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a cura di Manuel Enrico

Libia è stata una delle letture più interessanti e appaganti degli ultimi mesi, come abbiamo raccontato nella recensione del bel volume edito da Mondadori all’interno della collana Oscar Ink. La scoperta di una verità oltre il costrutto emotivo imposto è stata una scossa, per il sottoscritto, l’occasione per conoscere l’altra faccia di una vicenda volutamente oscura e strumentalizzata, da più parti e in modi diversi, ma sempre con la ritrosia a rivelare il vero.

Gianluca Costantini ci racconta la creazione di Libia, il volume di Oscar Vault Mondadori

Gianluca Costantini, con i suoi disegni, ha dato corpo all’indagine giornalistica di Francesca Mannocchi, cogliendo tutti gli aspetti, umani e sociali, di queste tragica questione che da anni si dipana a poche ora da noi.

Eppure, inchieste come Libia non vengono sufficientemente valorizzate. Il lavoro di Gianluca e Francesca viene catalogato sotto un termine poco noto, graphic journalism, una denominazione che ha però una forte connotazione e un ruolo importante.

Abbiamo chiesto a Gianluca Costantini di aiutarci a comprendere come poter comprendere Libia non solo da un punto di vista emotivo, ma anche andando a scoprire il suo ruolo come strumento per la formazione di una coscienza critica. Ed il primo passo è proprio comprendere cosa sia il graphic journalism

Il fumetto è un linguaggio molto complesso, innovativo e in continuo sviluppo. La struttura e l’ideazione del libro a fumetti è molto cambiata in questi ultimi vent’anni come mai prima. Tra il 1993 e il 1996 in due volumi esce Palestina di Joe Sacco, un lavoro di un giornalista che è anche un ottimo disegnatore. Quel libro è stato come una scossa elettrica per molti autori in tutto il mondo, anche per me fu lo stesso. Ebbi la fortuna nel 2002 di organizzare la mostra di Joe Sacco in Italia ed ebbi modo di stare con lui per un po’ di tempo, stessa cosa. Oltretutto anche Aleksander Zograf usci nel 1999 con "Bulletins from Serbia: E-Mails & Cartoon Strips From Beyond the Front Line” un libro che raccontava i bombardamenti della sua città in presa diretta, anche lui è un caro amico. Questi esempi sono per farti capire come quello che è definito “Graphic Journalism” è nato contemporaneamente in molti paesi. Questo modo di fare fumetto è molto diverso dal normale concepimento di una storia, il disegnatore incrocia le sue conoscenze della grammatica del fumetto con le modalità del giornalismo, creando un ibrido che ancora non esisteva. Un fumetto di realtà che si basa sulla realtà senza nessuna invenzione.

Ma come si concilia questa visione con il rapporto col medium fumetto? Da anni è in corso un dibattito sul riconoscimento del fumetto come forma d’arte, una ricerca spesso anche estremizzata di una dignità del mondo delle nuvole parlanti.

Eppure, questo percorso non sembra ancora arrivato a destinazione, nonostante aperture, discussioni e piccoli passi in avanti. Ma per essere apprezzato e valorizzato, il fumetto ha davvero bisogno di un riconoscimento particolare o lo si può ammirare come elemento culturale fine a sé stesso?

Il fumetto era considerato un’arte minore, e forse lo è ancora. Un’arte popolare e underground, proprio per questo estremamente affascinante. Il riconoscimento del fumetto come arte “alta” spesso mi infastidisce. Perché il fumetto è principalmente un’arte romantica. Non ho sempre fatto questo tipo di fumetto e non lo farò per sempre, io seguo una ricerca e una sperimentazione del fumetto e in questi anni il graphic journalism è stato per me questo, quando questa ricerca si stabilizzerà cerco altri spunti altrove. Il fumetto può essere educativo come qualsiasi altro linguaggio, dipende dall’uso che se ne fa, intanto bisogna sfatare che leggere un fumetto è semplice e che è un modo per far avvicinare i ragazzi alla realtà. Questo tipo di fumetto è letto per la maggior parte da gente adulta con una educazione a leggere l’immagine e la parola. Bisogna essere stati educati per interpretare un quadro o per analizzare un testo, ma questo è un lavoro che deve fare la scuola non il fumettista. Poi se un fumetto riesce a raggiungere anche i ragazzi tanto meglio.

Sicuramente Libia è un volume che si rivolge principalmente ad un pubblico maturo, che voglia confrontarsi con realtà anche scomode. La questione libica è innegabilmente un tema spinoso da trattare, visto sempre in un’ottica di interessi e difficilmente presentato sul piano umano. Una visione che invece è centrale in Libia, in cui al centro della scena abbiamo il popolo libico, il protagonista silenzioso di questa vicenda, ma per trovare questa chiave di lettura servivano figure che sapessero valorizzare quanto si intendeva narrare

Per realizzare questo libro mi sono affidato alla giornalista Francesca Mannocchi, ho cercato la persona che potesse in maniera più semplice e competente possibile parlare della Libia. Siamo partiti con l’approccio più semplice, parlare dei libici e della vita comune in Libia. Seguendo una sequenza di interviste di Francesca abbiamo sviluppato con Daniele Brolli una sceneggiatura che potesse condurre il lettore in questo difficile argomento. Durante la realizzazione del libro eravamo in una piena campagna di odio fomentata dai partiti allora al governo. Non era facile disegnare le persone nei centri di detenzione, persone che viaggiano a piedi nel deserto, con i continui slogan che si sentivano. L’approccio giusto per affrontare un tema del genere è pensare all’umanità come un unico insieme, eliminando confini e nazionalismi. Così si può vincere la scommessa ed essere più sinceri possibili e non cadere nei pregiudizi.

Io volevo realizzare un libro sulla Libia perché non capivo nulla di quello che succedeva, volevo parlare del paese che è proprio davanti a noi e Francesca mi ha dato la chiave per farlo. La Libia è un paese ferito in cui permane una instabilità permanente, dove tutti fanno soldi, dove il petrolio e il gas sono i padroni.

Forse è stata questa sua voglia di scoprire realmente cosa accade dall’altra parte del Mediterraneo a dare a Gianluca l’ispirazione per realizzare dei disegni particolarmente emozionanti. Ma era necessario anche contestualizzare l’ambiente in cui muovono questi volti, ricreare il loro mondo, ed è una sfida che Gianluca ha affrontato con impegno

Il lavoro di preparazione e la ricerca iconografica è stata la parte più difficile di questo libro, il problema è che non c’è quasi nulla sulla Libia, non ci sono film, ci sono solo foto di guerra e non di vita comune, non c’è musica insomma non c’è un immaginario che vada oltre la faccia di Gheddafi. Ho dovuto incrociare migliaia di foto per creare la mia Tripoli. Io non potevo andare in Libia, avevo solo un po’ di materiale che Francesca mi dava. Quindi ho dovuto creare un set teatrale dove far vivere e muovere i personaggi della storia. Ad un certo punto è diventata un’ossessione, i particolari hanno preso il sopravvento, un tipo di ossessione. Stessa cosa dei personaggi, ho cercato di dare più cura possibile ad ogni faccia.

Leggere Libia, come detto, è stato un’esperienza coinvolgente, in alcuni passaggi straziante. Se il lettore viene travolto da queste emozioni, viene da chiedersi quanto sia stato coinvolto il disegnatore nel realizzare questi scenari umani strazianti

All’inizio non me ne rendevo conto, ma pian piano dentro di me cresceva una angoscia e uno stato d’animo negativo. A forza di stare dentro quell’argomento, il lavoro durato due anni, assorbivo tutte le cose negative. Guardare in faccia tutte queste persone e studiare le terribili esperienze che avevano vissuto mi pesava moltissimo. Finire il libro è stato un sollievo, ma sono molto felice di averlo fatto.

La storia che più mi ha colpito è anche la storia più breve del libro, la storia di Wared la ragazza eritrea che diventa schiava dell’ISIS. Una storia simbolo del viaggio della speranza e anche del viaggio che diventa un incubo. Da quando ho fatto questa storia gli eritrei sono entrati nel mio cuore.

Dopo avere letto l'intervista con Gianluca, il passo successivo è conoscere il suo mirabile lavoro leggendo Libia