione di quel pensiero di “difference” che si è espresso poco più sopra e che, lo ribadirò ancora una volta, ha consacrato Satoru Iwata come uno dei nomi più illustri e importanti dell'attuale settore del videogioco, al pari solo di quei pochi che, negli anni, oltre a meriti inossidabili hanno avuto anche una visione, come Nolan Bushnell, Clive Sinclair, Gunpei Yokoi o Shigeru Miyamoto.

Tears of the Kingdom, in questo senso, è puro gameplay. Un gioco realizzato con uno scopo, e uno soltanto: divertire e far giocare. E quindi capiamoci, che cosa sta succedendo?

Succede che c'è un mucchio di gente, lì fuori, dentro e al di la del web, che lamenta nel nuovo Zelda una certa pochezza grafica. Un'arretratezza che, a dire di qualcuno, in questo mondo di videogame a 120 FPS e con grafiche che fanno cadere le mascelle non ha senso. E dunque, chiunque dica il contrario, o è un venduto (le marchette di cui sopra) o è un bugiardo, perché considerare Tears senza considerare la console sulla quale è sviluppato è un errore, anzi! Proprio una porcheria, evidentemente figlia della malizia, e di chissà quale regalo foraggiato dalle floride tasche di Nintendo.

E fa ridere e piangere allo stesso tempo, un po' come una battuta così brutta da farti calare in un profondo stato di sconforto e disagio, in quello che oggi come oggi definiremmo “cringe”. La cosa bella è che questa gente, in fin dei conti, ha ragione, ma senza capire veramente il perché. Che Zelda, sì, va considerato per forza in virtù della console sulla quale è stato prodotto, e che quella console – sorpresa – è una Nintendo Switch. AKA l'ultimo desiderio di Satoru Iwata, AKA l'ultima figlia legittima di chi quella Difference se l'era immaginata e voleva consacrarla dopo lo splendido esperimento di Wii.

E Switch, diciamocelo, è puro divertimento. Una console dall'aspetto buffo, il cui pad modulare è chiamato “il cagnolino” per il suo desing stravagante, ed i cui "paddini" (i Joy-Con) sono di colori sgargianti a richiamare l'abbigliamento di Super Mario, che stereotipo o meno dell'italiano panzone, "ueue mamma mia, it's a me",  era e resta un personaggio quasi fuori posto: con la panza, in qualche misura profondamente differente ed anticonformista. E così è Switch, e così è anche Tears of the Kingdom, che sceglie volontariamente di essere al di la di quello che il mercato pensa di volere; che sceglie di fottersene del frame rate, del graficone, e di concentrarsi, ad esempio, sulla direzione artistica, e ancor di più sul suo gameplay, come per altro hanno già fatto titoli che, nel tempo, si sono consacrati per la loro visione simile, se non sovrapponibile, e che proprio dai vecchi Zelda avevano deciso di partire. Un esempio per tutti? Shadow of the Colossus, che oggi come oggi lo si cita di continuo e che, tanto è stato consacrato da ogni fetta del pubblico, da essere diventato una sorta di citazione comoda da tirare fuori quando si vuole dimostrare di capirne qualcosa, come quando, ad un certo punto, chi voleva farti capire che aveva una visione del cinema ti tirava in ballo Tarantino. "Che Tarantino oh, è cinema!", e così Shadow of the Colossus è videogame, e se non lo capisci #stacce. In principio tutto corretto, ma poi è diventata una solfa che ha perso un po' di significato.

Ma sorvoliamo.

Le critiche a Tears of the Kingdom sono critiche del momento, e ognuno ha le sue, questo è certo. E se pensate che questo sia l'ennesimo editoriale che voglia sottolineare quanto esse sia stupide, allora vi state sbagliando, perché ognuno ha i propri giudizi, le proprie convinzioni e, diamine, anche i propri bias, ed ha il diritto pure di tenerseli stretti. A noi, tuttavia, che la critica non la leggiamo ma proviamo a farla, resta il privilegio di provare a spiegarvi le cose, a farvi ragionare, ad intavolare un discorso.

(E credeteci, a volte costa una fatica immensa).

E così, se non è chiaro il perché Zelda sia “brutto come solo Zelda sa essere”, allora se non in termini di “difference”, basterebbe solo provare a pensare a quello che è il valore ludico dell'opera. Al Gioco, con la G maiuscola, che deve sì raccontarti qualcosa, ma non è neanche detto, e forse non è neanche così importante che te lo racconti, o che magari tu ascolti. Si parla del gioco che nasce e cresce solo per il gusto di farvi giocare, ed è indubbio che in questo Nintendo sia maestra, come testimoniano tutti i video strambi, con esperimenti più o meno “priapici” che in queste ore inondano la rete, e che dimostrano come il “prodotto” Tears of the Kingdom sia stratificato ed appagante su così tanti livelli che, volendo, uno può divertirsi persino a sovvertirne le regole, provando a sperimentare più o meno liberamente con la mera esperienza di gioco, al punto che puoi anche “romperlo”, saltando interi pezzi di una mappa o di un enigma semplicemente perché puoi, e va bene così, a Nintendo in primis.

È “giocare,” puro e semplice. E, attenzione, è una roba che ormai non sembra corrispondere più a quello che è il “giocare” di oggi. Almeno non quello degli adulti, dei “gamer”, che sembra debbano per forza avere uno scopo superiore per dare un valore al proprio divertimento, come se poi una roba come Pong o Brick Breaker abbia mai dovuto spiegarti qualcosa della vita per essere effettivamente interessante.

Quello di Zelda, quello che cerca di proporre Nintendo, da sempre, anche con robe che sembrano un attimino più in linea con le richieste moderne e, per questo, forse più competitive (e penso a cose come Splatoon), è del tutto diverso. Perché qui si parla del gioco nato per divertire, per cazzeggiare, per testare i limiti della vostra pazienza, o del vostro coraggio. Del gioco messo su anche mezz'ora, la sera, prima di mettersi al letto o seduti sulla tazza. Del gioco che ha reso grande Pac-Man, o iconico Tetris. Del gioco nella sua forma più pura e, per certi versi infantile, che magari ti dice che è una buona idea incollare insieme due sassi ed un bastone, piazzandoli tra le gambe del tuo robot improvvisato di legno e altre robe, per vedere se Link può colpire i mostri a “randellate” sulla testa.

Che non è una roba che qualcuno aveva sviluppato per te consapevolmente ma, ehi, alla fine se puoi provarci, perché non farlo?

Come una battaglia navale su di un quaderno di scuola, o una palla fatta di giornali e nastro adesivo. E allora forse il problema non è Zelda, ed il fatto che il suo motore grafico vi risuoni come una bestemmia al Dio dei videogame, ma più che altro che vi siete un po' persi tra le schermate che contano frame rate e tra il calcolo esatto dei numeri dei poligoni, dimenticandovi come si gioca e perché val la pena farlo.

Una storia molto triste, che non porta da nessuna parte, e che riecheggia un po' quei racconti grigi e stereotipati dove gli adulti si dimenticano i piaceri dell'infanzia, finendo per vivere tra il grigiore di un'ufficio e la compilazione di un modulo delle tasse. Un po' come quando metti su Star Wars e ti devi sorbire una mezz'ora buona di decisioni parlamentari e mozioni galattiche, domandandoti dove diamine siano finite le spade laser.

Contenti voi.