Wild Hearts | Recensione - La sfida a Monster Hunter

Forte dell'esperienza maturata con Toukiden, EA e Koei Tecmo sfidano Capcom sul campo degli hunting game con Wild Hearts.

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a cura di Raffaele Giasi

Senior Editor

Dopo ore e ore di battaglie, e con ai piedi un nugolo di carcasse di mostri, alcune delle quali mi sono costate non poca fatica, eccoci qui pronti per parlare di Wild Hearts, ovvero di un titolo che, al netto di qualche titubanza da parte del pubblico “di massa”, arriva in realtà sul mercato con uno scopo davvero molto ambizioso e, per questo, indubbiamente meritevole della nostra attenzione, visto che alle spalle del progetto non c'è un'azienda qualunque, ma addirittura Electronic Arts, in partnership con Koei Tecmo, ed il suo team Omega Force.

https://www.youtube.com/watch?v=g630LI4X2-Q&t=3s&ab_channel=GameDivision

Di che scopo si tratta? Di sfidare, e possibilmente battere, quello che è un titolo che è diventato, in anni ed anni di assoluto predominio, uno dei brand più venduti di sempre, e certamente uno dei più profittevoli di casa Capcom, ovvero Monster Hunter che, forte di un dominio pressoché assoluto sul genere degli “hunting game”, si propone come un'esperienza ruolistica per certi versi unica, e da anni capace di battere qualsiasi forma di concorrenza.

Insomma, non proprio una sfida di serie B, e giacché chi vi scrive è un grande fan di Monster Hunter (specie perché, come scrissi qualche tempo fa, si tratta di un gioco che mi ha dato non poco conforto in un momento molto difficile di questi anni tra guerre e pandemie), è ovvio che non si vedeva l'ora di affilare la propria arma, e di battere i sentieri di caccia imbastiti da EA e Omega Force, con in testa, ovviamente, una sola domanda: ce la farà Wild Hearts a competere degnamente, se non proprio a battere, una bestia sacra del calibro di Monster Hunter, o finirà per fare compagnia, nel dimenticatoio, a brand come Toukiden (per altro sempre di Koei Tecmo) e Dauntless?

Scopriamolo!

Japan be like...

Ambientato nel mondo di Azuma, fortemente influenzato dalle reminiscenze di un Giappone feudale ben oltre le soglie del fantastico, Wild Heart - lo dico subito - non brilla certo per eleganza narrativa, pur caratterizzandosi come un prodotto interessante e coinvolgente, forse solo minato da qualche dialogo un tantinello troppo prolisso. Nei panni di un forestiero, un cacciatore dall'animo ronin persosi tra le montagne circostanti, e sfortunatamente attaccato da un “Kemono” mostruoso e violento dalle fattezze di un lupo, il gioco ci porterà ben presto al centro di un racconto che ci vorrà eroi, se non proprio salvatori, della città di Minato.

Una cittadina sul mare, protetta da una conca montuosa, i cui abitanti vivono in abitazioni a metà tra la rievocazione storica e il retro-futuristico, con alcune strutture, in realtà, tecnologicamente avanzate, ma costruite in legno e filo magico luminescente. Qui, la brava gente del posto, vive una vita, tutto sommato, serena, protetti come sono dalle montagne circostanti, che fanno scudo dalle sempre più invasive influenze dei Kemono. Queste bestie, infatti, assorbono la propria energia dagli habitat in cui vivono, e dispongono di poteri elementali che permettono loro non solo di trasformarsi in minacce inarrestabili, ma anche di modificare a piacimento l'ambiente circostante di modo che si adatti alle loro esigenze.

Normalmente pacifici, i Kemono vivono di recente un momento di rabbia incontrollabile che, per ora sfogatasi solo ai margini di Minato, si sta avvicinando sempre più al cuore della città. Priva di difese, se non naturali, e senza cacciatori degni di questo nome, Minato si troverà quindi ad affidarsi a noi, impavidi (e forse un po' sfigati) cacciatori, anche e soprattutto grazie al nostro controllo del potere del “Karakuri”, fortunatamente rinvenuto dopo la nostra prima, e sfortunata, battaglia.

Questa, in soldoni, la trama di Wild Hearts e, come abbiamo detto, non c'è da aspettarsi alcun guizzo seppure, va detto, il team di sviluppo abbia cercato di differenziarsi da quanto proposto, anche in tempi recenti, da Monster Hunter, cercando di offrirci un contesto che fosse non solo esteticamente accattivante, ma anche narrativamente strutturato, con numerosi e motivati personaggi secondari, per altro avvantaggiati agli occhi dei giocatori nostrani anche da un buon doppiaggio in italiano. Minato, in tal senso, ha persone che ci abitueremo a vedere, che ne animano lo spirito, ed un borgo che, complice un ottimo doppiaggio in italiano, ci sembrerà sempre vivo e pronto ad accoglierci caldamente al ritorno da ogni missione. Nulla di tutto ciò è memorabile, certo, ma vista la natura del gioco, si poteva oggettivamente pretendere molto meno di quanto non ci sia stato offerto e questo, anche al netto di qualche lungaggine, è certamente apprezzabile.

Go big or go home!

In ogni caso, è ovvio che la parte narrativa, gradevole o meno che sia, è solo un pretesto per la caccia grossa che, come da tradizione per qualsiasi titolo in stile Monster Hunter, è l'attività principale del titolo.

In Wild Hearts, anzitutto, si combatte tanto e si combatte bene, grazie soprattutto alla presenza di creature tanto belle da ammirare quanto da menare, ovvero i succitati Kemono. Questi, infatti, non sono semplicemente giganteschi (almeno il più delle volte), ma sono anche dotati di moveset molto variegati e interessanti, spesso capaci di sorprendere anche giocatori già molto navigati nell'ambito degli hunting game.

In questo, come avevo detto già in fase di anteprima, si percepisce la “visione” che caratterizza lo sviluppo del gioco, palesemente nato in seno ad un team i cui elementi sono a proprio agio con titoli action e, in linea di massima, dall'ampia mobilità. I Kemono di Wild Hearts, in tal senso, sono davvero molto diversi dalle creature di Monster Hunter, e sembra gli sia davvero impossibile restare un attimo fermi a farsi riempire di botte.

Intendiamoci: non che in MH i mostri si lascino pestare come se non ci fosse un domani, ma la “mobilità” è un concetto che le creature di Capcom affrontano a modo loro, complice anche quella che è la legnosità del personaggio del giocatore, spesso esagerata e pesante, e basti pensare alle animazioni relative le schivate in tuffo o ai comuni salti.

In Wild Hearts è invece tutto più rapido, più dinamico, e si adatta perfettamente alle esigenze dettate dai mostri che, non solo sono titanici nelle loro dimensioni, ma spesso spazzano il campo di combattimento con un solo attacco, obbligandoci ad una movimento costante, oltre che ad un continuo lavoro di adattamento, tra attacchi e l'utilizzo continuo dei Karakuri. Il risultato è inizialmente un po' caotico e spiazzante, ma poi diventa rapidamente piacevole e coinvolgente e, come detto, sembra di trovarsi quasi ai margini di un action game duro e puro, con certe mosse che sono in grado anche di spostarvi di moltissimi passi rispetto alla posizione di partenza, il che in Monster Hunter non è certo una rarità, ma ha comunque un senso completamente diverso.

In Wild Hearts, in soldoni, stare fermi sembra impossibile per tutti e, anzi, val la pena confermare quanto detto in fase di anteprima: questo è un titolo che punta a tenere il giocatore sempre galvanizzato e su di giri, anche quando la sfida proposta è ben al di sotto delle nostre possibilità di caccia. Ancora una volta: questo è indubbiamente un pregio.

Kara...che?!

E visto che li abbiamo citati, val la pena parlare subito, qui e ora, dei Karakuri: indubbiamente il punto distintivo di questa produzione, e principale differenza tra questo titolo e qualsiasi altro hunting game. Sostanzialmente i Karakuri sono degli oggetti, sia semplici come delle scatole, che complessi come delle baliste, che possono essere creati più o meno liberamente, sia dentro che fuori il combattimento. Essi, inoltre, sono divisi in due distinte tipologie: i "Karakuri Semplici", come casse, torce, o piattaforme a molla, e quelli complessi detti "Karakuri del Drago", che corrispondono a delle vere e proprie strutture, come tende da campeggio, fucine, o gigantesche ventole su cui volteggiare per raggiungere piattaforme sopraelevate. E questo perché, come avevamo detto in fase di preview, Wild Hearts si propone con mappe non solo abbastanza vaste e variegate, ma anche con un'ottima evoluzione verticale, con ambienti che possono strutturarsi anche su metri e metri di dislivello, dalle grotte a salire.

Ma torniamo ai Karakuri.

Per crearli, il giocatore dovrà affidarsi a due parametri diversi, distinti come sono le due categorie di oggetti creabili. In tal senso, i Karakuri Semplici, possono essere creati grazie al “filo”, una vera e propria risorsa spendibile, senza la quale la creazione dei suddetti non è possibile, al punto che una delle meccaniche principali del gioco prevede una ricerca costante di appositi alberi e rocce sui terreni di gioco, dai quali è possibile estrarre velocemente la veloce risorsa in modalità del tutto simili a quelle, per esempio, di giochi come Fortnite. Ovviamente, anche al netto di ambienti boschivi o di caverne, non tutti gli elementi a schermo possono essere distrutti per ottenere filo, ed anzi il materiale è estraibile solo da elementi ambientali specifici, che possono essere evidenziati grazie alla pressione prolungata di L2 che, per altro, illumina anche il percorso da seguire nel caso in cui si stia seguendo un obiettivo specifico sulla mappa.

Il filo, dunque, è un elemento fondamentale nell'economia di gioco, ed inizialmente è raccoglibile solo in piccole quantità, benché col progredire delle ore e lo sviluppo dei propri minion (gli Tsukumo, di cui vi parlo in un apposito paragrafo), è pian piano trasportabile in quantità sempre maggiori il che è a dir poco essenziale già nelle prime fasi del gioco, visto che i Karakuri possono essere anche combinati tra di loro, e tali combinazioni non solo danno vita ad alcuni strumenti fondamentali per la buona riuscita della caccia, oltre che ad armi di proporzioni immense (come dei mega martelli a molla!), ma richiedono anche un mucchio di filo, costringendovi spesso a occasionali imprecazioni.

Per quanto concerne, invece, i Karakuri del Drago, ovvero le strutture vere e proprie che possono aiutarvi nel mettervi a vostro agio nella natura impervia, essi sono soggetti a degli elementi naturali, come terra, fuoco, aria e via discorrendo; che non vanno raccolti manualmente, ma il cui accumulo dipende direttamente dalla scoperta delle cosiddette “Fonti del Drago”, ovvero a delle vere e proprie pozze energetiche dal quale attingere, e senza la cui attivazione è impossibile creare gli omonimi Karakuri.

Ogni mappa contiene almeno una decina di fonti, e reperirle tutte e subito costituisce la prima missione implicita di ogni nuova mappa, anche e soprattutto perché non tutte le fonti “sbloccano” la raccolta dei medesimi elementi utili, e certi Karakuri del Drago, ad esempio, richiedono che abbiate da parte più quantità di un elemento, piuttosto che di un altro. Il sistema, insomma, non è proprio immediatissimo, ma vi garantiamo che non è poi molto macchinoso e, palesemente, serve a non avvantaggiare troppo il giocatore, anche perché col passare delle ore certi Karakuri del Drago possono anche contribuire al farming di certi materiali utili al crafting, ed è ovvio che il team di sviluppo abbia così cercato di evitare che il giocatore possa trovarsi troppo avvantaggiato dall'uso massivo di strutture piccole e grandi.

Questi preziosi alleati “retro-tecnologici”, fatti di filo pietre e legno, insomma, sono tanti e funzionano bene, ed hanno anche la piacevole caratteristica di essere persistenti nel mondo di gioco, sia esso il nostro o quello di altri giocatori. In sostanza, se si crea una ventola in un punto della mappa per superare un precipizio, essa resterà lì per sempre, o almeno finché non saremo noi o un altro giocatore a rimuoverla. Non importa nemmeno che certe strutture siano distrutte dai mostri, perché a fine dei combattimenti tutti i Karakuri del Drago creati si rigenerano, dando al giocatore la possibilità di non dover ricostruire da capo interi accampamenti.

Persino i Karakuri semplici, se non distrutti dai mostri, restano al loro posto e questo, ad esempio, permette ai giocatori ospiti di godere delle nostre strutture o del posizionamento dei nostri oggetti di vantaggio strategico, e ovviamente viceversa, in uno spirito collaborativo non sempre percepibile durante le missioni (te stai lì a combattere, non è che ti freghi poi molto), ma comunque piacevole.

Ma quindi la meccanica dei Karakuri funziona?

In sostanza diremmo di sì e, salvo qualche occasionale bug, il sistema è ben fatto e ben implementato, anche se nelle situazioni più avanzate, non lo nego, spesso si verifica qualche intoppo, talvolta anche a causa di una mala gestione della risorsa “filo”. I Karakuri semplici, infatti, hanno dalla loro una straordinaria caratteristica di cui vi ho già accennato: ovvero quella di potersi combinare in specifiche sequenze, che permette di realizzare dei costrutti complessi, altrimenti impossibili da evocare.

L'esempio più lampante, visto spesso in fase di presentazione del gioco, è quello relativo all'evocazione di un enorme cancello di metallo, utilissimo a fermare la carica di certi mostri, e fondamentale per ripararsi dal fuoco nemico. Questo enorme portale, può essere evocato sovrapponendo 2 file da 3 blocchi di base (nulla più che delle casse di lego su cui rimbalzare), ed il costo della costruzione corrisponde, dunque, all'ovvia addizione del valore dei singoli Karakuri, giacché ogni Karakuri semplice ha un suo costo specifico. Tornando al nostro esempio, i Karakuri semplici a forma di cassa costano 1 filo ognuno, e dunque per evocare un cancello di difesa, occorre spendere 6 unità di filo, che non sono poi molte, pur chiaro che si tratta di una struttura molto elementare e che, in fin dei conti, non infligge alcun danno.

Opere più complesse, e decisamente più offensive, come trappole a pressione e baliste, finiscono invece per costare anche 10 o 13 unità di filo, in un sistema che, già verso l'endgame, vi avrà portato ad avere una riserva di 20, forse 25 unità trasportabili, a patto che non ve ne siate andati in giro a scoprire ogni benedetto segreto nascosto sulla mappa, senza i quali è impossibile ampliare la scorta di filo da poter portare con sé. Che cosa voglio dire? Che la gestione del filo, i suoi punti di spawn, e il costo delle strutture, per quanto ovviamente limitati per impedire che il giocatore spammi a manetta trappole e martelli sulla mappa, finiscono spesso per diventare dei parametri squilibrati nell'economia di un combattimento, anche perché gli stessi Karakuri non solo sono molto fragili, ma i loro effetti non vanno necessariamente a segno, vista l'enorme mobilità dei mostri di cui abbiamo abbondantemente detto.

Ne viene da sé che, spesso, ci si trova costretti a interrompere le botte per mettersi a cercare del filo in giro per la mappa, il che non solo è sgradevole in single player, ma addirittura controproducente in multy, quando la forza e l'ira dei mostri sale esponenzialmente per adattare la sfida a più giocatori. Al contempo, ci si vede costretti a mollare i propri compagni nel mezzo delle mazzate, perché magari senza filo non si riesce a creare alcunché. Va poi detto che molte armi posseggono anche dei gauge che si riempiono in corrispondenza di certe azioni, e che il sistema di combattimento prevede che, ad esempio, certe barre per mosse finali si carichino più velocemente utilizzando attacchi in salto sui Karakuri. Avere a disposizione il filo per i Karakuri, insomma, spesso è fondamentale non solo per la creazione delle più complesse macchine da assedio, ma anche e soprattutto per essere realmente in grado di pestare i Kemono caricando velocemente le relative barre delle armi, in quello che, senza dilungarci oltre, capirete bene è un sistema che forse meriterebbe una leggera revisione, quanto meno per rendere il tutto più godibile e divertente.

It's crafting time!

Una volta presa confidenza con il sistema dei Karakuri, e scontratici con i primi obiettivi principali offertici dalla storia, Wild Hearts, come vuole il canone degli hunting game, ci propone quello che è il pilastro di ogni esperienza simile degna di questo nome: il farming. Un farming continuo e forsennato ed in cui, come certi giocatori di MH sanno bene, spesso ci si troverà a menare lo stesso mostro così tante volte da perderci la ragione.

Ora, a differenza proprio di Monster Hunter, la questione farming è stata un attimino rivista e, per certi aspetti, anche alleggerita, complice la volontà abbastanza evidente di rendere Wild Hearts sì godibile per i giocatori abituati a questa esperienza di gioco, ma anche e soprattutto accessibile a chi, magari, un Monster Hunter non sa nemmeno cosa sia.

Per fare questo, il team di sviluppo ha lavorato per sottrazione, spogliando lo scheletro dell'hunting game da ogni aspetto complesso e superfluo, rendendo l'intero sistema di gestione di equipaggiamento e armi più svelto e immediato.

Anzitutto i mostri di Wild Hearts sono decisamente più larghi di maniche rispetto a quelli di MH, ed il drop di materiali è mediamente molto alto. Qui, addirittura, è del tutto azzerata la possibilità che ferendo/tagliando determinate parti del corpo, queste non siano poi presenti nel loot di fine combattimento, la qual cosa – lo so, sembra assurdo – ma non è sempre ovvia se si gioca a MH. E così, sconfiggere un Kemono, grande o piccolo che sia, offrirà al giocatore sempre un bel po' di materie prime, oltre che qualche soldo, un po' di sfere Kemono (utili a potenziare i Karakuri Semplici e del Drago in un apposito menù), e persino qualche talismano, ovvero oggetti equipaggiabili, utili ad ottenere un aumento di certe statistiche passive, come la vita, o la resistenza a certi status (ma non solo).

In questo modo, almeno in primissima battuta, Wild Hearts invita piacevolmente il giocatore a costruire e sperimentare, offrendoci la possibilità di creare da subito i primi equipaggiamenti, o di creare e potenziare delle nuove armi, così non solo da scoprire il proprio stile di combattimento, ma magari anche nella volontà di adattarsi al meglio ai diversi mostri.

Le armi, infatti, sono ben otto, tre delle quali, tuttavia, si sbloccheranno solo al raggiungimento del secondo capitolo del gioco, corrispondente allo sblocco dell'area di gioco 3 (sono 5 in totale): la katana, bilanciata in forza e mobilità; il nodachi, lento ma devastante; l'arco, molto tecnico ma molto potente; il martello, lentissimo ma molto più versatile del previsto; e il wagasa, ovvero un ombrello il cui bordo è affilato come un rasoio, e capace non solo di attaccare, ma anche di effettuare un devastante parry.

A seguire, nel capitolo 2, sbloccheremo invece il cannone, che è forse l'arma più tecnica del gioco, per quanto davvero potentissimo; l'artiglio, che permette di aggrapparsi letteralmente ai mostri, e che offre una mobilità sul campo davvero immensa, ed infine il bastone Karakuri, che è capace di trasformarsi in 5 diverse armi, effettuando combinazioni devastanti.

Il perché della divisione? Francamente non è chiaro, anche perché, benché le armi del lotto due sembrino più complesse di quelle disponibili all'inizio, basta una prova per rendersi conto che anche un'arma “stravagante” come il bastone Karakuri è invece molto più gestibile del previsto, mentre invece l'arco resterà appannaggio sempre e solo di giocatori molto tecnici.

In linea di massima, tutte le armi di Wild Hearts hanno i loro pro e i loro contro, ed anche se non tutte sono bilanciatissime, diremmo che il lavoro di variazione effettuato da Omega Force e lodevole, così come lodevole è stata la capacità di adattare tutte le armi a quella che è una condizione intrinseca del mondo di gioco: l'enorme stazza dei mostri, verso cui nessuna arma si trova oggettivamente svantaggiata, e questo è un pregio.

Parlando invece delle armature: come da consuetudine i set del gioco corrispondono, nel più e nel meno, a quelle che sono le creature contro le quali ci troveremo a combattere. Quasi ogni creatura ha un suo specifico set, ed esistono anche set appositi per le varianti dei mostri detti “Potenti”, ovvero per quei mostri base, potenziati nei danni, e spesso anche nelle dimensioni, che ci troveremo a fronteggiare più o meno da poco prima del termine dell'avventura, o giù di lì.

Le armature, dunque, sono presenti in una buona quantità, e viste le premesse di cui sopra relative al loot, non serve poi perdere molta pazienza prima di poter forgiare un equipaggiamento degno di questo nome. Il limite, semmai, è qui nella semplificazione estrema attuata da Omega Force, che non permette di potenziare le armature, se non in due specifiche varianti, a differenza della concorrenza dove, invece, ogni set può essere potenziato fino allo stremo.

La via del guerriero

Wild Hearts, infatti, ha al suo interno una sorta di sistema di moralità, che è tutto basato sugli equipaggiamenti, e che permette lo sblocco di una serie di caratteristiche speciali per ciò che riguarda le nostre armature ed i talismani equipaggiabili.

Tale moralità, tuttavia, non è basata sulle azioni del giocatore, ma su ciò che esso deciderà di indossare, in quanto quasi ogni parte, di quasi ogni armatura, può essere modificata, al costo di ulteriori materie prime, nelle forme “Via degli umani” o “Via dei Kemono”. Sostanzialmente, una volta forgiata un'armatura, potremo scegliere di modificarne aspetto e caratteristiche, virando verso un aspetto più “umano”, che avvicina le armature allo stile classico di ninja, samurai e affini, o di utilizzare invece le parti dei mostri in modo evidente, modificando l'aspetto dell'equipaggiamento in modo mostruoso e, spesso, anche un po' parodistico.

A questo punto, equipaggiando componenti di una o dell'altra via, si influirà attivamente su di un indicatore, sempre ben visibile nel menù di equipaggiamento che, diviso in 5 parti, definirà quanto e in che direzione “morale” è orientato il nostro personaggio, sbloccando così eventuali perk passivi e bonus per ogni equipaggiamento.

Un sistema certamente interessante, che offre anche alcune splendidi variazioni estetiche ma che, in ogni caso, non è sufficiente a rispondere alle esigenze concrete dei giocatori che, spesso, si troveranno in condizione da dover abbandonare un'armatura, magari con una abilità particolarmente vantaggiosa, solo perché portatrice di un valore di difesa troppo basso e questo perché, come detto, le armature non possono essere realmente potenziate, in un sistema che forse vorrebbe invogliare il giocatore ad un farming continuo, ma che in realtà finisce solo per costringere a continui cambi di set.

Molto meglio, invece, il sistema di sviluppo delle armi, strutturato similmente ad un classico albero di abilità ruolistico, e che permette al giocatore non solo di sperimentare, ma anche di sviluppare la propria arma in modo concreto e personale. Ogni arma, infatti, ha un punto di partenza comune, da cui partono una serie di numerose diramazioni, sbloccabili a patto di avere i materiali giusti reperiti dai mostri, ed ovviamente un po' bel po' di denaro.

Al passaggio da un potenziamento all'altro, le armi guadagnano o perdono slot per i potenziamenti passivi, ed allo stesso modo al giocatore è permesso di potare con sé una o più abilità passive dall'arma precedente, che saranno così ereditate dalla nuova. Ovviamente non tutte le armi hanno abilità da sbloccare, e gli slot messi a disposizione non sono infiniti, e dunque ci si ritrova a dover “evolvere” la propria arma con cognizione di causa, più che limitarsi, come succede per le armature, ad un cambio continuo. Cambio che, in ogni caso, può comunque verificarsi, visto che si possono serenamente forgiare più e più armi di base, ed evolverle su strade diverse a seconda dei propri gusti e della propria curiosità a patto, come sempre, di avere a disposizione le giuste materie prime.

https://www.youtube.com/watch?v=_grFGQ2oWUQ

Uno Tsukumo per amico

E dunque: armati, equipaggiati e ormai pratici di Kemono e Karakuri, è l'ora di spratichirsi tra le lande di Azuma. Un mondo davvero immenso che, almeno a nostro giudizio, ha risentito pesantemente dell'impatto sul mercato di Monster Hunter World che, allo stesso modo, si proponeva con mappe ampie e complesse, tutte da esplorare.

Omega Force, anche qui, ha evidentemente seguito il tracciato di Capcom ma snellendo, per quanto possibile, il sistema di gioco, e rendendo il tutto più accessibile per chiunque non fosse pratico di giochi come gli hunting game. Questo, anzitutto, si riscontra ancora una volta nella mobilità, che da sempre è uno dei talloni d'Achille di questo tipo di titoli. Se Capcom, a sua volta, aveva pesantemente rivisto il concetto di mobilità del giocatore, prima con World, e poi definitivamente con Rise, Omega Force ha fatto persino di più, includendo nel gioco un mucchio di Karakuri utili a spostarsi velocemente, così da poter realmente esplorare in lungo e in largo ogni angolo delle varie aree.

Un punto alto, non è mai troppo alto, così come una piattaforma lontana non è mai realmente irraggiungibile. I Karakuri, le possibilità offerte, e l'abilità nell'imbastire un level design che stimoli di continuo la curiosità dei giocatori, sono aspetti che Omega Force ha evidentemente messo al centro dell'elaborazione delle mappe, tant'è che andarsene in giro per gli ambienti di Wild Hearts è un grande piacere, e quando non lo è diventa persino una concreta necessità.

Questo perché ogni mappa nasconde su di sé un numero davvero enorme di collezionabili, divisi in 3 diverse categorie: i talismani, ovvero gli oggetti equipaggiabili che offrono vari bonus passivi, i “rotoli”, ovvero la versione locale di documenti più o meno inutili, e gli Tsukumo, ovvero dei simpatici robottini di forma sferica, il cui supporto è a dir poco fondamentale per il gioco in single player... e non solo.

Trovato il primo robottino in assoluto nel gioco, saremo infatti costantemente seguiti da uno di essi, che si presterà nelle vesti di assistente all'interno dei vari combattimenti con i Kemono, in una forma abbastanza simile a quanto succede in Monster Hunter per gli arcinoti Felyne. La differenza qui è che lo Tsukumo non ha un albero di abilità, né gode di punti esperienza che gli permettano di evolversi, ma dipende da degli oggetti chiamati “ingranaggi”, che si possono ottenere solo a patto di scovare gli altri Tsukumo presenti sulle varie mappe (ce ne sono 50 in ogni area!).

A questo punto, sedendosi al falò di un'accampamento, o nel proprio alloggio in quel di Minato, è possibile utilizzare gli ingranaggi trovati per far salire il livello di una delle 4 caratteristiche del robottino, ovvero attacco, difesa, vitalità e filo, ed attraverso il cui progresso non solo si sbloccano nuove mosse (rigorosamente automatiche) del robottino, come quella relativa alla cura, o al drop di unità di filo sul campo di battaglia, ma si aumenta anche la scorta di filo che si può portare con sé il che, come capirete, è fondamentale nell'economia di gioco e nell'utilizzo appropriato dei Karakuri.

Le mappe, quindi, non diventano solo teatro di caccia, ma anche un terreno fertile di esplorazione in cui, volenti o nolenti, è consigliabile, di tanto in tanto, lasciar perdere i Kemono e perdersi nella caccia ai collezionabili, facendo amicizia con il maggior numero possibile di Tsukumo. Anche perché – va detto – la IA che gestisce il vostro Tsukumo sa decisamente il fatto suo, e risponde in modo intelligente alle necessità sul campo a patto, ovviamente, che lo Tsukumo abbia sbloccato un numero sufficiente di abilità utili.

Il nostro robottino, in ogni caso, prova sempre a rispondere in modo lodevole alle esigenze dettate dagli scontri, spargendo filo sul campo quando saremo a secco, tentando di curarci con appositi bengala piazzati al suolo, e persino effettuando qualche attacco per aiutarci nel buttare a terra il mostro. Insomma, lo Tsukumo è ben più di un vezzo e, anzi, contribuisce in modo concreto a rendere più equilibrata l'esperienza in single player.

In due si mena meglio

Ma veniamo alle cose davvero importanti: come ogni hunting game che si rispetti, Wild Hearts offre il meglio di sé quando le cacce vengono intraprese insieme ad altri giocatori e, nel mio caso, ho avuto la fortuna di portare con me un membro del mio team di Monster Hunter, con il quale avevo già una certa esperienza del settore, e con cui ho potuto mettere alla prova il sistema di combattimento a squadre.

Ebbene, il verdetto è certamente positivo, ma con qualche aspetto che, a costo di voler sembrare troppo tecnici, mi sembra giusto dover inserire. Preso in modo neutro, Wild Hearts offre un'esperienza molto simile a Monstr Hunter, in cui la differenza principale è, ancora una volta, nell'utilizzo dei Karakuri.

Anzitutto perché i Karakuri Semplici sono 6, ma gli slot per utilizzarli sono 4 (come vi avevo detto uno per ogni tasto frontale), il che costringe moralmente i giocatori di un team a scegliere “chi si porta cosa”, ma anche e soprattutto perché grazie ad essi si possono intraprendere delle strategie che, ovviamente, in altri giochi simili non sono mai state previste, e sui cui Koei Tecmo ha ora un primato. Se, infatti, in titoli come Monster Hunter è possibile mettere a terra qualche trappola e poco più, in Wild Hearts il campo di combattimento può offrire molte e più possibilità, tra bombe, martelli giganti, balliste pesanti e trappole a pressione, permettendo ad una squadra – previo un certo impegno – di trasformarsi in un gruppo tanto organizzato quanto letale. Si tratta di una differenza molto interessante che, per altro, non fatica nemmeno a passare dalle idee ai fatti, perché bastano davvero poche ore affinché i Karakuri entrino nell'economia di gioco, con un utilizzo rapido, efficace ed abbastanza naturale.

Il problema, semmai, è che a Wild Hearts manca tutta quella pianificazione pre-combattimenti, e tutte quelle attenzioni alla “vita di squadra” che invece sono una componente fondamentale di Monster Hunter, e che rendono la caccia in squadra forse più complessa, ma anche più gestibile e questo perché, come detto, il team di sviluppo ha attuato delle semplificazioni estreme in certi aspetti del gioco che, anzitutto, prevedono l'assenza di qualsiasi oggetto che non siano le pozioni di cura, e i cibi da mangiare prima della caccia, che offrono una serie di aumenti temporanei a varie statistiche passive.

Non ci sono oggetti da creare, non ci sono pozioni di buff e debuff, non ci sono aggeggi che si possono utilizzare che non siano i soli Karakuri e questo, se da un lato sveltisce, come detto, la preparazione agli scontri e la “vita” dei nostri personaggi, dall'altro si scontra con una serie di limiti che, specie in multiplayer, si fanno progressivamente più evidenti, tanto più che i Kemono da affrontare si faranno difficili da buttare giù.

Per dirne una: poiché la vita del giocatore è demandata direttamente ad una fiaschetta in stile Dark Souls, non esistono oggetti consumabili di alcun tipo che possano effettuare dei buff (o anche dei debuff) ad area, né che permettano di curare gli alleati quando questi sono in difficoltà. Certo, c'è un apposito Karakuri demandato alla cura, ma non è immediato, è soggetto agli attacchi dei mostri, richiede del filo (come sempre) e non è mai realmente determinante nel supportare noi, come i nostri alleati. In soldoni: aiutare un compagno in difficoltà è impossibile, e messi alle strette tocca solo sperare di poterlo rianimare una volta morto.

Non proprio il massimo in un titolo a squadre.

Anche la gestione delle risorse ambientali è assurda, e così che si sia in 1 o in 4 in un'area, le risorse da cui estrarre il filo saranno sempre le stesse, il che costringerà molti giocatori a dover combattere senza il supporto dei Karakuri... che è assurdo in un gioco che, invece, è palesemente tarato sull'uso di questa sua specifica caratteristica! Questo succede anche perché nel gioco in squadra, anche con un solo player 2, si perde la capacità di portare con sé lo Tsukumo, ovvero il simpatico robottino sferico che offre al giocatore un bel po' di supporto tra cui, come immaginerete, anche quello di offrire un po' di cure ad area o di scovare al posto nostro del filo per poter combattere.

Lo Tsukumo, in tal senso, è un alleato non solo fondamentale ma, a suo modo, anche “unico”, giacché dispone di abilità che non sono appannaggio di alcun giocatore, a differenza invece dei Felyne di Monster Hunter, che servono ad offrire al giocatore un supporto che, corrisponde ad una versione in piccolo di un player 2. Senza Tsukumo al seguito, il gioco in coppia diventa spesso frustrante, specie in certe situazioni veicolate dalla trama quando, a fronte di boss particolarmente ostici, evocati in zone del tutto inadatte al combattimento, il filo diventa una risorsa davvero rarefatta, senza la quale si compromette buona parte dell'esperienza di gioco.

Dulcis in fundo, mancano tutta una serie di attenzioni che renderebbero la qualità del gioco in multigiocatore migliore, come ad esempio la possibilità di completare in coppia delle missioni secondarie in comune, laddove invece il gioco completa solo le missioni del creatore della lobby, o anche solo il poter skippare un video che fa da anticipazione ad un boss, e che magari si è già visto, cosa possibile solo in single player e non in multi.

A Wild Hearts, insomma, non mancano le idee, ma mancano le cesellature che, gira che ti rigira, finiscono per gravare sull'intera quality of life del multigiocatore, Il che suona decisamente spiacevole, specie se proprio il gioco in coppia, se non in squadra, dovrebbe essere tra i punti cruciali di un'esperienza di gioco.

Qualcuno fermi quella telecamera!

Come avevamo detto in fase di hands on, ovvero giusto qualche giorno fa, il primo e fondamentale problema di Wild Hearts è il suo comparto tecnico, talvolta tanto disastroso da minare l'intera esperienza di gioco. Allo stato attuale, il gioco ha già subito alcune patch, e speravamo francamente che l'esperienza ne uscisse rinata da qualche revisione pre-day one, ma dobbiamo ammettere a malincuore che così non è stato, ed anzi ci pare che certi aspetti un po' disastrosi non siano stati proprio presi in considerazione.

Anzitutto, come avevamo avuto modo di dire, al netto di una direzione artistica pregevole, capace di offrire scorci bellissimi e, in generale, un certo appagamento per quanto riguarda alcuni ambienti di gioco, Wild Hearts soffre di numerosi problemi per ciò che concerne la gestione delle luci, degli effetti riflettenti e degli effetti particellari, oltre che ad avere quella che, probabilmente, è una delle telecamere peggio gestite degli ultimi anni.

Il problema è che, evidentemente, le ambizioni tecniche del gioco non si sono sublimate in una resa su schermo che fosse all'altezza del risultato sperato e, anzitutto, il primo è più grande problema è che ci sono degli ambienti di gioco, specie se caratterizzati dal bianco, che tendono ad essere inguardabili, se non proprio accecanti. Ho immaginato che questo fenomeno potesse dipendere da una mala gestione dell'HDR o, magari, da una calibratura errata del mio televisore, ma anche smanettando per diversi minuti tra le impostazioni il risultato non è cambiato e, in linea di massima, diremmo che il problema si verifica quando le luci ambientali o, banalmente, anche solo il Sole presente sulle mappe di gioco, impatta con certe superfici riflettenti, creando un effetto che equivale a infilarsi le dita negli occhi.

Anche confronti con altri giocatori, dotati di televisori con risoluzione più alta e più bassa (lo specifico: io ho un Samsung Neo QLED 4K da 55”, più che performante e con modalità di gestione del gaming console) hanno offerto feedback simili, per cui è evidente che il problema è alla base, e non di chi vi scrive. Non solo, anche i particellari (pochi e sparuti) offrono performance similmente drammatiche, tant'è che combattere, ad esempio, su di una mappa su cui sta nevicando vi darà i brividi... ma non per motivi di coinvolgimento emotivo.

L'impressione è che certi effetti, ma soprattutto certe texture, siano stati riciclati da almeno un paio di generazioni fa, con tutto ciò che ne consegue in termini di resa visiva e definizione, il che non è solo un peccato, ma è proprio disturbante, soprattutto in un gioco in cui, come abbiamo detto, la grande mobilità richiesta dai mostri pretenderebbe una situazione a schermo sempre pulita, nitida e senza sbavature.

Ma veniamo al “meglio del meglio”: Wild Hearts ha una telecamera che, probabilmente, è stata progettata pensando di avvantaggiare al massimo i nemici a schermo, perché il suo imporsi costantemente contro i bisogni del giocatore non ha altra giustificazione. La sintesi è che sarete costretti a effettuare un lock on continuo dei mostri a colpi di stick analogici, cercando di trovare una quadra tra la grandezza delle bestie, la camera oggettivamente incapace di inquadrarle, e la vostra necessità di sopravvivere.

Lock e “slock” che ti rigira, gli stick dei miei DualSense moriranno presto, lo so, e spero vivamente che qualcuno me li rimborsi... nel mentre, tocca solo sperare che questa cam venga in qualche modo sistemata perché, soprattutto in situazioni in cui mostri troppo grossi sono calati in aree troppo strette (o comunque palesemente non disegnate per ospitare combattimenti... e perché poi li ospitino resta un mistero), crea delle situazioni a volte tanto sgradevoli da far venir voglia di quittare tutto. E questo è male.