L'atmosfera primordiale della Terra potrebbe aver svolto un ruolo attivo e determinante nell'origine della vita, producendo autonomamente molecole organiche contenenti zolfo miliardi di anni prima che qualsiasi organismo vivente comparisse sul pianeta. Questa ipotesi, che ribalta decenni di consenso scientifico, emerge da uno studio sperimentale pubblicato il primo dicembre sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences, condotto da ricercatori dell'Università del Colorado Boulder in collaborazione con la NASA. La scoperta suggerisce che alcuni dei componenti fondamentali della biochimica potrebbero essersi formati spontaneamente nell'aria del giovane pianeta, attraverso reazioni fotochimiche innescate dalla radiazione solare, e successivamente essere precipitati in superficie con le piogge, fornendo gli ingredienti necessari all'emergere delle prime forme di vita.
Lo zolfo rappresenta, insieme al carbonio, uno degli elementi essenziali per tutti gli organismi viventi conosciuti. È presente in aminoacidi critici come la cisteina e la taurina, nonché in cofattori metabolici indispensabili. Fino ad oggi, la comunità scientifica riteneva che le molecole organiche solforate si fossero formate esclusivamente dopo l'origine della vita, come prodotti del metabolismo di organismi già esistenti. Precedenti tentativi di simulare le condizioni della Terra prebiotica avevano sistematicamente fallito nel generare quantità significative di biomolecole solforate, e quando queste apparivano, richiedevano condizioni ambientali così specifiche e improbabili da essere considerate eccezioni piuttosto che processi planetari diffusi.
Il primo autore dello studio, Nate Reed, attualmente ricercatore postdottorale presso la NASA ma all'epoca del lavoro sperimentale presso il Dipartimento di Chimica e il Cooperative Institute for Research in Environmental Sciences dell'Università del Colorado Boulder, spiega che questa ricerca può contribuire a comprendere le fasi più ancestrali dell'evoluzione biologica. Il contesto della scoperta si è fatto particolarmente rilevante dopo che il James Webb Space Telescope ha rilevato dimetilsolfuro nell'atmosfera dell'esopianeta K2-18b, un composto prodotto oggi dalle alghe marine terrestri e interpretato da molti come possibile biosignatura. Tuttavia, ricerche precedenti dello stesso gruppo avevano dimostrato che questa molecola può formarsi abioticamente in laboratorio attraverso semplici reazioni fotochimiche, sollevando dubbi sulla sua affidabilità come marcatore inequivocabile di vita extraterrestre.
Per testare le capacità chimiche dell'atmosfera terrestre primordiale, il team guidato da Ellie Browne, professoressa di chimica e fellow del CIRES, ha ricreato in laboratorio le condizioni atmosferiche precedenti l'origine della vita. Gli scienziati hanno illuminato una miscela gassosa composta da metano, anidride carbonica, solfuro di idrogeno e azoto, simulando l'azione della radiazione solare su un'atmosfera priva di ossigeno molecolare. La sfida sperimentale è stata notevole: lo zolfo tende ad aderire alle superfici delle apparecchiature di laboratorio, e le molecole solforate sono presenti nell'atmosfera in concentrazioni estremamente ridotte rispetto ai gas dominanti come CO₂ e N₂, richiedendo strumentazione analitica di eccezionale sensibilità.
Utilizzando uno spettrometro di massa ad alta risoluzione, i ricercatori hanno identificato una gamma sorprendentemente ampia di biomolecole solforate prodotte dalla loro simulazione atmosferica. Tra queste figurano gli aminoacidi cisteina e taurina, oltre al coenzima M, una molecola essenziale nei processi metabolici di numerosi microrganismi, in particolare negli archaea metanogeni. La formazione spontanea di questi composti attraverso reazioni fotochimiche atmosferiche rappresenta un risultato inatteso, che suggerisce come la chimica prebiotica fosse probabilmente più complessa e diversificata di quanto ipotizzato dai modelli precedenti.
L'aspetto quantitativo della scoperta riveste particolare importanza scientifica. Il team ha estrapolato i dati di laboratorio per stimare la produzione globale di cisteina nell'atmosfera della Terra primordiale, calcolando che il processo avrebbe potuto generare quantità sufficienti a supportare circa un octilione di cellule (10²⁷), un numero enorme in termini assoluti sebbene inferiore di tre ordini di grandezza rispetto alla biomassa cellulare dell'attuale biosfera terrestre, stimata in circa un nonilione (10³⁰) di cellule. Come osserva Reed, questa quantità rappresentava comunque una disponibilità significativa di materiale organico in un ambiente completamente abiotico, potenzialmente sufficiente per sostenere un ecosistema globale nascente nelle sue primissime fasi evolutive.
L'ipotesi proposta dai ricercatori prevede che queste biomolecole atmosferiche precipitassero sulla superficie terrestre attraverso le piogge, creando una sorta di "fertilizzazione chimica" diffusa del pianeta. Questo scenario modifica sostanzialmente la comprensione delle condizioni necessarie per l'origine della vita. Browne sottolinea che probabilmente la vita ha richiesto condizioni molto specializzate per iniziare, come quelle presenti vicino ai vulcani o alle sorgenti idrotermali con chimica complessa, ma che la presenza diffusa di molecole organiche preformate nell'ambiente avrebbe potuto facilitare significativamente questo processo, riducendo il numero di passaggi chimici necessari per l'emergere del metabolismo primitivo.
Le implicazioni di questa ricerca si estendono oltre la comprensione dell'origine della vita terrestre, toccando anche l'astrobiologia e la ricerca di biosignature su esopianeti. Se molecole considerate indicatori di attività biologica possono formarsi spontaneamente attraverso processi atmosferici abiotici, diventa essenziale sviluppare criteri diagnostici più sofisticati per distinguere tra chimica prebiotica e vera attività metabolica. I risultati suggeriscono inoltre che pianeti con composizioni atmosferiche simili a quella della Terra primordiale potrebbero ospitare un'ampia gamma di chimica organica complessa anche in assenza di vita, un fattore cruciale nell'interpretazione dei dati spettroscopici raccolti da telescopi spaziali di nuova generazione come il James Webb.