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a cura di Alessandra Borgonovo

We few, we happy few, we band of brothers;

For he to-day that sheds his blood with me

Shall be my brother; be he ne'er so vile,

This day shall gentle his condition;

And gentlemen in England now-a-bed

Shall think themselves accurs'd they were not here,

And hold their manhoods cheap whiles any speaks

That fought with us upon Saint Crispin's day.

Con queste parole Enrico V d'Inghilterra conclude, nell'omonima opera di William Shakespeare, il discorso motivazionale ai suoi soldati poco prima della battaglia di Azincourt il 25 ottobre 1415. Sopraffatti numericamente dai francesi, una disparità di cinque a uno, il conte di Westmoreland desidererebbe avere rinforzi ed è qui che il re si fa avanti, introducendo fin da subito il punto della sua argomentazione: se il loro destino è morire in battaglia, allora non sarà tollerato che il Paese perda più uomini di quanti coinvolti in quel momento nel conflitto. Se invece dovessero vivere, l'onore per quei pochi sarà ancora maggiore. Questo stesso punto verrà riassunto alla fine, con la frase incipit del paragrafo riportato sopra - capolavoro nella sua brevità perché carico di significato e sentimento: we few, we happy few, noi felici di condividere in così pochi un onore tanto grande.

Tale estratto è stato scelto da Compulsion Games per il titolo del suo gioco, dopo il particolare Contrast: a differenza di quanto potrebbe sembrare, We Happy Few non porterà sui nostri schermi alcuna rivisitazione della storica battaglia di Azincourt e anzi, l'unico riferimento a Shakespeare sta di fatto nel nome del gioco, perché andando a scavare più a fondo si sfocia nella psicologia, nell'uso ma soprattutto abuso di farmaci, nel controllo comportamentale, nella ricreazione di un'isola felice, appunto, che poi tanto felice non è. Insomma dietro la patina eroica del titolo, gli sviluppatori hanno puntato ad analizzare una situazione molto più concreta di quanto non si pensi: "we happy few" è l'etichetta con cui si va non ufficialmente a definire l'utilizzo smodato di droghe per contrastare dalla depressione a tutto uno spettro di patologie che prende bipolarismo, disturbi d'ansia fino anche al disturbo ossessivo-compulsivo. Una sorta di sindrome di per sé, volendo, pur non essendo ufficiale.

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L'interpretazione del titolo è dunque molteplice, per non dire ambigua. Da un lato c'è il significato profondo del testo di Shakespeare, dove la morte non fa paura a un manipolo di uomini felici di andare incontro a un tragico destino se è per una giusta causa e darà loro modo di essere ricordati dai posteri; dall'altro c'è la volontà di lasciarsi alle spalle le macerie della Seconda Guerra Mondiale, le cui ombre si muovono ancora lungo gli anni Sessanta che fanno da sfondo all'ambientazione, cercando una bolla sicura nella quale chiudersi - affidandosi dunque al cosiddetto negazionismo, che quando non può essere trasmesso solo con la propaganda viene indotto tramite l'uso di farmaci.

Ambientato nell'immaginaria cittadina inglese di Wellington Wells nel 1964, infatti, We Happy Few racconta una realtà distopica dove i tedeschi hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale e l'Inghilterra è stata schiacciata dal dominio dell'Impero Germanico - non dai nazisti di Hitler, che insediatosi al potere nel 1933 si ipotizza essere stato spodestato a seguito della disfatta in Russia. Ad ogni modo, per affrontare l'occupazione il governo britannico ha scelto una soluzione abietta: negarla ai suoi cittadini. Distribuendo una pillola della felicità (Joy) per offuscare i ricordi di quanto accaduto, riesce a mantenere i suoi abitanti tranquilli e compiacenti. Il prezzo da pagare sono una progressiva dipendenza e un alienamento che privano queste persone della ragione, votandole a una felicità che è illusoria tanto quanto il loro libero arbitrio; la mente vola spensierata e leggera, docile e non più in grado di ragionare criticamente sui dettami di mass media manipolati, né di porsi interrogativi dal punto di vista etico o morale.

Parafrasando Pirandello, inoltre, nel gioco si incontreranno "tante maschere e pochi volti", questo perché indossare una maschera che a sua volta rifletta una felicità di cera - pronta a sciogliersi al primo errore - è d'obbligo a Wellington Wells, pena l'emarginazione. Eppure Arthur, il protagonista ma non unico personaggio giocabile di We Happy Few, è proprio uno di questi: un reietto, un "Downer", più concretamente una minaccia braccata come un animale così che non diffonda il male peggiore, quello della verità. Da censore di un quotidiano si ritrova a vedere le cose con chiarezza dopo essersi scordato la sua dose di Joy ma nulla sfugge al videoludico Grande Fratello che controlla la città, perciò Arthur si troverà costretto a una strenua sopravvivenza per non lasciarsi catturare e uccidere da quelle stesse persone che fino a poco prima salutava lungo la strada.

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Se mi avete seguito fino a qui, avrete notato che ho citato chiaramente nomi come Shakespeare e Pirandello, il cui apporto all'ispirazione degli sviluppatori è chiaro, tuttavia ce ne sono molti altri da scoprire perché We Happy Few è un lungo viaggio nel citazionismo e nella nostra medesima realtà.

Nel paragrafo precedente ho menzionato il libero arbitrio, o meglio la sua mancanza. Per quanto indotto, nel caso specifico, questo concetto si sposa con il pensiero dello psicologo statunitense B. F. Skinner (1904-1990), rappresentante del comportamentismo e forte sostenitore del fatto che il libero arbitrio sia una mera illusione: le azioni umane dipendono dalle conseguenze di altre che le hanno precedute - se l'effetto è negativo c'è un'alta possibilità che quell'azione non sarà ripetuta, mentre al contrario in caso di esito positivo ci sarà un rinforzo di questa possibilità. L'opposto del condizionamento pavloviano, questo cosiddetto condizionamento operante fa sì che la risposta preceda lo stimolo e abbia una funzione di rinforzo.

Se nel caso del cane di Pavlov la salivazione era una risposta allo stimolo del campanello, per Skinner una risposta non deve necessariamente essere vincolata allo stimolo dato, quanto piuttosto alla possibilità di avere una ricompensa - che dunque funziona da stimolo al comportamento, rendendolo volontario. O supposto tale, perché pur senza scomodare di nuovo Skinner vi risulterà evidente a questo punto che il comportamento umano è controllabile e prevedibile, esattamente come accade in We Happy Few: gli abitanti scelgono di prendere la pillola Joy credendo sia una loro scelta ma sono in realtà i fattori esterni, controllati dal governo, a spingerli inevitabilmente verso questa decisione. Accettando il farmaco si ottiene una conseguenza positiva, l'annullamento dei ricordi di una terribile guerra e delle sue conseguenze, rifiutandolo si entra in una spirale di emarginazione e caccia spietata al giusto che, qui, è sbagliato.

Riassumendo abbiamo Shakespeare per quanto riguarda il titolo (accompagnato dalle connotazioni psicologiche di dipendenza), Pirandello per l'uso delle maschere e la perdita di identità, Skinner per quanto riguarda il comportamentismo insito nei personaggi. Un gioco però ha anche bisogno di una ambientazione verosimile e altrettanto ispirata, ed ecco che Compulsion Games mette in scena un diorama vivente ampiamente riferito a una particolare subcultura inglese: dagli abiti agli arredi, dalle acconciature ai colori accesi dello scenario fin qui messo in mostra, We Happy Few pesca a piene mani nel clima del Mod, quel movimento partito appunto dall'Inghilterra degli anni Sessanta associato a un abbigliamento di taglio ed eleganza sartoriale, alla passione per il design, all'ascolto del Bepop (un tipico stile di jazz che valse a chiunque aderisse al Mod la definizione di modernista), nonché - ed ecco che ancora una volta si ritorna alla concezione psicologica del titolo - al ricorso alle anfetamine nelle lunghe notti trascorse di locale in locale e diventato ben presto sinonimo della cosiddetta Swinging London, che Michelangelo Antonioni immortalò al cinema nel 1967 in Blow Up. Un film che si rivela una fascinosa meditazione sul divario tra fantasia e realtà, ammesso che ci sia, un riferimento cinematografico perfetto per un gioco in precario equilibrio fra questi due concetti.

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Antonioni e il Mod gettano tuttavia le basi dell'ambientazione e della cultura. Il contesto è tutto nelle mani di lungometraggi come Brazil (1985), serie tv che sono delle vere e proprie pietre miliari della fantascienza e sono andate in onda in quel periodo (The Prisoner nel 1967 e The Avengers nel 1961), opere letterarie di spessore per il genere di appartenenza come 1984 di George Orwell e Brave New World di Aldous Huxley, finendo a toccare anche i fumetti con Sandman di Neil Gaiman. Il filo conduttore fra tutti questi e We Happy Few è la distopia, in particolare l'opera di Orwell è molto sfruttata da Compulsion Games: l'Oceania con il partito unico e il Grande Fratello al comando sono, in chiave più ridotta, Wellington Well e Uncle Jack; il protagonista Winston Smith ha il compito di rettificare il passato ritoccando articoli di giornale e libri, proprio come Arthur, e simile è anche la strenua lotta per resistere alla repressione fisica e psicologica perpetrata. Resta da capire se, al pari di Winston, anche Arthur si arrenderà lasciandoci assistere, impotenti e frustrati, all'annientamento totale di ogni sorta di sentimento umano; se il gioco del "Grande Fratello" è sottile e subdolo come quello della controparte letteraria; se, infine, l'obiettivo ultimo non è solo l'accettazione passiva del potere da parte del popolo bensì la ricerca di una devozione cieca, che trascenda qualunque logica.

Chiudiamo qui questo primo approfondimento, che basandosi esclusivamente su quanto mostrato finora e sulla prova con mano all'E3 di Los Angeles ha voluto sollevare almeno in parte il velo che copre il lavoro di Compulsion Games. We Happy Few è un videogioco particolare dove c'è molto più di quanto si veda, un titolo ricco di riferimenti culturali che speriamo riesca a mantenere lo stesso livello d'interesse anche dal punto di vista del gameplay - ispirato molto più a titoli come Don't Starve e Dead Island, fra quelli citati dagli sviluppatori, che non BioShock come può sembrare. Da Shakespeare a Pirandello, da Skinner ad Antonioni, passando per Orwell, Huxley e Gaiman, We Happy Few si dimostra un titolo inquietante per molte ragioni (in primis la voce narrante) ma in particolare perché gioca sulle nostre paure, sul timore crescente di una società drogata nel corpo e nella mente al di là del riconoscimento, sospinta verso una ricerca della felicità corrotta e falsata.


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