L'industria videoludica ha conosciuto molte sfide negli ultimi anni, ma poche storie di sviluppo si sono rivelate complesse quanto quella di Death Stranding 2. Il sequel del controverso titolo di Hideo Kojima ha attraversato un percorso creativo segnato da ostacoli personali e professionali che hanno portato il celebre game designer giapponese sull'orlo dell'abbandono. La realizzazione del secondo capitolo della saga si è trasformata in quello che lo stesso Kojima definisce "la sfida più difficile" della sua intera carriera.
Il contesto storico in cui è nato Death Stranding 2 rappresenta già di per sé una narrazione drammatica. Quando il primo capitolo arrivò sugli scaffali nel 2019 (potete recuperarlo su Amazon), il mondo era radicalmente diverso da quello che conosciamo oggi. La pandemia globale e gli eventi che hanno scosso il pianeta negli anni successivi erano ancora impensabili, ma proprio questi cambiamenti epocali avrebbero trasformato lo sviluppo del sequel in un'odissea creativa senza precedenti.
Durante una recente intervista nel corso del World Stranding Tour a Sydney, Australia, Kojima ha rivelato i dettagli di questa esperienza travagliata. "Non riuscivo nemmeno a incontrare gli attori", ha spiegato il game designer, descrivendo come la pandemia abbia stravolto i suoi metodi di lavoro tradizionali. Il cast era già stato scelto, ma le restrizioni sanitarie hanno reso impossibile quella collaborazione faccia a faccia che caratterizza il processo creativo di Kojima Productions.
Un team disperso nella tempesta globale
L'impossibilità di lavorare direttamente con gli attori ha rappresentato solo la punta dell'iceberg. L'intero staff di Kojima Productions si è trovato costretto al lavoro remoto, una modalità che ha stravolto le dinamiche creative del team. In alcuni casi, invece di utilizzare il set di Tokyo, le riprese sono dovute avvenire presso strutture Sony a Los Angeles, complicando ulteriormente un processo già reso difficile dalle circostanze globali.
La situazione personale di Kojima ha aggiunto un ulteriore livello di complessità al progetto. "Mi sono ammalato anch'io", ha confessato il game designer, ammettendo che in quei momenti aveva la sensazione che fosse "la fine del mondo". Questa combinazione di difficoltà professionali e personali ha portato il creativo giapponese a un punto di rottura che non aveva mai sperimentato prima nella sua lunga carriera.
Tuttavia, la narrazione di Kojima non si ferma al racconto delle difficoltà. Il game designer ha trovato in questa esperienza traumatica anche una fonte di crescita personale e professionale. "Potremmo affrontare qualcosa di simile in futuro, ma una volta che l'abbiamo vissuto, abbiamo la forza", ha spiegato, sottolineando come il superamento di questi ostacoli abbia reso lui e il suo team "un po' più forti".
L'approccio mentale di Kojima verso Death Stranding 2 si è evoluto durante il processo di sviluppo. Quello che inizialmente sembrava un lavoro tradizionale si è trasformato in qualcosa di più profondo e personale. "Non mi sembrava lavoro", ha dichiarato, definendo invece il progetto come una vera e propria "missione". La sua responsabilità non era più solo quella di creare un videogioco, ma di "riunire di nuovo il team" e rimettere in carreggiata il suo mondo creativo.
Questa trasformazione dell'approccio lavorativo riflette una maturazione artistica che va oltre la semplice produzione videoludica. Kojima ha descritto il momento finale dello sviluppo come una rinascita personale, un processo di riconnessione non solo con il suo team, ma anche con se stesso. "Mi sono sentito riconnesso di nuovo, dentro di me", ha concluso, suggerendo che Death Stranding 2 rappresenti non solo un sequel, ma anche un capitolo di crescita personale per uno dei game designer più influenti dell'industria.