Un gesto apparentemente banale ha aperto una finestra inattesa su un'intera rete di maestranze specializzate rimasta nell'ombra per secoli nel panorama della produzione artigianale romana. La scoperta riguarda i diatreta, straordinari calici in vetro traforato prodotti tra il 300 e il 500 d.C., considerati tra gli oggetti più complessi e raffinati dell'antichità classica. Questi manufatti, ricavati da un unico blocco di vetro mediante un processo di intaglio estremamente laborioso, sono stati a lungo studiati per le loro caratteristiche tecniche e stilistiche. Eppure, fino a poco tempo fa, nessuno aveva prestato sufficiente attenzione a ciò che si trovava sul retro di questi preziosi contenitori.
Hallie Meredith, professoressa di storia dell'arte alla Washington State University e artigiana vetraria praticante, ha individuato quello che potrebbe essere un sistema di identificazione delle botteghe artigiane romane mentre esaminava una collezione privata di cage cups presso il Metropolitan Museum of Art di New York nel febbraio 2023. L'intuizione non è arrivata grazie a tecnologie di imaging avanzate o analisi spettroscopiche, ma attraverso un'azione fisica elementare dettata dalla sua esperienza di artigiana: girare il manufatto per osservarlo da tutte le angolazioni. Sul retro di uno dei calici ha notato forme geometriche astratte incise accanto a brevi iscrizioni augurali, elementi che per decenni erano stati catalogati come semplici decorazioni ornamentali.
La formazione pratica di Meredith nel campo della lavorazione del vetro, iniziata durante gli studi universitari e proseguita parallelamente alla carriera accademica, le ha permesso di applicare una prospettiva inedita all'analisi archeologica. Come ha spiegato la ricercatrice, la sua abitudine a manipolare gli oggetti e osservarli da ogni prospettiva ha rivelato pattern visivi che gli altri studiosi avevano letteralmente escluso dalle fotografie. Questa modalità di indagine, che unisce competenze artigianali e rigore accademico, costituisce un approccio metodologico ancora poco diffuso negli studi classici, dove prevale tradizionalmente l'analisi formale e stilistica.
I risultati delle sue ricerche, pubblicati in due studi separati sulla Journal of Glass Studies (aprile 2024) e su World Archaeology (ottobre 2024), documentano la ricorrenza degli stessi simboli geometrici su molteplici manufatti in vetro intagliato databili tra il IV e il VI secolo d.C. Le forme identificate includono motivi a diamante, foglia e croce, disposti secondo configurazioni che si ripetono su oggetti provenienti da contesti geografici diversi. Questa evidenza suggerisce l'esistenza di un linguaggio visivo condiviso utilizzato dalle maestranze vetrarie tardoantiche per contrassegnare la provenienza dei manufatti, funzionando di fatto come gli antichi equivalenti di un marchio commerciale.
L'analisi dei segni di lavorazione, delle iscrizioni incomplete e dei pezzi non finiti ha permesso a Meredith di ricostruire l'organizzazione produttiva di questi oggetti straordinari. Ogni diatreta veniva realizzato partendo da una forma in vetro a pareti spesse che veniva successivamente intagliata fino a creare due strati concentrici collegati da sottilissimi ponti vitrei. Il processo richiedeva competenze tecniche altamente specializzate e un investimento di tempo considerevole, rendendo improbabile che un singolo artigiano potesse completare l'intero manufatto. Le evidenze raccolte dalla ricercatrice indicano invece che incisori, levigatori e apprendisti collaboravano in officine coordinate, dove le diverse fasi di lavorazione venivano distribuite tra specialisti con competenze complementari.
Questa ricostruzione modifica profondamente la comprensione della produzione artigianale romana. Per oltre due secoli, il dibattito accademico sui vetri traforati si era concentrato principalmente sulle tecniche di fabbricazione, oscillando tra ipotesi di intaglio manuale, colatura o soffiatura. Meredith sostiene che un'interpretazione più completa richiede di spostare l'attenzione dalle metodologie ai soggetti produttivi, riconoscendo il lavoro collettivo e organizzato dietro ogni singolo oggetto. I simboli geometrici identificati non rappresenterebbero quindi firme individuali, ma l'identità delle botteghe, segnalando probabilmente anche garanzie di qualità o appartenenza a specifiche corporazioni artigiane.
L'approccio metodologico sviluppato da Meredith trova applicazione diretta nella didattica universitaria. Presso la Washington State University insegna un corso intitolato "Experiencing Ancient Making", nel quale gli studenti riproducono manufatti antichi utilizzando stampa 3D, sperimentano tecniche tradizionali di lavorazione e utilizzano un'applicazione digitale da lei sviluppata per smontare virtualmente oggetti storici. L'obiettivo dichiarato non è raggiungere una replica perfetta, ma sviluppare empatia verso i processi produttivi e comprendere le scelte tecniche e organizzative degli artigiani antichi attraverso l'esperienza diretta delle difficoltà e delle possibilità offerte dai materiali e dagli strumenti.
Le implicazioni di questa ricerca vanno oltre la storia della tecnologia romana, toccando questioni più ampie di storia sociale e del lavoro nell'antichità. Come sottolineato dalla studiosa, gli studi classici hanno storicamente privilegiato le élites, costruendo una narrazione statica delle classi produttive basata su presupposti più che su evidenze. Quando i dati materiali vengono esaminati sistematicamente, emerge invece un quadro molto più articolato delle competenze, dell'organizzazione e della mobilità delle maestranze artigiane. Meredith sta sviluppando queste tematiche in una monografia di prossima pubblicazione con Cambridge University Press, prevista per il 2026 o 2027, intitolata The Roman Craftworkers of Late Antiquity: A Social History of Glass Production and Related Industries.
Il suo progetto di ricerca successivo prevede l'integrazione tra storia dell'arte e data science. In collaborazione con studenti del dipartimento di informatica della WSU, sta costruendo un database interrogabile che cataloga forme non convenzionali di scrittura su migliaia di manufatti portatili. Il sistema raccoglierà errori ortografici, mescolanze di alfabeti diversi e iscrizioni cifrate, elementi che tradizionalmente vengono considerati privi di significato o frutto di incompetenza. L'ipotesi di lavoro è che queste peculiarità riflettano invece la presenza di artigiani multilingue che adattavano la scrittura per pubblici culturalmente eterogenei, testimoniando dinamiche di scambio e adattamento culturale più complesse di quanto comunemente ritenuto.