Un batterio fotosintetico potrebbe aprire nuove strade nella lotta contro l'inquinamento da PFAS, i cosiddetti "inquinanti eterni" che contaminano acque e suoli in tutto il mondo. Ricercatori dell'Università del Nebraska hanno dimostrato che il Rhodopseudomonas palustris, un microrganismo ubiquitario in natura, è in grado di interagire con l'acido perfluoroottanoico (PFOA), uno dei composti perfluoroalchilici più resistenti alla degradazione. La scoperta, pubblicata sulla rivista peer-reviewed Environmental Science: Advances della Royal Society of Chemistry, rappresenta un primo passo verso l'utilizzo di strategie biologiche per affrontare una delle emergenze ambientali più complesse del nostro tempo.
I PFAS costituiscono una famiglia di oltre 9.000 sostanze chimiche di sintesi utilizzate per decenni in innumerevoli applicazioni industriali e di consumo, dalle pentole antiaderenti agli imballaggi alimentari, dai tessuti impermeabili alle schiume antincendio. La loro straordinaria stabilità chimica, dovuta ai fortissimi legami carbonio-fluoro, li rende praticamente indistruttibili nell'ambiente naturale, dove persistono per tempi indefiniti accumulandosi negli organismi viventi. Le tecnologie attualmente disponibili per rimuoverli dall'acqua e dal suolo sono estremamente costose e richiedono consumi energetici elevati, rendendo urgente la ricerca di approcci alternativi più sostenibili.
Il gruppo di ricerca coordinato da Rajib Saha, Richard L. and Carol S. McNeel Associate Professor, in collaborazione con il laboratorio di Nirupam Aich, Richard L. McNeel Associate Professor, ha condotto esperimenti controllati per valutare la capacità di R. palustris di rimuovere PFOA dall'ambiente circostante. I risultati hanno mostrato che in 20 giorni il batterio ha rimosso circa il 44% del composto presente nel mezzo di coltura. Analisi approfondite hanno rivelato che il microrganismo non degrada chimicamente la molecola, ma la sequestra incorporandola nelle proprie membrane cellulari attraverso un meccanismo di assorbimento che evolve nel tempo.
La componente più critica emersa dallo studio riguarda il destino a lungo termine del PFOA assorbito. Gran parte della sostanza chimica inizialmente rimossa è successivamente ritornata nell'ambiente, probabilmente a seguito della lisi cellulare naturale dei batteri. Questa osservazione evidenzia sia il potenziale che i limiti intrinseci dell'utilizzo di microrganismi viventi per la bonifica ambientale. Come sottolinea Saha, questi risultati suggeriscono un meccanismo a più fasi in cui il batterio intrappola inizialmente il PFOA nelle membrane, fornendoci una base per esplorare futuri interventi di biologia dei sistemi o ingegneria genetica che potrebbero migliorare la ritenzione o addirittura abilitare la biotrasformazione.
La ricerca ha beneficiato di un approccio interdisciplinare che ha combinato competenze di microbiologia, ingegneria chimica e chimica analitica ambientale. Il laboratorio di Aich ha fornito capacità specialistiche di rilevamento dei PFAS ad alta precisione, permettendo di tracciare con accuratezza le variazioni nelle concentrazioni di PFOA. Parallelamente, il gruppo di Saha ha condotto gli esperimenti biologici esaminando le risposte del batterio a diverse concentrazioni del contaminante. I dottorandi Mark Kathol e Anika Azme, rispettivamente dei laboratori Saha e Aich, sono co-primi autori dello studio.
Le prospettive aperte da questa ricerca sono promettenti ma richiedono sviluppi scientifici sostanziali prima di tradursi in applicazioni pratiche su larga scala. Gli approcci microbici potrebbero offrire soluzioni più adattabili e meno intensive in termini di risorse rispetto ai trattamenti convenzionali, ma la sfida principale rimane l'ottimizzazione dei processi biologici per ottenere non solo l'assorbimento temporaneo ma la degradazione permanente delle molecole di PFAS. I team stanno già pianificando ulteriori studi focalizzati sull'ingegneria microbica e la biologia sintetica per migliorare le capacità degradative future, potenzialmente modificando geneticamente i batteri per trattenere stabilmente i composti o per attivare vie metaboliche in grado di spezzare i resistenti legami carbonio-fluoro.