La resistenza ai farmaci antitumorali rappresenta uno degli ostacoli più insidiosi nella lotta contro il cancro, responsabile di circa un decesso su sei a livello globale. Finora la ricerca si è concentrata principalmente sulle mutazioni genetiche che emergono nel tempo, simili a quelle che rendono i batteri resistenti agli antibiotici. Un nuovo studio dell'Università della California San Diego, pubblicato sulla rivista Nature Cell Biology, ha però identificato un meccanismo completamente diverso: le cellule tumorali sopravvissute alla terapia iniziale sfruttano paradossalmente un enzima normalmente attivo durante la morte cellulare programmata per rigenerarsi e far ricomparire il tumore.
Il gruppo di ricerca guidato da Matthew J. Hangauer, professore associato di dermatologia presso la UC San Diego School of Medicine e membro del Moores Cancer Center, ha scoperto che questo meccanismo di resistenza non dipende da mutazioni genetiche e si attiva nelle primissime fasi del trattamento. Si tratta di una vera e propria inversione concettuale rispetto alla comprensione tradizionale della morte cellulare tumorale. Le cellule che sopravvivono al trattamento farmacologico iniziale sperimentano una forma attenuata di segnalazione di morte che, invece di eliminarle, fornisce loro gli strumenti molecolari per ricrescere.
La chiave di questo processo risiede in una particolare proteina chiamata DNA fragmentation factor B (DFFB), un enzima che in condizioni normali degrada il DNA durante l'apoptosi, la morte cellulare programmata. Gli esperimenti condotti su modelli di melanoma, carcinoma polmonare e mammario hanno rivelato che un sottogruppo specifico di cellule tumorali sopravvissute, definite "cellule persistenti", mantiene attivo questo enzima a livelli bassi ma costanti. Questa attivazione subletale non è sufficiente a uccidere le cellule, ma è abbastanza intensa da alterare la loro capacità di rispondere ai segnali che normalmente ne limiterebbero la crescita.
La scoperta si distingue nettamente dall'approccio tradizionale agli studi sulla resistenza oncologica. Come sottolineato da August F. Williams, primo autore dello studio e ricercatore postdottorato nel laboratorio di Hangauer, la maggior parte delle ricerche sulla resistenza si concentra sulle mutazioni genetiche, mentre questo lavoro dimostra che meccanismi di ricrescita non genetici possono attivarsi molto prima. Poiché questo processo appare nelle fasi iniziali della terapia e non è legato a modifiche permanenti del DNA, rappresenta un bersaglio terapeutico potenzialmente molto più accessibile rispetto alle mutazioni consolidate che richiedono mesi o anni per svilupparsi.
Un aspetto particolarmente promettente emerso dalla ricerca riguarda la specificità di DFFB: l'enzima non risulta necessario per la sopravvivenza delle cellule normali, ma è indispensabile per la ricrescita delle cellule persistenti tumorali. Questa selettività lo rende un candidato ideale per lo sviluppo di terapie di combinazione mirate a prolungare la risposta ai trattamenti oncologici mirati. Bloccare questa segnalazione di morte subletale nelle cellule sopravvissute potrebbe effettivamente impedire la ricomparsa dei tumori durante la terapia, mantenendo i pazienti in remissione più a lungo e riducendo significativamente il rischio di recidiva.
Lo studio è stato sostenuto finanziariamente dal Dipartimento della Difesa statunitense, dai National Institutes of Health e dall'American Cancer Society. È importante sottolineare che Hangauer è cofondatore, consulente e beneficiario di finanziamenti per la ricerca da parte di Ferro Therapeutics, una filiale di BridgeBio. Le implicazioni pratiche di questa scoperta potrebbero tradursi nello sviluppo di nuove strategie terapeutiche che intervengano nelle fasi precoci della resistenza, prima che le mutazioni genetiche consolidino meccanismi di fuga più complessi e difficili da contrastare.