Arkane Studios: retrospettiva di una conquista dell'assurdo

Ripercorriamo ciò che Arkane Studios è riuscita a fare con le sue produzioni, scoprendone la particolare filosofia alla base del suo fascino.

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a cura di Alessandro Palladino

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Arkane Studios compie 20 anni e oggi è difficile pensare che qualcuno non conosca ancora tale studio. Grazie a capolavori come Dishonored e il più recente Prey, molti giocatori hanno potuto riscoprire generi erroneamente considerati desueti, innamorarsi di mondi dalle tinte scure e provare con intensità cosa significa vivere un’esperienza tarata per la prima persona. Eppure, per quanto il cammino sia roseo e il futuro brillante con l’arrivo di Deathloop, dalla fondazione dello studio nel 1999 all’uscita di Dishonored, il nome Arkane ha fatto fatica a emergere davvero nella mente dei giocatori di tutto il mondo.

Oggi, nello spirito di festeggiamento di questo importante anniversario, vogliamo raccontarvi ancora una volta la filosofia di Arkane, ripercorrendone le tappe principali. Ma lo faremo in maniera meno didascalica o documentaristica, per quello dopotutto avete già a disposizione numerosi documentari come quello di NoClip. Ciò che troverete leggendo sarà quindi un tuffo negli elementi dietro la particolarità dello studio, vissuti dagli occhi del giocatore e meno da quelli di addetto ai lavori che scrive una cronistoria per i posteri. Arkane Studios non è mai stata una casa convenzionale in cui vivere, perché dovremmo tradire il loro approccio con della banale normalità?

Da Arx Fatalis a Dunwall

Oggi come nel 1999, non è facile per un piccolo studio riuscire a emulare i grandi del settore, specialmente se dietro hai sogni come Ultima Online, i vari Elder Scrolls e tutta la serie di esperienze che hanno forgiato praticamente tutto quello che abbiamo vissuto in tutti questi anni (spoiler: continueranno a farlo). Ma al piccolo Arkane Studios dal cuore francese importava solo tentare e, armato delle sue idee dalla forte ispirazione RPG, creò con quei pochi membri a disposizione Arx Fatalis, che tra le altre cose è stato dato gratuitamente a tutti i nuovi Arkane Outsiders.

Arx Fatalis aveva già molto di quello che poi sarebbe stato il marchio di fabbrica di Arkane, in particolar modo se si osserva la cura con cui l’arte alla sua base sia stata tradotta nel mondo di gioco. Cupo, sì, ma pregno di dettagli per l’epoca in cui si trovava. Non ci si poteva aspettare di certo un valore produttivo come quello di The Elder Scrolls, eppure la genuinità dell’opera non era davvero da mettere in discussione, specialmente si scavava un po’ più a fondo dei modelli poligonali. Osservando qualche bozzetto (e giocando al titolo) si può scorgere l’intenzione di creare un mondo con delle basi solide – in questo caso medieval-fantasy - ma con elementi estranei all’ambientazione, mistici o perfino dalla struttura molto religiosa. Ciò si sposava bene con l’altro cuore dell’immaginario di Arkane, ovvero l’allineamento grigio del protagonista e del ruolo che la morte ha all’interno dell’economia di gioco.

Elementi che si traducevano bene nel gameplay nudo e crudo, come la possibilità di lanciare incantesimi con dei segni runici da fare con il mouse e le scelte capaci di cambiare la narrativa in corso. Anche qui, meccanismi familiari ripresi nel futuro Dishonored e acclamati ben più del povero Arx Fatalis, il quale vendette bene ma non abbastanza da far sfondare il nome di Arkane Studios. In Italia però il gioco è ancora ricordato con abbastanza amore, tant’è che venne incluso nell’ormai antica collana di “Giochi per il mio Computer”, essendo appunto uno di quei RPG dallo stampo perfetto per tutte quelle generazioni cresciute su Ultima e che non disdegnavano una visita all’edicolante sotto casa.

Da questo punto in poi la storia di Arkane Studios si fece altalenante, con la pubblicazione di Dark Messiah nella cornice di Might and Magic e numerosi progetti cancellati come un gioco con Steven Spielberg. Per fortuna però, gli anni che separarono il 2002 da Dishonored furono fonte di grande ispirazione per il team, il quale si arricchì di figure chiave e trovando la giusta spinta per credere nel loro prossimo progetto SteamPunk dall’animo immersive sim. Nulla di tutto questo sarebbe potuto accadere senza la creazione di Arx Fatalis, che per quanto risultasse poco conosciuto all’epoca permise al team creativo di poggiare le basi sulla particolare estetica dello studio: l’alleata migliore per la promozione del prossimo Dishonored.

Dishonored e la sua eredità

Arriviamo al 2011-2012, quando Dishonored era in dirittura d’arrivo e già faceva parlare di sé. All’inizio erano semplici sussurri qui e lì su un nuovo progetto pubblicato da Bethesda, ma poi iniziarono a spuntare delle concept art dalla qualità evidente e chiunque iniziò a parlare di quella misteriosa creatura. Parte della ragione era che al tempo era difficile trovare titoli con una così forte componente SteamPunk, andando anche oltre i dogmi estetici del genere attraverso trovate rivoluzionarie, tanto da essere considerate uniche tutt’oggi.

Chi di noi, dopo tutto questo tempo, può affermare che l’immaginario di Dishonored non sia rimasto impresso nella propria mente? Anche dopo decine e decine di altri mondi della stessa risma, o essere volati su Bioshock: Infinite o essere tornati su Thief. Per quanto gli anni possano passare e gli scaffali riempirsi, il ricordo di Dishonored (oltre al gameplay) rimane vivido grazie a quella putrida ma imperdibile città che era Dunwall: dorata nei palazzi dei nobili e marcia nelle taverne dei balenieri.

È con la sua anima particolare costiera che Dishonored ci conquistò e riuscì a dare il perfetto contrasto nella lotta intestina della città e di Corvo: proveniente direttamente dalle sale del trono e fatto sprofondare nelle fogne. Arrivato al mare, ha preso le sue leggende per scoprire nuovi poteri a cui il giocatore poteva o meno attingere, anche se sempre a totale disposizione come strumento di vendetta. Era però nelle masse, nei lavoratori sulla costa che Corvo trovò la vera motivazione per andare avanti, acquisendone lo spirito di insurrezione che aleggiava nelle fabbriche d’olio.

In un modo o nell’altro, la durezza tematica di Dunwall avvertita nei sussurri dei dimenticati di Dunwall è stata la scintilla giusta per dare spessore all’immersive sim di Arkane, con l’eticità del giocatore in quel moto pesava come un macigno sulle sue spalle. Uccidere o non uccidere? Macchiarsi degli stessi peccati o trovare un’altra strada per fuggire dalla spirale di violenza? Scoprire l’altra dimensione sovrannaturale o affidarsi alla propria umanità? Tutto era contestualizzato nella cornice dell’ambientazione e per questo Dishonored ha lasciato cicatrici (o meno) sulla pelle di chi ha calcato le sue cupe strade.

Il gameplay chiaramente seguiva la stessa filosofia: totale libertà e azioni con conseguenze dall’impatto evidente, missioni dai più risvolti, enigmi celati e storie su storie da ricercare nelle carte abbandonate. La ciliegina sulla torta, ludicamente parlando almeno, erano i famosi poteri che permettevano a Corvo di compiere imprese impossibili, trasformandolo e sfidando le leggi dello spaziotempo. Anche qui però, Arkane si distingueva da tutti gli altri, regalando ai giocatori un deus ex machina che, se accettato, avrebbe portato a un prezzo alto da pagare. Rifuggendo una delle caratteristiche più importante di Dishonored, si sarebbe altresì sbloccato un altro percorso risolutivo, ottenuto solo da un viaggio che in termini di gameplay cambiava radicalmente rispetto a chiunque sfruttasse ogni singola abilità.

Come è evidente, le lodi della critica non tardarono ad arrivare e Dishonored, complici anche una storia coinvolgente e un comparto tecnico spiccato (per quanto straniante), venne decretato un successo unanime. Cosa che spinse i DLC e il futuro seguito, il quale prendeva la stessa formula ma la ampliava di almeno tre volte, con due protagonisti da poter scegliere, nuovi poteri da sbloccare e tanti livelli che andavano oltre la cupezza di Dunwall. Ambienti colorati, culture diverse e più attenzione alla situazione sociale crearono il mondo di Dishonored 2, per certi versi il primo mutamento della nuova evoluzione di Arkane Studios.

Il lavoro sul seguito del primo Dishonored ha delle particolarità piuttosto evidenti, partendo dalla gestione dei personaggi e al risalto che i vari individui necessari alla trama possedevano. Il capitolo ambientato a Dunwall era pressocché privo di personalismi, basti pensare alla presentazione di Corvo e all’iconica maschera, o al design molto rigido per la caratterizzazione estetica di tutti gli NPC. Dishonored 2 è invece l’esatto opposto: ogni nemico ha la sua identità, Emily ha una presentazione forte ed è più presente nelle vicende narrate, così come lo è Corvo che, infatti, viene mostrato senza la maschera adorata (in certi punti della trama almeno). Addirittura alcuni personaggi specifici sono diventati così fondamentali da creare veri e propri spin-off come “La Morte dell’Esterno”, per quanto comunque tali iniziative abbiano riscosso opinioni miste.

Lo stesso accade per le città e i conglomerati urbani, tutti diversi e dalle colorazioni che prendono cromature quasi contrastanti tra un livello e l’altro, ricchi di anfratti da scoprire, edifici da scandagliare e minacce mai viste prima. Descrivendolo in questo modo sembrerebbe parlare di due prodotti antitetici, ma in realtà non potrebbero essere più complementari: rimane la libertà totale del giocatore, rimane la non linearità e rimane perfino la grande importanza alla dimensione marina, insieme a quella dell’Esterno. Eppure, quanto fatto su Dishonored 2 e i cambiamenti in esso apportati sono stati il trampolino di lancio verso una nuova visione per Arkane Studios, quella che potremmo definire come la declinazione più moderna di un artista che finora aveva dipinto solo classici, apprezzata dal pubblico fino alla spinta futurista.

Verso Prey e oltre

Il 2017 segnò il lancio di Prey, ultimo lavoro di Arkane Studios a noi noto. Considerato stranamente divisivo, Prey è stato in realtà un successo su tutta la scala, se non uno dei giochi più amati in assoluto degli ultimi anni. Lontano dal fantasy steampunk di Dishonored, il lavoro su questo capitolo ne è però una continuazione della filosofia adottata con il secondogenito di Karnaca: colori sgargianti che si alternano alla cupezza dell’ambientazione, forte focalizzazione sugli individui, libertà narrativa ancora più influente sul giocatore e elementi sovrannaturali ben inseriti all’interno del contesto narrativo. Il tutto, chiaramente, mantenendo quelle linee dure che ormai caratterizzavano la direzione artistica da diversi anni.

Al tempo stesso Prey presentava anche l’ardito compito di creare un bel bilanciamento tra passato e futuro dello studio, mettendo le sue radici nel tanto amato System Shock mentre esperimenti in ogni reparto del gioco permettevano al team di scoprire nuovi modi per far incuriosire il giocatore. Anche qui, i poteri dovevano rappresentare un piacere proibito, ma con uno strato in più di significato da accostare alla trama principale del protagonista (di cui si poteva scegliere il sesso, segno che la libertà era apprezzata anche a questi livelli). Tutto funzionava come sempre, considerando che parliamo di Arkane e di un altro immersive sim, ma il cambio di tono era una novità gradita, specialmente in una cornice sci-fi così ben studiata come quella di Prey. Un cambiamento accolto, in parte, anche perché già instillato negli elementi di Dishonored 2.

Talos I divenne così un parco giochi nello spazio dalle giostre horror, ma a cui nessuno di noi avrebbe mai rinunciato per un po’ di fifa. Buio, luce, cadaveri e sopravvissuti si intersecavano in un racconto che si espandeva tanto in orizzontale quanto in verticale, celando misteri su misteri che solo il giocatore più attento avrebbe scoperto, a patto di sopravvivere a una specie aliena ignota. Eppure, per quanto criptico potesse sembrare lo spazio di Prey, è paradossalmente il titolo di Arkane Studios più accessibile tra tutti, quello in cui si può davvero vivere completamente l’esperienza anche se si odia il genere a cui appartiene.

Ciò perché, bene o male, non erano le molte armi a disposizione o le sessioni a gravità zero a tenere i giocatori all’interno della stazione, affatto. Era il fascino che quella strana struttura in orbita riusciva a creare in ogni sua stanza a tenerci lì dentro, così come la sequenza d’apertura ingannevole era il perfetto pretesto per farci dire “No, adesso non voglio fuggire da qui: voglio scoprire cosa c’è dietro”. In Prey la vera preda non era altro che la nostra mente, rapita dall’incomprensibile e sempre più affamata di conoscenza, capace di spingerci a trovare ogni singola Scheda d’Accesso per non tralasciare neanche un dettaglio di Talos I, rischiando di uscirne con molti “e se...

Su queste fondamenta, sull’assurdo e l’inspiegabile come fulcro del gameplay, che Deathloop sta venendo attualmente costruito, in attesa di mostrarci con orgoglio un altro mondo di Arkane da capire nelle sue stranezze. I 20 anni di Arkane sono esattamente questo: un’ode alla loro maestria nel riempirci la testa con la più genuina delle curiosità, nel dare a noi il totale controllo in situazioni in cui non ce ne è, nel rivelare tutto con calma attraverso le nostre stesse forze, lasciandoci affamati per ancora più domande a cui trovare risposta. Che sia Dunwall o lo spazio o spaccati del tempo, in un modo o nell’altro Arkane Studios ci permetterà sempre di ricordare i giochi che crea, perché siamo noi, alla fine di tutta la storia, a forgiare ogni loro singola memoria