Nelle ultime ore le discussioni internazionale intorno ai nuovi requisiti d’ingresso negli Stati Uniti hanno assunto dei contorni tanto assurdi quanto preoccupanti mostrando un segnale evidente di come il confine tra sicurezza e privacy, si un aspetto molto sensibile per milioni di persone.
Nella giornata di ieri, 10 dicembre 2025, il Dipartimento per la Sicurezza Interna degli Stati Uniti ha pubblicato una proposta all'interno del Federal Register che si presenta come una ridefinizione del concetto stesso di accesso a un paese democratico.
Non riguarda semplicemente un formulario addizionale o una ulteriore voce da spuntare, ma si tratta di qualcosa di ben più serio e che non va assolutamente ignorato, ovvero un controllo esteso della vita digitale, ovvero quella legata ai social network, di chi vuole visitare gli Stati Uniti.
Fino a oggi l’autorizzazione ESTA, indispensabile per ottenere un visto per entrare nel paese, era considerata una procedura snella, fatta di domande essenziali e di un set di verifiche tutto sommato limitato.
Il passaporto elettronico è sempre stato il vero fulcro della procedura, mentre il resto si articolava attorno a controlli di routine capaci di soddisfare le esigenze dei viaggiatori occasionali e di preservare la velocità di un flusso turistico che rappresenta un pilastro economico imprescindibile per molte città americane.
La nuova proposta del Dipartimento per la Sicurezza Interna, invece, introduce un obbligo che cambia drasticamente ogni tipologia di equilibrio: la consegna di cinque anni di attività su ogni social network ai quali il visitatore è iscritto, accompagnata da un ampliamento dei dati personali che comprende: numeri di telefono, email utilizzate nel corso dell’ultimo decennio, dati biometrici aggiuntivi rispetto a quelli già necessari per il visto, selfie e controlli di autenticità digitale.
Il ragionamento dell’amministrazione è chiaro, almeno nelle intenzioni, i social network sono diventati un’estensione del comportamento quotidiano e un contenitore di segnali che le autorità ritengono utili per prevenire rischi legati al terrorismo e alla criminalità organizzata.
Se un individuo lascia tracce online che rivelano affiliazioni estremiste, contatti sospetti o dichiarazioni ostili, intercettarle prima che salga su un aereo diretto negli Stati Uniti appare, dal punto di vista della sicurezza nazionale, un’operazione tanto logica quanto necessaria.
Il Dipartimento per la Sicurezza, inoltre, ha più volte sottolineato come questa estensione all’ESTA serva ad allineare i controlli ai livelli già richiesti per visti più complessi, sostenendo che la distinzione tra turista e visitatore di lunga durata non può più sussistere e deve includere ogni estraneo che desidera accedere negli Stati Uniti.
Laddove, per quanto assurdo e complesso, la proposta del Dipartimento per la Sicurezza potrebbe anche risultare sensata, la problematica sta, innanzitutto, nella portata di ciò che viene richiesto e subito dopo nelle sue conseguenze indirette.
Per la prima volta un paese democratico chiede formalmente a milioni di cittadini stranieri di consegnare uno spaccato della loro vita privata, rendendola, di fatto, pubblica. Non si tratta più di documenti per dimostrare la propria identità ma di rendere partecipi degli estranei, per quanto funzionari statali, della propri vita privata.
Un profilo social racconta molto più di quanto un formulario possa fare: racconta relazioni, preferenze, posizioni politiche, momenti di intimità, errori di gioventù e opinioni espresse in contesti che nulla hanno a che vedere con un viaggio turistico.
Se si aggiunge il fatto che i controlli estesi già in essere per chi richiede un permesso di soggiorno a lungo termine, per ragioni prettamente lavorative, hanno mostrato la tendenza a rifiutare l'accesso a chi ha ideologie diverse da quelle dell'attuale governo statunitense, risulta normale che la consegna obbligatoria di questi dati personali sia stata percepita da molte associazioni per i diritti civili come una forma di esposizione sproporzionata e al limite delle dittature che tanto vengono criticate proprio dagli Stati Uniti.
Gli analisti hanno già sottolineato il rischio di una graduale normalizzazione dell’autocensura: chi sogna un viaggio a New York potrebbe iniziare a evitare commenti politici, chi partecipa a manifestazioni potrebbe decidere di non pubblicarne immagini, chi ha opinioni critiche verso le politiche americane potrebbe scegliere di limare il proprio linguaggio, generando un effetto collaterale inevitabile quando l’accesso a un paese inizia a dipendere da ciò che si è detto o non detto in rete.
Tutto questo avviene mentre il mondo intero si interroga su come debba essere trattata, e soprattutto presa in considerazione, l’eredità digitale di ognuno di noi. I dati personali, soprattutto quelli più sensibili, rappresentano uno dei bersagli preferiti della criminalità informatica, e la centralizzazione di informazioni come email, telefoni, profili social e metadati biometrici crea costantemente nuove opportunità per potenziali violazioni.
Una preoccupazione reale, soprattutto alla luce di precedenti storici come l’hack dell’Office of Personnel Management del 2015. La domanda non è se gli Stati Uniti siano in grado di proteggere questo tipo di dati: è piuttosto se la loro raccolta, così estesa e dettagliata, rappresenti una misura proporzionale al rischio effettivo.
Sul fronte internazionale, la mossa statunitense è stata accolta con un misto di sorpresa, irritazione e preoccupazione. Paesi come il Regno Unito, le nazioni europee, il Giappone e l’Australia si trovano nella situazione di dover preparare i propri cittadini a una procedura d’ingresso che va oltre la semplice verifica dell’identità.
Anche le reazioni dei viaggiatori non si sono fatte attendere: molti hanno candidamente dichiarato di voler rinunciare a viaggi già pianificati; alcuni operatori turistici parlano di un calo di interesse per gli eventi in arrivo nel territorio americano nel giro di nemmeno 24 ore e diversi analisti temono che questa scelta possa innescare un effetto a catena.
Se gli USA ritengono legittimo chiedere cinque anni di vita digitale, cosa impedisce ad altri governi di fare lo stesso? E cosa accadrebbe se ogni spostamento internazionale diventasse una lunga e tediosa negoziazione sul proprio passato online? Quanto questi dati verrebbero trattati con oggettività? Quanti viaggiatori contrari alle attuali ideologie politiche, ma cona una "fedina penale digitale pulita" si troverebbero la porta chiusa in faccia senza possibilità di ricorso?
A complicare ulteriormente il quadro generale, il Dipartimento per la Sicurezza vuole spostare tutta la procedura ESTA su un’app mobile, eliminando il sito web attualmente operativo. L’applicazione dovrebbe includere controlli biometrici avanzati, verifica della “vitalità” del volto e ulteriori strumenti di autenticazione che permettano di raccogliere rapidamente gli storici online collegandosi, previo autorizzazione, ai vari profili dei social network del potenziale visitatore.
Da un lato, questo è coerente con la tendenza globale verso la digitalizzazione delle frontiere e l'automatizzazione delle procedure; dall’altro, è una scelta che rischia di creare barriere aggiuntive per chi non ha familiarità con piattaforme di questo tipo. Inoltre gli USA dovrebbero garantire numerosi aspetti inerenti al rispetto della privacy nel momento in cui si richiede a un applicazione esterna di avere completo accesso ai profili privati di una persona.
La discussione, però, per quanto abbia istantaneamente infiammato gli animi, non è ancora conclusa. La proposta si trova nel tradizionale periodo di commento pubblico e sarà oggetto di revisione nelle prossime settimane. Il Dipartimento per la Sicurezza, in teoria, può modificare o correggere diverse parti in risposta alle osservazioni mosse dai cittadini statunitensi, dai viaggiatori stranieri e dei governi esteri. Tuttavia, l’orientamento generale sembra già tracciato: un controllo sempre più profondo dell’identità digitale dei visitatori, al grido di prevenire e gestire potenziali rischi.
Nell’attesa della decisione finale, resta aperto un interrogativo: gli Stati Uniti, nel loro tentativo di blindare i confini, stanno sperimentando un modello di screening che potrebbe diventare la norma in futuro, andando a riportare il Mondo intero a un periodo che ci eravamo lasciati sempre più alle spalle. Fatto di barriere, dogane, confini che non dovrebbero esistere e generando un nuovo cambiamento culturale prima ancora che burocratico.
Ed è qui che emerge la riflessione più complessa: la sicurezza è un valore imprescindibile, soprattutto in un periodo segnato da conflitti e instabilità internazionale. Ma la sicurezza assoluta, se pretende di esistere senza compromessi, finisce inevitabilmente col comprimere qualcos’altro. Nel caso di questa proposta, ciò che rischia di essere sacrificato è la spontaneità, la libertà, con cui oggi viviamo e ci esprimiamo online.
Questa direzione non è un’evoluzione necessaria, ma semplicemente un precedente pericoloso, capace, se tollerato, di generare un clima dittatoriale in quello che dovrebbe essere un mondo basato sulla democrazia. La storia recente ci ha insegnato che le norme nate nei momenti di paura tendono a rimanere più a lungo del necessario, motivo per il quale è normale che la domanda che ognuno dovrà porsi prima di salire su un aereo per New York sarà solo una: chi deciderà un domani quali parti della nostra vita meritano di essere giudicate?