Nel gelido inverno del 1882, mentre le temperature scendevano molto al di sotto dello zero sulle montagne della Lapponia finlandese, un fisico ostinato stava tentando qualcosa che i suoi colleghi consideravano al limite della follia: creare un'aurora boreale artificiale. Karl Lemström, all'epoca direttore del neonato Osservatorio Meteorologico Finlandese, era convinto di aver compreso la vera natura di uno dei fenomeni più spettacolari dell'atmosfera terrestre. La sua teoria, tuttavia, si sarebbe rivelata completamente errata, eppure il suo approccio sperimentale audace rappresenta un capitolo affascinante nella storia della scienza artica dell'Ottocento, quando la comprensione delle aurore polari era ancora avvolta nel mistero.
Il contesto scientifico dell'epoca era caratterizzato da un acceso dibattito sulla natura delle aurore boreali. Due correnti di pensiero si contrapponevano: la prima ipotizzava che le aurore fossero causate da polvere meteorica attratta dal campo magnetico terrestre e incendiata dall'attrito atmosferico, mentre la seconda propendeva per un fenomeno di natura elettromagnetica, sebbene i meccanismi rimanessero oscuri. Alcuni scienziati, come il fisico svizzero Auguste De la Rive, avevano già tentato simulazioni in laboratorio intorno al 1860, producendo fasci di luce violetta all'interno di tubi di vetro parzialmente svuotati dell'aria, rivendicando di aver ricreato le aurore in miniatura, ignorando però che il colore dominante delle aurore naturali è il verde, non il viola.
Lemström apparteneva alla scuola elettromagnetica, ma con una teoria peculiare: sosteneva che le aurore si formassero quando l'elettricità presente nell'atmosfera fluiva verso terra attraverso le cime montuose, particolarmente nelle regioni artiche. Fiona Amery, storica della scienza presso l'Università di Cambridge che ha riscoperto il lavoro in gran parte dimenticato di Lemström, spiega che il fisico finlandese considerava l'aurora come un fenomeno analogo al fulmine, ma di natura graduale e diffusa anziché improvvisa e concentrata. La sua ossessione era iniziata nel 1868, quando aveva partecipato a una spedizione scientifica nell'arcipelago delle Svalbard, ben oltre il Circolo Polare Artico, osservando aurore di un'intensità che lo aveva letteralmente affascinato.
La metodologia sperimentale di Lemström era tanto ambiziosa quanto estrema. Nel dicembre 1882, sul monte Orantunturi, a circa venti chilometri dall'osservatorio di Sodankylä, costruì un apparato colossale: una spirale di filo di rame che copriva circa 900 metri quadrati, sorretta da pali d'acciaio e dotata di una serie di aste metalliche puntate verso il cielo. Un secondo cavo di rame correva per quattro chilometri lungo il fianco della montagna, collegato a un galvanometro per misurare la corrente elettrica e a una piastra metallica per mettere a terra il dispositivo. Il principio era quello del parafulmine: catturare e amplificare la corrente elettrica che, secondo la sua convinzione errata, scorreva dall'atmosfera verso la terra.
Le condizioni operative erano brutali. Con solo tre ore di luce diurna e temperature medie di -30°C, Lemström impiegava quattro ore per raggiungere la vetta, dove doveva scongelare e spesso riparare i fili che collassavano sotto il peso della brina. Poteva lavorare solo per pochi minuti prima che le sue mani diventassero inutilizzabili per il gelo. Eppure, a partire dal 5 dicembre 1882, lui e i suoi tre assistenti osservarono ripetutamente quello che descrissero come una luminosità giallo-bianca intorno alla cima della montagna, assente sulle vette circostanti. L'analisi spettroscopica mostrava lunghezze d'onda compatibili con quelle di un'aurora naturale.
Il fisico finlandese aveva già tentato un esperimento simile nel 1871 sul monte Luosmavaara, nella regione di Inari, con un apparato molto più modesto di appena due metri quadrati. Quella prima esperienza, condotta il 22 novembre, aveva prodotto risultati che Lemström aveva ritenuto incoraggianti, ma senza prove fotografiche né testimoni indipendenti, nessuno aveva prestato attenzione a quello che Amery definisce un personaggio piuttosto marginale nella comunità scientifica dell'epoca.
La svolta per Lemström arrivò con l'Anno Polare Internazionale, lanciato nel 1879 dalla neonata Commissione Polare Internazionale. Questo ambizioso programma scientifico prevedeva finanziamenti sostanziali per la ricerca artica, e Lemström seppe cogliere l'opportunità. Partecipò alla riunione di pianificazione a San Pietroburgo, dove riuscì a ottenere l'approvazione per l'istituzione di una stazione meteorologica in Lapponia, della quale divenne il primo direttore nel settembre 1882. Fu questa posizione a permettergli di organizzare gli esperimenti su larga scala del dicembre successivo.
La pubblicazione dei risultati sulla prestigiosa rivista Nature, in tre lunghi articoli tra maggio e giugno 1883, sembrò inizialmente un trionfo. Lemström dichiarò con sicurezza che gli esperimenti avevano dimostrato chiaramente e innegabilmente che l'aurora boreale è un fenomeno elettrico. I giornali dell'epoca diedero ampia copertura alle sue spedizioni artiche, ma la comunità scientifica rimase scettica. Alcuni ipotizzarono che avesse creato fenomeni elettrici diversi, come il fuoco di Sant'Elmo o la luce zodiacale; altri pensarono a una forma insolita di fulmine, simile al fulmine globulare ma verticale; i più cinici lo accusarono semplicemente di aver inventato tutto.
I tentativi di replicazione fallirono sistematicamente. Nel 1884, l'esperto danese di aurore Sophus Tromholt tentò di riprodurre l'esperimento sul monte Esja in Islanda, ma il suo dispositivo non mostrò alcun segno di attività. Un altro tentativo nei Pirenei francesi nel 1885, guidato dall'ingegnere civile Célestin-Xavier Vaussenat, non produsse risultati se non il rischio di elettrocuzione per il suo leader. Lemström non si arrese: condusse ulteriori esperimenti alla fine del 1884, questa volta utilizzando cavi più robusti e aggiungendo un dispositivo per iniettare elettricità nel circuito, convinto che avrebbe amplificato l'effetto.
La scienza moderna ci dice che la teoria di Lemström era fondamentalmente errata. Le aurore boreali sono causate da particelle cariche provenienti dallo spazio, principalmente elettroni e protoni emessi dal Sole, che penetrano nell'atmosfera terrestre seguendo le linee del campo magnetico verso i poli. Quando queste particelle collidono con atomi e molecole di ossigeno e azoto nell'alta atmosfera, a quote tra 100 e 400 chilometri, provocano l'emissione di luce attraverso processi di eccitazione elettronica. Il caratteristico colore verde deriva dall'ossigeno atomico a circa 100-150 chilometri di altitudine, mentre il rosso proviene dall'ossigeno a quote superiori e il blu-violetto dall'azoto.
Nonostante l'errore teorico, Amery ritiene che Lemström abbia effettivamente creato qualcosa sulla cima di quelle montagne artiche. La sua ipotesi più accreditata è che si trattasse del fuoco di Sant'Elmo, una forma di scarica elettrica luminosa che si manifesta in presenza di forti campi elettrici, tipicamente durante temporali o in condizioni atmosferiche particolari. È plausibile, aggiunge la storica, che il fisico finlandese abbia anche esagerato l'intensità del fenomeno osservato, influenzato da un comprensibile pensiero desiderante dopo gli sforzi estremi e i sacrifici personali affrontati nelle condizioni proibitive dell'inverno artico.
Lemström abbandonò progressivamente la ricerca sulle aurore dopo il 1884, la sua volontà di lavorare in condizioni estreme ormai esaurita. Si dedicò a progetti apparentemente più pratici, studiando l'applicazione dell'elettricità per stimolare la crescita delle colture agricole. Morì nel 1904, convinto fino all'ultimo respiro di aver realmente creato aurore artificiali su quelle montagne lapponi. La sua storia, rimasta sepolta negli archivi per più di un secolo e riscoperta quasi per caso da Amery durante ricerche sulla scienza delle aurore nel XIX secolo, rappresenta un esempio emblematico di come la scienza proceda anche attraverso ipotesi errate, esperimenti falliti e ostinazione personale. Senza la possibilità di ripetere quei complessi esperimenti nelle medesime condizioni, la verità su cosa Lemström abbia realmente osservato rimarrà probabilmente un mistero.