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a cura di Lorenzo Quadrini

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La questione della localizzazione dei videogiochi in Italia è tra i grandi classici delle discussioni da bar degli appassionati del settore. Senza accendere nuovi focolai di polemica, i punti di vista a riguardo si dividono tra i sostenitori della traduzione costi quel che costi, gli accaniti difensori del prodotto "vergine" e anche i più pragmatici seguaci della legge di mercato. Chiaramente il discorso è molto più complesso, ma questo articolo, più che spiegare perché un gioco venga o non venga tradotto, cerca di fornire un punto di vista diverso, che arrivi a capire se la traduzione in sé per sé sia davvero un beneficio.

Lo spunto di riflessione, con un dovuto parallelismo, parte da un bellissimo articolo pubblicato su Il Post, riguardante le pessime conseguenze delle traduzioni sbagliate nella lingua italiana, soprattutto nell'italiano dedicato alla commercializzazione audiovisiva. Il concetto, appiattito in poche parole, è che esigenze di economia e di tempo portano ad un calo clamoroso nella qualità generale dei lavori di traduzione, sia dal punto di vista dell'interpretazione che della rielaborazione linguistica. In più, lungi dall'essere un vantaggio per la lingua natìa, il risultato di voler avere a tutti i costi una traduzione porta  a un vero e proprio imbarbarimento grammaticale, oltreché la solita difficoltà ad apprezzare il vero valore dell'opera nella sua forma originale. Chiaramente il mondo letterario e cinematografico seguono strade fisiologicamente diverse da quella di cui ci occupiamo in questa sede, vuoi per questioni di tradizione, vuoi per questioni di accesso e fruibilità.

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Far Cry 5 è un raro esempio di ottima localizzazione

Andando con ordine: innanzitutto va delineata la situazione delle localizzazioni nel Bel Paese. Come tutte le cose, siamo di fronte tanto a prodotti buoni, quanto a prodotti scadenti. Spesso e volentieri le localizzazioni, sia delle software house più importanti, che di quelle meno facoltose, risentono di un certo lassismo, in particolare per quanto riguarda il testo scritto, lasciando correre ad una traduzione meramente letterale che, proprio per tornare al discorso del paragrafo precedente, è negativa in toto. Ma se, almeno per quel che concerne il primo impatto, un testo scritto, pur con le sue magagne, impensierisce poco il giocatore meno esigente, un pessimo doppiaggio rovina completamente l'esperienza videoludica, portando a risultati disastrosi.

Tutti ricordano il terribile King's Field IV, ultimo precursore della saga dei Souls, titolo tra l'altro di buon spessore ma squassato da un'interpretazione tragicomica. Nel novero tantissimi altri titoli, giusto per dovere di cronaca è bene riportare Ape Escape, Oblivion, Syphon Filter e via discorrendo. Generalizzare è sempre sbagliato, ma indubbiamente lo sforzo di poter avere, in tempi rapidi, una traduzione completa di un prodotto contenente migliaia e migliaia di parole non è da tutti.

Non solo, ma rischia in ogni caso di comportare una trasposizione fondamentalmente scorretta dell'opera, in particolare nel caso di videogiochi con particolari riferimenti culturali. Ancora più odiose poi le traduzioni amatoriali, che quando sono di pregevole fattura ricevono il semplice plauso delle software house (ma ricordiamo che la traduzione è un lavoro, ed anche faticoso, ragion per cui andrebbe sempre retribuito), e quando non lo sono non fanno altro che aumentare il divario tra pubblico e contenuto del prodotto.

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Qual è quindi il punto della disamina? Abbastanza semplice: la storia del videogioco presenta chiaramente alti e bassi anche per quel che concerne la localizzazione, ma non bisogna sottovalutare l'importanza che il testo, o il doppiaggio, rivestono nella cultura videoludica. La lingua non è solo un veicolo di maggiore fruizione del prodotto, la lingua è un contenuto imprescindibile, il cui valore va tenuto in grande considerazione. Il senso del videogioco, il suo potere culturale (ed anche educativo) va preservato e protetto, soprattutto in un periodo storicamente adatto come questo.

Fortunatamente, al contrario di quanto successo per il cinema, il pubblico nostrano ha sviluppato una buona tolleranza alla lingua originale (che è prevalentemente l'inglese) e questo trend, lungi dall'essere interpretato come sintomo di scarsa importanza nei confronti del nostro mercato, è il segno di una notevole maturità. Le conseguenze di questo percorso, se rimarrà tale, non possono essere che positive, poiché comporteranno una maggiore attenzione al valore del contenuto, al suo eventuale peso concettuale e ad una fruizione più onesta dell'opera (nonché alla salvaguardia della lingua nel nostro amato medium).

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Al netto delle scelte di mercato, che vengono operate aprioristicamente dalle software house e che portano a un discorso completamente diverso (basti ricordare le parole dure ma oneste di Gordon Van Dyke di due anni fa), il videogioco è destinato in Italia ad essere sempre meno localizzato. Questo perché il pubblico si sta abituando alla lingua originale, sta crescendo e non ha grossi problemi ad affrontare l'inglese (e meno male!).

La seconda considerazione è diretta conseguenza del fatto che questo articolo non vuole assolutamente esortare all'abbandono della localizzazione, ma solo spingere nella giusta direzione, che è quella della lingua originale o delle traduzioni a regola d'arte, capaci non solo di riportare il mero dato letterale, ma al contrario di integrare il contenuto artistico, il riferimento culturale, nel giusto contesto linguistico. In tal senso non si può non menzionare l'eccellenza nostrana rappresentata da Kenobit, artista della chiptune e formidabile traduttore, il cui egregio lavoro si può notare in titoli quali Far Cry 5 o il bellissimo Thimbleweed Park, per il quale il lavoro di trasposizione necessitava di un'opera di adattamente fuori dal comune.


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