Wild Hearts: EA lancia il guanto di sfida a Capcom! Ce la farà? | Provato

Abbiamo messo mano al codice finale di Wild Hearts e siamo pronti a raccontarvi le nostre prime impressioni sul "mostruoso" guanto di sfida di EA a Capcom

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a cura di Raffaele Giasi

Senior Editor

Annunciato ormai qualche tempo fa, ma rimasto ammantato da un fitto alone di mistero fino alle battute finali del suo sviluppo, Wild Hearts è un titolo che si rivolge apertamente a una certa frangia di giocatori, sfidando sul campo quello che è uno dei mostri sacri degli hunting game, se non il vero e proprio capostipite del concetto di “caccia grossa digitale”, ovvero sua maestà Monster Hunter. Quest'ultimo è per altro da pochissimo tornato alla ribalta, dopo due anni di esclusiva Switch, con l'ottimo Monster Hunter Rise, in quello che è un porting non solo attesissimo ma, come vi ho raccontato qualche settimana fa, a dir poco ben fatto.

Wild Hearts, dunque, arriva su console a pochissimi giorni dall'uscita del suo aperto rivale, non si sa bene se per sfida o per... sfiga, in quella che è una mossa che, onestamente, ci ha rincuorati non poco, perché dimostra se non coraggio, quanto meno una certa sicurezza, che forse si ostenterebbe solo se le cose sono fatte davvero a modino, che poi è quello che ci si augura, visto che qui si stravede per la serie Capcom, e la presenza di un nuovo rivale fa piacere. E manco poco.

Il senso della sfida

Per quel che riguarda voi, che magari non siete pratici di Monster Hunter, va chiarito un attimo come stanno le cose, perché questa sfida tra il vecchio e il nuovo potrebbe suonarvi indifferente, se non proprio inutile, come si potrebbe confare a un derby tra due squadre di quarta categoria. Ma non è così. Tipo zero. Per niente.

Nella realtà dei fatti, Monster Hunter è infatti la seconda serie più profittevole nell'intero apparato di Capcom, seconda solo a Resident Evil, e addirittura davanti Street Fighter. Parliamo, infatti, di una serie che, stando all'azienda, ha venduto ad oggi la bellezza di circa 88 milioni di copie in tutto il mondo, entrando di diritto tra i big e, pertanto, dovreste immaginare l'arrivo di Wild Hearts un po' come se, di punto in bianco, qualcuno decidesse di sfidare una IP di spessore come Halo (circa 80 milioni di copie in tutto il mondo), ma con in più lo svantaggio di giocare su di un campo in cui, in effetti, altri competitor non ce ne sono, giacché c'è Monster Hunter e basta nel panorama degli action hunting game, o come diamine li si voglia chiamare.

Insomma, non parliamo di una sfida da poco, motivo per cui Wild Hearts (anche e soprattutto perché sono un fan di MH) ha raccolto il mio interesse, sia ludico che professionale, e portando a chiedermi: “ma come te lo porti a casa un risultato simile?”. Una domanda che, certamente, si saranno fatti anche in casa EA, e giacché la risposta più logica sarebbe “chiedi a chi ci ha già provato”, ecco che a lanciare il guanto di sfida si presenta Omega Force, team in seno a Koei Tecmo che, magari lo ricorderete, aveva già sfidato Capcom al suo stesso gioco con la serie Toukiden, raccogliendo consenso alterni, per poi amaramente arenarsi un secondo capitolo che, complice una svolta inaspettatamente open world, si rivelò un po' al di sotto delle aspettative.

A questo punto la domanda cambia: “Per una sfida simile avrebbe senso chiedere a chi l'ha già persa?”. La logica direbbe di no, ma forse in questo caso l'esito potrebbe essere diverso... almeno sulla carta.

I buoni propositi

Sulla carta, infatti, oltre a un mucchio di buoni propositi, c'è anche il vecchio paradigma del “impara dai tuoi errori”, ma soprattutto quello “studia il tuo nemico”, che Omega Force sembrerebbe aver applicato molto bene, almeno a vedere la data di inizio dei lavori a questo gioco, più o meno conseguente all'arrivo sul mercato dello strepitoso Monster Hunter World. Oltre, però, c'è forse anche un po' di “visione”, ovvero un qualcosa che a Toukiden, come serie, sembrava mancare da sempre, e che invece Wild Hearts sembra avere anche grazie al suo Producer, per altro uno degli uomini chiave di Koei Tecmo, ovvero Yosuke Hayashi, che magari qualcuno ricorderà per la sua stretta connessione alla serie Ninja Gaiden.

Un caso in cui una sola persona, almeno alle apparenze, è in grado di fare una differenza enorme nello sviluppo di un videogame: Hayashi, infatti, non è uno sviluppatore qualsiasi, ma un uomo di profonda esperienza, che ha maturato la propria abilità sul campo assieme a Tomonobu Itagaki, in quel che fu il Team Ninja. Parliamo di uno sviluppatore che ha una grande competenza nel campo degli action, adrenalinici e coreografici e questo, credetemi, si denota subito mettendo mano al pad di Wild Hearts, specie se si è freschi di una nuova run al Monster Hunter Rise di Capcom appena arrivato su PS5 e Series X/S.

Wild Hearts, infatti, è un titolo che si presenta subito con una certa frenesia, senza quelle “legnosità” che spesso scoraggiano i giocatori che cercano di approcciarsi a Monster Hunter ma che, come un Ninja Gaiden a caso, nasconde sotto la superficie anche tanta tecnica, e richiede, per questo, una lunga pratica di armi e moveset e questo, già solo in questa fase iniziale, ci piace moltissimo.

Ma c'è di più, perché Wild Hearts si propone anche con una curiosa introduzione, che pare in parte ispirata da Fortnite, ma che in realtà ha poi ben poco a che fare con lo shooter di Epic Games, se non forse il concetto di “costruzione”. Il gioco, infatti, ha dalla sua una meccanica inedita chiamata “Karakuri”, che consiste in oggetti che possono essere creati da zero, e istantaneamente, con la combinazione del tasto L1, e di uno dei quattro pulsanti frontali del controller.

Al costo di “filo”, un materiale reperibile in quantità considerevole su ogni mappa, ed estraibile direttamente (tasto L2) da rocce e alberi, il nostro personaggio potrà costruire oggetti semplici, come ad esempio casse o torce, da utilizzare a proprio vantaggio in combattimento, ma anche costruzioni più complesse, come ad esempio fucine e tende, che torneranno invece utili per la creazione di accampamenti sempre più ricchi per prepararsi al meglio, il tutto in base a un albero costante che, similmente ad un albero di abilità, potrete divertirvi a scoprire, e che lascerà spazio anche a molte soddisfazioni.

I Karakuri di base possono poi persino essere aggregati, sovrapponendoli in specifiche e predeterminate combinazioni che danno luogo a strutture più complesse, come ad esempio cancelli, razzi, bombe e molto di più, in quello che è un sistema di sviluppo che, in fase di stesura di questo articolo, si è solo scalfito e poco più, e su cui torneremo più in là.

Per ora, possiamo dire che i Karakuri funzionano. Almeno nelle fasi iniziali del gioco è così, ma è impossibile dire in questo momento se la meccanica sia il vero e proprio selling point del titolo, perché per quanto sia stata pubblicizzata, e sia – ovviamente – la differenza fondamentale tra questo titolo e Monster Hunter (perché, lo ripetiamo, il competitor è quello e basta, c'è poco da girarci attorno), i Karakuri sono davvero tantissimi, così come tanti sono i mostri e le situazioni di gioco. Indubbiamente, ad ora, Wild Hearts ci ha offerto qualche bella occasione di metterli alla prova in modo dinamico e spettacolare permettendoci, ad esempio, di invocare un gigantesco cancello di acciaio per farci scudo della carica di un mostro particolarmente grosso, ma quel che stabilirà se la dinamica funziona o meno è il medio e lungo termine. Ovvero quando, passate già un po' di ore, i Karakuri saranno (o meno) assorbiti dal giocatore, che li userà effettivamente nel proprio moveset... o magari no.

Questo perché, trattandosi comunque di oggetti di supporto, non sono comunque, almeno nelle prime ore, una netta svolta nel favorire la vittoria del giocatore che, specie se arriverà al gioco con alle spalle una forte esperienza con Monster Hunter, potrebbe trovarsi più a suo agio con le sole armi e poco più. Una questione che per un titolo simile, che ha praticamente un solo competitor, e un grande pubblico a cui rivolgersi (diciamolo ancora una volta: oltre 80 milioni di copie), non può essere sottovalutata.

Chiarito questo, un piccolo appunto, visto che in merito si è ancora taciuto: ma questo articolo qui che roba è? Ebbene, non è una recensione, è semmai un prolungato hands on, basato sulla versione finale del gioco, e da cui ci è stato permesso di esprimere un parere iniziale su quello che è Wild Hearts, giusto poco prima che arrivi la review vera e propria. Prendetela, insomma, per una “pre-recensione”; un gruppo di pensieri maturati dopo le prime 10 (e poco più) ore di gioco, passati a sperimentare con armi e mostri nel corso del capitolo 1 del gioco.

Per il mio parere finale, vi toccherà aspettare, invece, il prossimo 16 febbraio ma, intanto, se siete nel dubbio sull'acquistare o meno questo titolo, diciamo che questo articolo può essere un punto di partenza ideale, perché in esso ci troverete sì un'impressione galvanizzata dalle primissime ore di giocato, ma anche qualche perplessità che, si spera, verrà poi contraddetta al momento del giudizio finale.

Le piacevoli sorprese

Se c'è una cosa che colpisce di Wild Hearts è, anzitutto, il suo splendido ed iniziale colpo d'occhio. Il mondo di gioco, infatti, è ricco e vibrante, e si vede che il team ha guardato con un certo interesse agli sviluppi del franchise concorrente di Monster Hunter, maturando comunque una propria direzione su quelle che sono le fondamenta dell'ormai defunto Toukiden.

Diviso in 5 mappe differenti, ognuna delle quali è caratterizzata in base a un tema portante (e stagionale, in modo che palesemente esse richiamino a differenti momenti dell'anno), Wild Hearts offre al giocatore delle mappe aperte e molto ampie, amplificando quella che era la percezione che si poteva avere con Moster Hunter World in cui, proprio le mappe di gioco e i rispettivi diorama, davano il benvenuto ai giocatori in un'esperienza ludica che non si basava solo ed esclusivamente sui combattimenti, ma anche sulla ricerca, l'esplorazione e “la caccia”, intesa come la necessità di dover rintracciare i mostri nei loro diversi habitat.

Ebbene, in Wild Hearts tutto questo c'è, seppure con modalità diverse, e tutto funziona abbastanza bene, offrendo al giocatore una bella immersività ma, soprattutto, un ottimo senso d'esplorazione, con mappe che sono ancor più vaste e variegate di quanto non si sia visto in casa della concorrenza.

C'è spazio per tutto, con una verticale dei livelli che, spesso, è a dir poco vertiginosa, e che permette al giocatore di sperimentare con la costruzione dei Karakuri a patto, ovviamente, che si abbia la pazienza e la curiosità di guardarsi intorno, senza necessariamente puntare dritti verso la propria preda.

Il mondo di gioco, insomma, è una componente fondamentale di Wild Hearts, ed è francamente un sollievo, anche perché la vastità delle mappe e la loro incredibile variegatura, contribuiscono non poco a tenere alta l'attenzione, complici un mucchio di collezionabili disseminati in ogni ambiente, la cui raccolta è tutto, fuorché superflua. Ma questo, per ora, lo rimanderemo alla recensione finale.

Quel che possiamo, e val la pena dire adesso, che a stupire è anche il sistema di combattimento, e su questo mi dilungherò volentieri anche in questo stesso articolo. Ma prima le basi: Wild Hearts si propone con un bestiario davvero molto interessante che, anzitutto, non si ispira specificatamente ad alcun folclore, ma guarda invece al mondo animale, con mostri che altri non sono che versioni gigantesche ed elementali di comuni animali selvaggi, come scoiattoli, cinghiali, corvi, scimmie e lupi. Queste creature, chiamate Kemono, sono spesso immense, e godono di poteri elementali che non solo le rendono avversari spesso formidabili, ma offrono loro anche la capacità di modificare, seppur momentaneamente, il terreno di combattimento, evocando pozze infuocate, spargendo linfa sul terreno, o creando delle zone venefiche.

Seppur raffiguranti creature esistenti, i Kemono sono inoltre splendidi da vedere, e spesso palesano la loro natura elementale già a una prima occhiata, con escrescenze fungine, schiene fiammeggianti, o aliti velenosi che ne caratterizzano i tratti, spesso molto naturali, talvolta a dir poco mostruosi, in quello che è un character design pregevole, che non inventa nulla, certo, ma che fa il proprio lavoro in modo egregio e che, anzi, fornisce spesso un colpo d'occhio gratificante per il giocatore, specie quando le creature sono alte un paio di piani... se non di più!

A convincere è anche la varietà dei moveset delle bestie, sempre molto aggressive, che giustificano quella che è la “svolta” decisamente action che caratterizza le armi del giocatore, apparentemente molto comuni, come katane, martelli, archi e spadoni, ma impreziosite da movimenti coreografici e talvolta esagerati, che quasi spiazzano se si è fortemente abituati a quello che è invece il moveset tipico della serie Monster Hunter.

Wild Hearts, infatti, punta palesemente a tenere il giocatore costantemente su di giri, galvanizzato non solo dall'ottima mobilità delle armi, che quasi sempre permettono un buon (e ampio) controllo del campo da gioco, ma anche dei Kemono, che non si prestano mai volentieri alle botte dei giocatori e, anzi, danno non poco filo da torcere anche a squadre da 3 o 4 persone, persino quando queste sono tanto a loro agio con le armi, quanto con l'utilizzo combinato dei loro Karakuri.

Qui, in soldoni, si percepisce tutta la mano che Omega aveva ereditato non solo da Toukiden, ma anche da titoli ben più chiassosi come Dynasty Warrior sebbene, è doveroso dirlo, Wild Hearts è un hunting game a tutti gli effetti e, in quanto tale, sa essere ostico, se non punitivo, con quanti non affronteranno le sfide proposte col giusto piglio e, ovviamente, con un mucchio di farming alle spalle.

Insomma: tanta azione e mobilità non significano affatto una semplificazione della formula che ha reso Monster Hunter quello che è, semmai siamo qui spettatori di una piacevole e riuscita variazione del tema, là dove non era riuscito Toukiden, proponendosi, specie col suo secondo capitolo, come un titolo troppo in controtendenza con la sua ultima formula “ruolistica”. Wild Hearts sceglie di seguire sì il battuto di Capcom, ma aggiungendo alla formula un proprio stile specifico, che si traduce non solo nei moveset delle armi, o nel solo complesso faunistico, ma nella summa dell'insieme, con singole parti che, se da sole significherebbero poco, nel complesso fanno invece una bella differenza e questo, ovviamente, è bene.

Ovviamente, ci sono anche in questa fase delle cose che richiederebbero un'aggiustamento del tiro ma, per quel che ci riguarda, pensiamo sia più logico parlarne in fase di recensione quando, cioè, potremo tirare le somme con ben più ore di giocato alle spalle e, soprattutto, dopo aver provato l'intero movest di armi che, per forza di cose, non è possibile nel solo primo capitolo del gioco.

I primi dubbi...

Il problema di Wild Hearts, dunque, non sta certo nelle armi, nei mostri, o nel complesso bioma messo in piedi da Omega. Semmai, ad ora, gli aspetti in cui il gioco non ci ha convinti del tutto sono quelli che – sorpresa sorpresa – ci avevano già lasciati perplessi in fase di anteprima, quando il titolo si era mostrato al pubblico dopo anni di strettissimo riserbo.

Il primo, lapalissiano, e quasi inaccettabile nel 2023, è il profilo tecnico. Wild Hearts, al netto di una bellissima ed ispirata direzione artistica, tanto buona da non farci percepire quel senso di “deja vu” che potrebbe derivare dall'aspetto nippofilo già visto in MH Rise, è un titolo tecnicamente datato e sporco, spesso proprio minato dalle sue stesse ambizioni tecniche. Molte texture sono sciatte e malmesse, e gli effetti luminosi, particellari e atmosferici sono di rara bruttezza. Addirittura, capita spesso che in certe zone del gioco gli effetti luminosi si prendano così sonoramente a schiaffi tra di loro da pregiudicare la visibilità dello schermo e questo non solo è sgradevole in fase di esplorazione, ma è proprio fastidioso in fase di combattimento, quando situazioni già caotiche messe in piedi dai Kemono richiederebbero, come è giusto che sia, il massimo della pulizia a schermo.

Così non è, ed anzi a volte ci si ritrova proprio a imprecare, se non i Kemono, il codice del gioco.

La situazione è straniante, e richiede decisamente una patch, quanto meno al day one, ma ci riserviamo di smanettare ancora un po' con le impostazioni di gioco per verificare quanto provato sino a ora visto che, come spesso si confà ai più recenti titoli console, anche Wild Hearts gode di diversi possibili settaggi per grafica e performance, con anche la possibilità di modificare colori, saturazione e punto del bianco in modalità HDR. Per ora, tuttavia, è davvero improbabile che si verifichino miracoli.

Per quanto riguarda invece il secondo, e spinoso, punto, ovviamente non potevano che esserci i già citati Karakuri, visto che si tratta sì di una meccanica interessante, capace da sola di svecchiare un genere, ma vien da domandarsi quanto poi essi funzioneranno sul lungo termine. Ad ora, francamente, diremmo che i Karakuri funzionano e sono ben implementati, ma è anche vero che il nostro è un approccio che, per ora, ha dovuto favorire le armi bianche alla strategia costruttiva, a causa dei limiti imposti dallo sviluppo in game, che non ci hanno offerto ancora molte possibilità di divagare in termini di costruzione.

Magari il limite è stato di chi vi scrive, che da sempre preferisce in questi giochi un approccio “raw damage”, fatto di botte, salti, schivate e ben poca strategia, tuttavia non temete: in sede di recensione metterò in chiaro una volta e per tutte se il sistema escogitato da Omega Force val l'attesa che ha generato e se, in sintesi, funziona come dovrebbe.

Here comes a new challenger...?

In chiusura: Wild Hearts è un titolo che si presenta decisamente bene, almeno nelle idee ma che, per quel che abbiamo visto, ha ancora molto di sé da dire prima che lo si possa considerare un eventuale successo. C'è da dire che già il solo comparto tecnico, spesso del tutto incapace di dare sostanza a quella che è invece una bellissima direzione artistica, e un ottimo level design, farebbe sperare di rivedere il gioco tra almeno un mesetto ovvero, quanto, verosimilmente molte delle magagne tecniche saranno sistemate dalle doverose patch. Per ora, tuttavia, val comunque la pena non pensarci, visto che la base di partenza, almeno dal punto di vista del gameplay, ci è parsa solida e variegata, prestandosi a variazioni che, anche da chi è abituato ai “monster games”, suonano come delle piacevoli novità e questo, francamente, non solo era auspicabile ma, per certi versi, inatteso.

Riuscirà, insomma, EA a battere Capcom al suo steso gioco? Ne riparliamo tra qualche giorno.