Cyberpunk is now: intervista ad Arturo Lauria

In una intervista a Arturo Lauria parliamo di social, cyber spazio, arte, futuro e commistioni di generi che hanno portato l'artista ad evolvere il suo tratto ed il suoi immaginario creativo.

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a cura di Damiano Greco

Arturo Lauria da qualche anno rappresenta uno dei nuovi volti del fumetto italiano. Un disegnatore che nonostante la giovane età vanta già innumerevoli collaborazioni di prestigio: Sergio Bonelli Editore, Dark Horse Comics, Top Cow, Edizioni Inkiostro, Heavy Metal Magazine. Si è fatto presto conoscere all’estero grazie a Colonus. Opera ideata e scritta da Ken Pisani e, vale la pena ricordarlo, vincitrice - nel 2013 - dei Geekie Awards come “Best Comic Book/Graphic Novel”.

L'autore: damiano Greco

 Homo Ludens: Ammaliato dall'innovazione tecnologica, ispirato dall'ingegno dell'uomo. Su Tom's Hardware per raccontare e soddisfare il suo lato più geek.
Potete trovarlo anche su Facebook e Instagram.
Arturo Lauria nasce la notte di Halloween a Latronico in Basilicata nel 1988, raggiunta la maggiore età si trasferisce a Perugia per frequentare il corso di fumetto ed illustrazione presso il NID (Nuovo Istituto Design), uscendone a pieni voti. Un’artista contemporaneo atipico in continua lotta con sé stesso, con il mondo e con la nuova realtà iperconnessa di oggi, portatrice - come sappiamo - di un flusso comunicativo continuo e costante veicolato dai vari social network. Un rapporto di odio e amore che ha trasformato ed ispirato, nel bene e nel male, in maniera profonda il percorso artistico ed umano di Arturo Lauria

Il suo stile, oscuro, incisivo ed in perpetua rivoluzione, porta con se l’influenza dei grandi maestri come Moebius, Caza, Mignola, Hewlett, Miller, Nihei, e Danijel Žeželj, ma anche quella derivante dal mondo dei videogames, del graphic design, della modellazione 3D. Il suo metodo, basato su un uso atmosferico ed esasperato delle fonti di luce, accostate a soluzioni grafiche imprevedibili, regala una potenza di narrazione unica, in cui - nei suoi lavori personali - figure misteriose e allungate si prestano alla mano di Lauria per essere calate in viscerali realtà metropolitane dal marchiato sapore cyberpunk o mondi alieni, ostili e surreali.

Attualmente Moloch o Dr. Brain (come è a volte definito) - oltre a far parte del team artistico guidato da Roberto Recchioni (in cantiere una seconda storia di Dylan Dog) - è impegnato in una serie di progetti personali che spaziano dalla musica al fumetto. In uscita a breve, sul music special di Heavy Metal magazine #295, troverete una storia cyberpunk disegnata da Arturo Lauria in collaborazione con la band rap-punk Ho9909, scritta da Aaron Gillespie, batterista della band americana Underoath. Opere ed informazioni su Arturo Lauria sono disponibili sul suo profilo Facebook e account Instagram

L’idea di questa intervista nasce da una serie di lunghe chiacchierate con Arturo Lauria . Ispirandoci al tema cardine della presente rivista, ovvero la tecnologia con tutti i suoi annessi e connessi, ci siamo lasciati cullare in un’interessantissima conversazione toccando tematiche e generi con i quali il disegnatore lucano si confronta quotidianamente; come il futuro, la società, la tecnologia, la musica, l’arte e il cyberpunk. Abbiamo quindi miscelato il tutto alle perplessità date dalle nuove tecnologie e soprattutto dai social, per cercare di comprendere quanto quest’ultimi possano influenzare il percorso creativo di un’artista. Una riflessione circa l’assuefazione delle attuali generazioni costantemente connesse, sull'accumulo eccessivo di dati difficile da gestire e che si ripercuote poi all'interno della nostra quotidianità. Questo è quello che n’è venuto fuori. Buona lettura!

 Ciao, Arturo Lauria . Sappiamo che per un po’ di tempo sei sparito dai social. Ci vuoi raccontare qualcosa al riguardo?

10 anni fa avevo 20 anni ed ero da poco sbarcato a Perugia. Accedevo ad internet solo per ascoltare musica, odiavo Facebook e chi ci si iscriveva. Ma poi, complici la lontananza dai vecchi amici e dalla famiglia, ho cambiato idea. E ciò che all’inizio era un passatempo serale, in pochi anni, un post alla volta, mi ha trasformato. La mia rabbia verso la società è decaduta in una gara a chi sembra meglio. La mia voglia di comunicare, in voglia di mettermi in mostra. La mia voglia di provocare, in voglia di entrare in conflitto. 15/09/2017 - Forse è solo colpa mia, ma capisco che questa cosa mi è sfuggita di mano. Esce Prisoner 709 di Caparezza. L’album in formato fisico arriva a casa mia grazie alla tentacolare Amazon Corporation. Compro due bottiglie di vino. Ne stappo una. Disattivo l’account Facebook. Parte il ritmo cyber-tribale di Prosopagnosia.

Il cielo è del colore dello statico televisivo. Comincia a piovere. Sono un neuromante intrappolato nella sua prigione di carne che sembra essere più calda ed accogliente di quanto ricordasse. Pensieri esasperati come quando fumi erba. Già, le canne. Penso a come quella da social e da esse sia simile come dipendenza. Utili, ma pericolose per lo stesso motivo: perché accettate superficialmente. Perché sottovalutate. Ma di droga si tratta, e se arrivi a fartela ogni giorno, ed a farsela sono tutti, come fai a rendertene conto? Lentamente i pensieri si snelliscono, complici il vino e le parole del mio personale profeta preferito. Respiro meglio. Il caos quantistico nella mia testa rallenta, cedendo posto ad uno scenario equilibrato e armonico. Restano pochi pensieri fatti di poche cose e persone - quelle reali - che orbitano attorno al mio pozzo gravitazionale. Sono un tossico che ha appena scoperto di esserlo nel giorno stesso in cui ha smesso, depositario di questa rivelazione che sembra riguardarci tutti. Sono il signor Anderson. Forse è il vino. Forse è Capa.

Finisce il CD. Lo rimetto da capo. Smette di piovere. Forse non ha piovuto affatto, ma alla fine in quest’era è la narrazione ciò che conta, no?

Siamo felici di riaverti online!

La cosa si fa interessante, proseguiamo subito con la seconda domanda: Nell’era dell’abbondanza delle informazioni tutti noi soffriamo di un eccessivo sovraccarico cognitivo, inondati ininterrottamente da un oceano di notizie che provengono da ogni dove. Mi viene in mente una scena del film Brazil quando il protagonista Sam si trova a cena e improvvisamente scoppia una bomba nel locale, tutti continuano a mangiare indisturbati come se nulla fosse accaduto. Oltre all’abitudine nei confronti dell’orrore, della violenza - che vengono anticipati da Gilliam - troviamo anche una normalizzazione all’indifferenza e alla rapidità di passare ad altro, elementi che riflettono per molti aspetti la realtà dei nostri tempi. Che effetti ha tutto ciò sul tuo lavoro?

La mente umana non è più potente di quanto non fosse anni fa, e l’attuale sovrabbondanza di informazioni da processare ci manda in tilt. Credo che ci renda incapaci di decidere di cosa fruire, di concentrarci e dedicare il giusto tempo a ciò di cui si fruisce, che sia un’idea, un’opera, un evento. Anche perché la sovrabbondanza dà assuefazione. Vogliamo altro, e subito.

Prendi il cibo - la cosa più innocua - rendilo sovrabbondante, suddiviso in piccole dosi, ed ecco il sushi all you can eat. E manco hai effettuato il primo ordine che già pensi al successivo.

Per orientarci nella moltitudine di dosi, incapaci per motivi hardware di analizzarle tutte prima di fruirne, pare ci sia una regola madre: il nuovo è meglio, il vecchio è obsoleto.

Solo che la distanza tra nuovo e vecchio si è drasticamente ridotta a livello di spazio e di tempo, di pari passo alla reale differenza tra essi. Il nuovo sta nel prossimo scroll, nella prossima tacchetta della storia di Instagram. Alla pagina successiva. Oppure, al massimo, esce oggi sullo Store. Tolto ciò che riteniamo obsoleto, resta comunque troppa roba. Quindi, a scremare ancora ci pensano gli algoritmi delle rispettive piattaforme, che ti mostrano solo “ciò che fa per te”. Ma non basta, quindi ci affidiamo agli influencer che - a prescindere dalla bontà della loro visione - influenzano a cascata le persone sottostanti, e sono a loro volta influenzate da quelle sovrastanti e dagli algoritmi.

Il risultato è tipo un meccanismo a “matrioska a loop” che ci porta a fruire di troppe cose - in maniera sempre più superficiale e pregiudizievole - scegliendone sempre meno con la nostra testa. E ciò vale per tutto, dalla musica alle idee. La sensazione è che ciò ci renda sempre più simili, distratti e sciapi... a meno che non si abbia il pieno controllo di sé stessi.

Per i creatori di cose, in particolare, credo che ciò non lasci alla mente il tempo di empatizzare con le opere. Esse quindi non sedimentano, non radicano, non riuscendo a diventare realmente parte del nostro background umano ed artistico. L’effetto nostalgia per i film o giochi d’infanzia è dovuto solo al normale meccanismo della nostalgia, oppure è aggravato dal fatto che ora non siamo capaci di innamorarci di niente?

Ripensando alla nostalgia e, riflettendo sulle tue parole, viene naturale citare Fight Club, un altro film divenuto nel corso del tempo un vero e proprio cult. Al giorno d’oggi non siamo più schiavi esclusivamente degli spot pubblicitari o dell’acquisto di nuovi prodotti come a fine anni ‘90, ma anche dalla smania continua di ottenere sempre più visibilità. Come si ripercuote all’interno della sfera artistica di un disegnatore? Quanto tutto questo influenza la tua arte?

Per quanto mi riguarda un creatore di cose dovrebbe tendere, quantomeno quando crea, ad un luogo mentale in cui esistono solo il proprio cuore e le cose da cui si è affascinati. Un luogo in cui gli altri non esistono. Però siamo menti fragili e prima di arrivare all'illuminazione - ammesso che uno la voglia - c’è da fronteggiare tre brutte bestie: la vanità, l’insicurezza e la competizione:
  • Se prevale la prima, crei cose autocelebrative e che piacciano;
  • Se prevale la seconda, crei cose in cui non credi;
  • Se prevale la terza, crei cose con l’intento di vincere sugli altri.

Vecchia storia, ma il punto è che ora i social interferiscono forte proprio con queste tre “variabili”. Poi, se da un lato ora puoi mostrare a tanti il tuo lavoro, dall’altro è più difficile che mai spiccare in mezzo alla marea di creatori di cose. La paura di non farcela è tanta. La percezione che siano tutti in gara spaventa. E mentre si sgomita per la visibilità, ci si rende conto che alcune cose la ottengono, mentre altre no. Alla fine, in molti - spesso inconsciamente - modificano il proprio lavoro cercando di ottenere maggiore visibilità, in funzione di ciò che funziona. Ma, una volta che si accetta questo meccanismo, è lui a decidere per te.

Estate 2018, dopo mesi fuori da Facebook, accedo. E scopro che Facebook sta morendo. La migrazione verso Instagram è palese. Ma ricominciare una “vita” in una nuova città non è facile, quindi in molti restano. Come in ogni posto che si spopola, l’economia funziona meno. Economia che su Facebook si basa sulla visibilità, che si ottiene scambiando la moneta dei like e dei commenti. La penuria di visibilità ha portato molti a modificare ulteriormente (più di quanto non accadesse - a me e ad altri - prima che uscissi da FB) il proprio assetto per recepirne quanta più possibile. Accedo, e scopro che le discussioni sono tutte sull'argomento dell’ ultim’ora: la serie tv, il morto, l’evento del giorno, i disegni, quasi tutti drammaticamente a sfondo sessuale.

È una visione esasperata dalla mia esperienza, relativa al mio circondario social e a ciò che le persone postano, che non sempre corrisponde a ciò che producono. Ma, penso comunque che, come il cinema americano abbia influenzato il mondo, ad ogni livello; come 20 anni di TV berlusconiana hanno reso i miei coetanei dei modaioli aspiranti imprenditori, così, i social, toccando a fondo e di continuo la nostra insicurezza, vanità e competizione, facendo leva sul meccanismo della visibilità, stiano passando un altro giro di pressa - 100 volte più forte - sulle nostre personalità.

È stato da poco annunciato Matrix 4. Come sappiamo nel film del 1999 - pilastro Cyberpunk a stelle e strisce capace di inaugurare un nuovo genere - troviamo un’umanità succube di un sistema informatico che la tiene in gabbia. Possono oggi i social rappresentare il preludio del cyberspazio descritto nella visione delle sorelle Wachowski?

Joe Rogan ha fatto una domanda simile ad Elon Musk in una delle più belle interviste della storia. Ora faccio anche io una breve scan del mio cervello mentre osservo in basso a sinistra e ti dico...

Già oggi in molti preferiscono i social alla vita reale. E ci sono sempre più motivi che rendono i social necessari. Io, nonostante tutto, continuo ad usarli per lavoro perché più efficaci di altre piattaforme specifiche. Sappiamo che la consapevolezza dei rischi dell’innovazione tecnologica arriva sempre dopo che le sue conseguenze siano tangibili, in più i cambiamenti tecnologici sono sempre più repentini, per cui c’è davvero reale bisogno di organizzazioni internazionali etiche, lungimiranti, col compito di studiare e prevenirne i rischi. Come Musk - per restare in tema - ha fondato Open AI per evitare una crescita incontrollata dell’A.I, così bisognerebbe fare per i social.

Ma i social sono di proprietà privata, ed affidare quindi l’umanità all’etica di un singolo imprenditore multimiliardario è pericoloso... a meno che egli non sia Elon Musk :). Ad ogni modo, se da un lato FB ha, ad esempio, censurato le pagine di Casapound e Forza Nuova, arginato le fake news con nuovi algoritmi, e ridotto la competizione su Instagram rendendo i like ricevuti visibili solo all’utente, dall’altro lato FB sta lanciando la propria criptomoneta. La probabilità che entro 10 anni ogni cosa umana si farà tramite Facebook, o un suo successore, è alta. E metti che si fondono - così, a caso - Amazon e Facebook? O Facebook e Google, e che inglobino Netflix e Spotify? E se i visori VR diventano comuni come lo sono oggi i computer? Mettici la potenza dei computer quantistici di cui si potrà fruire in streaming (tipo Google stadia) e non ci vuole molto ad immaginare un mondo in cui ci si incontri sul cyberspazio di Facebook, fruendo di milioni di cose acquistabili con la sua criptomoneta. E se da un lato mi intriga l’idea di tenere un live sul cyberspazio seduto sul divano, davanti a tante persone che riempiono il virtual club da ogni parte del mondo, dall’altra mi inquieta dove la crescita incontrollata di ciò possa portarci. Perché da quando siamo sui social - ed è ipocrita dire il contrario - siamo più interconnessi, ma più divisi, diffidenti, incapaci di interagire lì fuori. E se ci sarà sempre minore necessità di interagire lì fuori, che accadrà? Metti poi che Just Eat ed Amazon ti recapitano la roba coi droni e ciao, manco la chiacchiera col runner ti resta.

Dei segnali di insofferenza arrivano anche dal mondo del gaming. Hideo Kojima, con Death Stranding - la sua ultima fatica in uscita il prossimo 8 novembre - sembra dimostrare la necessità di “riconnettere” l’umanità in un altro modo. Non più il tradizionale multiplayer, ma un online asincrono dove i giocatori si dovranno aiutare l’un l’altro per la buona riuscita degli obiettivi da raggiungere, portando ad un momento di aggregazione e solidarietà la community e non di allontanamento e divisione a cui siamo tipicamente abituati. Che opinione si è fatto Arturo Lauria in merito?

Penso che il problema sia sempre il buon vecchio denaro. Se chi distribuisce e produce prodotti di intrattenimento non si assume la minima responsabilità, e rischio, di investire su prodotti validi a prescindere dal fatto che vendano o meno, l’appiattimento asintotico di tutto, dai film ai videogiochi, alla musica, è inevitabile. Questo problema è ovunque. Pensa alla politica. Se anziché assumersi rischi di scelte impopolari ma giuste, cercando di spiegarle alle persone, educandole, fa (dice di fare) quello che la media aritmetica delle persone pensa di volere, hai Salvini. Se ciò lo fa l’industria dell’intrattenimento hai l’ennesimo trapper che parla di soldi, o film di supereroi che si picchiano, o episodio di Call of Duty. Chiaramente questo problema si è ingigantito grazie ai social, perché non servono più costose indagini di mercato per capire cosa funziona ma basta aprire Facebook. Se i prodotti di intrattenimento diventano sempre più di “solo intrattenimento”, sarà difficile distinguere Netflix da Pornhub.

Per fortuna ci stanno persone coraggiose ed ostinate come Kojima, che si assumono rischi che l’industria - legittimamente - non si prende perché hanno altre priorità nella vita: innovare, sorprendere e soprattutto dire cose. Il fatto che Death Stranding abbia meccaniche anomale, utilizzi l’online in maniera creativa e nuova, sia cervellotico, lento, contemplativo e basato su una storia potente scritta per lasciare un messaggio importante, mi emoziona. Mi ispira. E se sarà o meno un bel gioco, al netto di tutto, è quasi irrilevante.

Che rapporto ha Arturo Lauria con la tecnologia e con i social oggi? Sei riuscito a trovare un compromesso? Quali aspetti positivi riesci a trovare dal loro utilizzo?

Circa i social, per me l’ideale sarebbe arrivare ad un altopiano di credibilità e stabilità lavorativa che mi consenta di starne fuori e riapparire solo quando ho qualcosa di importante da annunciare. Con la tecnologia in genere ho un rapporto migliore. Ottimizzando le notizie di Google scopro novità sull’esplorazione spaziale, fisica delle particelle, astronomia, che mi stimolano ricerche quantistiche (in tutti i sensi) su Wikipedia, che mi portano ad acquistare libri di saggistica di cui non sarei mai venuto a conoscenza altrimenti, che scatenano discussioni coi miei amici fino a tarda notte, da cui derivano altre scoperte che alimentano un loop virtuoso che mi stimola ad ogni livello. Poi, Internet in sé, se mossi dalla curiosità di conoscere nuove cose, è lo strumento più bello mai concepito. Nel disegno, il digitale mi ha velocizzato, reso uno sperimentatore più coraggioso, offrendomi nuove ed imprevedibili possibilità. Trovare l’equilibrio è difficile, anche se, per adesso, in digitale ci disegno i fumetti, mentre su carta mi diverto a disegnare per me o per committenti privati. Ciò è stato possibile quando il disegno digitale è diventato appagante ed intuitivo quanto quello tradizionale che per me è successo acquistando iPad Pro. Sorprendente. Disegno, creo mie storie (che prima o poi finirò), compongo musica in maniera fluida e divertente. Ovunque io sia. L’unico appunto negativo - perché se non mi lamento non c’è sfizio - è che in digitale è più facile ottenere qualcosa di “sufficientemente buono” da essere pubblicato - o quantomeno condiviso - che sia musica o arte visuale. Ciò, in relazione a quanto detto prima, può alimentare la creazione di cose anche belle, ma frettolose, funzionali, prive di sostanza.

Per concludere, ci tengo a dire altre due cose: Quando siamo entrati in questo prototipo di cyberspazio chiamato social, è successa principalmente una cosa grave: la legittimazione della finzione. Ognuno di noi sui social - volente o nolente - finge, avendo il pieno controllo di cosa far arrivare agli altri di sé e di come farlo. Ma la possibilità di potersi narrare a proprio piacimento, assieme al bisogno di dimostrare cose agli altri - perché oggi una cosa che non viene detta, non è accaduta - crea assurdità. Di continuo. Onestamente non vedo differenza tra chi scrive i post strappalike sulla morte di sua madre anziché piangere sulla sua tomba, e chi va a Porta a Porta, truccato di tutto punto, ma con i doposcì ai piedi per evidenziare l’impegno nella tragedia di Rigopiano (giusto per citare una delle mie preferite uscite surreali dell’ex-ministro dell’interne). E questo è il punto. In questo Mondo Nuovo pare che ognuno di noi sia diventato un avido politico che impara a muoversi nel sistema della fabbrica del consenso, che ironicamente non porta manco soldi e potere, ma solo qualche like in più. E questa cosa si ripercuote nella realtà fisica. Essendo implicito che ognuno di noi potenzialmente finge sui social, quando mi relaziono nella vita reale con persone conosciute sui social,  la percezione di essere frainteso è molto maggiore rispetto a relazioni nate nella “realtà base”. Ho spesso la sensazione che la mia gentilezza, i miei modi, vengano fraintesi, come fossero posticci, facenti parte del personaggio. Per non parlare di quando mi parte la parlata dialettale, o racconto qualche bravata adolescenziale, che pare servano a darmi un tocco di carisma aggiuntivo. “Finte realtà creeranno finti esseri umani”, diceva Philip Dick, e a me sembra che il mondo in cui viviamo tenda alla totale sovrapposizione di realtà e finzione.

Ma chi può dirlo con certezza. Magari, in un futuro prossimo, questo stesso strumento che ad oggi ha amplificato l’individualismo e le contraddizioni delle società in cui viviamo, potrà invece liberarci da esse. Diventerà comune condividere le proprie fobie, conoscenze, dubbi, in maniera sistematica, favoriti da nuovi algoritmi ottimizzati per far circolare le idee, anziché barricare ognuno nelle proprie. Magari sarà proprio il successore di Facebook a ricollegare il mondo e ad aiutare l’umanità ad agire e pensare come specie, a far germogliare nuove e condivise visioni del mondo. A salvarci dai cambiamenti climatici, dalla paura, dall’egoismo e a condurci verso l’esplorazione dello spazio, interiore ed esteriore. Uniti. In pace. Per sempre.

Capì, giusto per citare Bill Hicks che era l’unico a mancare all’appello.

Grazie per avermi fatto lamentare sulla vostra pagina. Siete stati gentili... davvero!

Grazie a te! E ricorda sempre       Follow the white rabbit…

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