Videogiochi e violenza: c’è ancora spazio per la polemica?

Si parla ancora spesso del nesso tra videogiochi e violenza: a che punto siamo, oggi, nell'analisi di questa correlazione?

Avatar di Michele Pintaudi

a cura di Michele Pintaudi

Editor

Il videogioco è, oggi più che mai, uno strumento in grado di comunicare a tantissimi livelli: un mezzo capace di intrattenere, coinvolgere, istruire e soprattutto emozionare. Senza limiti. Parlare del videogioco come di una novità è un errore che tuttora sono in molti a commettere: la realtà dei fatti ci mette di fronte a un’entità nata più di 70 anni fa, e che col tempo si è evoluta ancora e ancora fino a diventare ciò che tutti noi oggi conosciamo.

Allo stesso tempo permane, purtroppo, una visione scorretta e fuori fuoco di ciò che questo medium può e può essere per il pubblico di tutto il mondo. Il binomio videogiochi e violenza, insomma, è ancora fin troppo comune anche e soprattutto a causa di un approccio superficiale da parte dei canali di comunicazione generalisti.

Qualche anno fa, a seguito di alcuni fatti di cronaca che molti giornalisti hanno attribuito a un eccessivo utilizzo dei videogiochi, abbiamo voluto analizzare tutti gli aspetti dietro a una credenza errata e peraltro dannosa. Ne è emerso un quadro generale chiaro e semplice: non esiste alcun nesso tra le due parti, e a tal proposito esistono decine di studi e di dimostrazioni pratiche ad avvalorare questa tesi. Ciò che vogliamo fare oggi è cercare di capire se, a distanza di qualche tempo, questa concezione sia cambiata o se la situazione è la medesima: qualcuno è ancora convinto, in breve, del legame tra videogiochi e violenza?

Videogiochi e violenza: dai casi mediatici alla realtà dei fatti

Ripartiamo da dove avevamo cominciato anche la scorsa volta: da una breve “rassegna stampa” che racconta alcune vicende legate al binomio videogiochi e violenza. Tra le notizie più recenti troviamo la brutalità di un ragazzo di appena 17 anni, studente della Matanzas High School di Palm Coast in Florida. Alla decisione dell’insegnante di sequestrargli la Nintendo Switch, il giovane ha reagito con un’immotivata ed esagerata violenza: il pestaggio ha condotto a un’accusa di reato aggravato con lesioni personali, e le immagini hanno velocemente fatto il giro del mondo.

Si tratta di un fatto di cronaca leggermente diverso da quelli analizzati in precedenza, in quanto il videogioco è qui causa della violenza ma in maniera differente. A dirla tutta, è qui ancor più evidente come il legame tra gaming e violenza sia pressoché nullo: l’episodio nasce infatti, evidentemente, da mancanze di altro genere nel ragazzo. In primis, forse, una grossa lacuna in tema di educazione.

L’oggetto che ha scatenato il tutto è una Nintendo Switch, ma poteva essere benissimo uno smartphone o un paio di cuffie: la scelta, da parte di alcune testate americane, di sottolineare come si trattasse di una console denota come e quanto ci siano ancora dei passi avanti da fare. Purtroppo.

Un gesto del genere va condannato e, nelle sedi competenti, vanno analizzate le ragioni di comportamenti che non hanno assolutamente senso di esistere. Non va però condannato il medium: per quanto si possa essere legati a un videogioco, è bene infatti ricordare come si tratti di una forma di comunicazione e di intrattenimento. Ciò che la rende “pericolosa” è dimenticarsene, iniziando a concepirla non più come passione ma come ossessione.

La soluzione? A suo tempo l’ex Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ne aveva proposta una che, ripensandoci oggi, rende perfettamente l’idea del personaggio che il mondo ha imparato a conoscere:

Dobbiamo fermare la glorificazione della violenza nella nostra società. Questo include i videogiochi violenti che sono ora molto comuni. È molto facile per i giovani problematici circondarsi con una cultura che celebra la violenza. Dobbiamo fermare la cosa, e deve essere fatto immediatamente.”.

La gravità di una dichiarazione del genere sta non tanto nell’opinione personale, peraltro non sostenuta da fatti o evidenze che possano reggere in termini teorici e pratici, ma nel fatto che sia portata avanti da una persona con un’autorità e una posizione troppo importante per promuovere messaggi di questo tipo. Di conseguenza, troviamo decine e decine di casi di giornalisti e politici di un particolare schieramente pronti a far fuoco contro videogioco e videogiocatori.

Marcus C. Evans, membro della Camera dei rappresentanti dell'Illinois, è uno di questi. Preoccupato per la crescente criminalità in quel di Chicago, un paio d’anni fa Evans avanzò una proposta: togliere dal commercio tutti i videogiochi violenti, multando con 1000 dollari negozi e distributori che li continuino a mantenere in catalogo.

Dobbiamo davvero spiegare quante cose sbagliate ci sono in una frase del genere? Andiamo per punti:

  • Togliere dal commercio determinati titoli significherebbe togliere lavoro a decine di migliaia di sviluppatori e non solo, provocando una crescita non da poco in termini di disoccupazione;
  • Il pubblico ha dimostrato di apprezzare prodotti del genere, e l’assenza degli stessi porterebbe a una spesa minore e quindi a una lieve ma comunque significativa flessione economica soprattutto se, per ragioni di coerenza, si andasse a sviluppare il punto seguente;
  • Rimuovere dal mercato i videogiochi considerati violenti creerebbe un precedente pericoloso: non sarebbe forse giusto, a quel punto, vietare anche film, serie TV e magari persino libri e canzoni che possano veicolare un certo tipo di messaggio?
  • Considerando quanto un negozio possa guadagnare dalla vendita di un titolo “violento” come GTA V, una multa di 1000 dollari può rappresentare una cifra assai irrisoria.

In poche parole no, non è assolutamente pensabile portare avanti un’idea simile. Fortunatamente la cronaca ci mostra anche un’altra faccia della medaglia, capace di restituirci fiducia e di strapparci un sorriso in vista di un futuro in mano alle nuove generazioni. In un recente articolo pubblicato sul sito de Il Resto del Carlino, la testata emiliana ha voluto dar voce ai ragazzi della scuola media di Roncofreddo: ne è uscito un bel quadro dove, ognuno con la sua opinione, gli studenti hanno concordato su un bel messaggio che ben riassume la giusta concezione del tutto.

Se un’opera è considerabile violenta, in breve, è bene educare e non censurare. La violenza è infatti parte della vita di tutti i giorni, e mostrarla all’interno di un prodotto che comunque richiama la finzione è un’operazione con finalità educative. Puntare il dito e privare il mondo di quelle che, in molti casi, sono delle vere e proprie opere d’arte sarebbe a suo modo un atto di violenza: se milioni di persone riescono a divertirsi in maniera sana e genuina con titoli come GTA, DOOM e Call of Duty, insomma, perché mai toglier loro qualcosa che ormai è parte integrante della più normale quotidianità?

Videogiochi, violenza e soggettività

Dopo aver dato un’occhiata a quella che è oggi la percezione della stampa, passiamo ora a uno sguardo maggiormente accademico sul filo che legherebbe videogiochi e violenza. Negli anni sono infatti nati e cresciuti moltissimi gruppi di ricerca volti ad analizzare, da un punto di vista sociologico e soprattutto psicologico, se e come la relazione tra le due parti vada effettivamente a esistere.

Tra i tanti studi a disposizione del pubblico ne abbiamo selezionati un paio che, a nostro avviso, risultano particolarmente esplicativi. Il primo risale al febbraio 2019, ed è figlio di un gran lavoro di Andrew K. Przybylski e Netta Weinstein che risponde al nome di Violent video game engagement is not associated with adolescents' aggressive behaviour: evidence from a registered report. Una pubblicazione finita sui canali della Royal Society Publishing, che va ad analizzare un largo campione di adolescenti inglesi al fine di comprendere l’entità di questo legame. Il risultato finale, a seguito di uno studio costante su comportamenti e atteggiamenti dei soggetti, riporta come i genitori dei ragazzi non abbiano notato evidenze in questo senso.

La piccola percentuale di persone che ha riportato un aumento dell’aggressività, d’altra parte, sottolinea come la stessa dipenda da fattori estranei all’esperienza videoludica in sé. Come prevedibile, insomma, sono tantissimi gli elementi da tenere in considerazione nello studiare e nell’imputare un determinato comportamento. Che sia esso estremamente negativo, ma anche e soprattutto positivo.

Ed è proprio questo il focus del secondo studio che vogliamo portare come esempio, una pubblicazione a cura di Werner H. Hopf, Günter L. Huber e Rudolf H. Weiß dal titolo Media Violence and Youth Violence. L’articolo, presente nel numero di gennaio 2008 del Journal of Media Psychology, mostra come già in un’epoca dove l’intrattenimento era presente in maniera molto meno marcata ci fosse già forte interesse nella tematica. 

Fruire di un determinato tipo di contenuto, insomma, porta necessariamente all’emulazione di comportamenti di un certo genere? No, assolutamente no. Bisogna infatti tenere conto di tantissime variabili di natura sociale, familiare, di istruzione e persino economica: l’insieme di questi elementi darà vita a un ambiente nel quale il soggetto, rispondendo agli stimoli della società a cui appartiene, si troverà ad agire in un modo piuttosto che in un altro.

Detto in parole povere: il nostro comportamento non è causato da ciò che guardiamo, giochiamo o ascoltiamo, ma dal contesto in cui la nostra vita si svolge ogni singolo giorno. “È colpa dei videogiochi”, insomma, è una delle cose più sbagliate che si possano dire.

In conclusione va comunque detto che, nonostante demonizzare il medium videoludico sia un errore dettato da una forte superficialità, è allo stesso modo scorretto banalizzare il tutto: esistono infatti anche molti effetti negativi che possono scaturire dal videogioco, ma si tratta di aspetti che vengono alla luce a seguito di un abuso dello strumento stesso. Come per ogni cosa è l’esagerazione a provocare un problema: trovare il giusto compromesso su come, quanto e quando giocare permetterà a chiunque di vivere in maniera sana ed equilibrata quella che, a conti fatti, è una delle esperienze più appassionanti che esistano. In assoluto.