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Recensione

Death Stranding 2: On the Beach | Recensione - Riconnetterci è davvero servito?

Posso finalmente parlarvi di Death Stranding 2: On the Beach, l'ultima fatica del maestro Hideo Kojima. È il capolavoro che aspettavamo?

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Avatar di Andrea Riviera

a cura di Andrea Riviera

Managing Editor

Pubblicato il 23/06/2025 alle 18:00
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  • Pro
    • Graficamente e tecnicamente sbalorditivo
    • Artisticamente favoloso e colonna sonora di gran livello
    • Personaggi scritti divinamente
    • Social Strand System sempre fantastico
  • Contro
    • La storia non convince del tutto nella sua narrazione
    • Troppi combattimenti che rovinano il mood dell'esperienza
    • Poche novità lato gameplay

Il verdetto di Tom's Hardware

8.5
Giudicare Death Stranding 2: On the Beach è decisamente complesso. È un'opera di contraddizioni insanabili: un guscio tecnico e artistico di una bellezza abbagliante, quasi commovente, che racchiude al suo interno momenti di pura poesia emotiva, soprattutto nei suoi rapporti umani. Allo stesso tempo, è un'opera minata da una narrazione centrale debole e dispersiva, da un ritmo altalenante e da un gameplay che, nel tentativo di aprirsi a un pubblico più ampio, ha sacrificato gran parte della sua coraggiosa unicità. Non è quel titolo capace di evolvere, di segnare un'epoca come il suo predecessore, ma un seguito eccellente ma profondamente imperfetto, un gioco che ho amato per la sua bellezza visiva e per il calore dei suoi personaggi, ma che non è riuscito a toccarmi l'anima con la stessa, devastante forza. È un'esperienza magnifica che consiglio a tutti, ma non è il capolavoro indimenticabile che speravo e che probabilmente speravamo un po' tutti.

Informazioni sul prodotto

Immagine di Death Stranding 2: On the Beach

Death Stranding 2: On the Beach

Death Stranding 2: On the Beach è il seguito dell'atipico adventure game uscito nel 2019, sviluppato da Hideo Kojima.
€ 54 su Amazon

Ci sono giochi che si completano e si dimenticano, meteore passeggere nel panorama videoludico. E poi ci sono le stelle fisse, quelle che restano nel cuore, che definiscono un'intera generazione e continuano a brillare a lungo dopo i titoli di coda. Per me, il primo Death Stranding appartiene senza alcun dubbio a questa seconda, rara categoria. Non lo nascondo: all’annuncio partii con un carico di scetticismo, disorientato dalla visione enigmatica e quasi imperscrutabile di Hideo Kojima. Eppure, chilometro dopo chilometro, consegna dopo consegna, quel mondo desolato e struggente, quella solitudine rotta solo da connessioni effimere eppure potentissime, mi conquistarono in un modo che pochi altri titoli hanno saputo fare.

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Death Stranding non era semplicemente un videogioco; era la genesi di un genere, lo "Strand Game". Era un'opera filosofica travestita da avventura in terza persona, una riflessione sulla necessità di unire in un'epoca di divisione che, con una preveggenza quasi inquietante, ha anticipato l'isolamento globale che avremmo vissuto di lì a poco. Il suo gameplay meditativo, dove il vero nemico era il viaggio stesso  (il peso, l’equilibrio, la morfologia di una terra ostile) era un atto di coraggio autoriale. È con questo bagaglio di aspettative, un fardello pesante quanto il carico più arduo di Sam Porter Bridges, che mi sono immerso in Death Stranding 2: On the Beach. Le premesse erano quelle di un kolossal, di un titolo destinato a competere per il premio di Gioco dell'Anno, un'opera che prometteva di espandere e perfezionare una formula già geniale. Dopo circa 34 ore, necessarie per giungere alla fine della storia principale, posso affermare con una strana mescolanza di ammirazione e amarezza che On the Beach è un ottimo, a tratti superbo, videogioco. Ma è anche, per me e per le speranze che vi avevo riposto, al di sotto delle premesse.

Una narrazione a due velocità

La storia riprende undici mesi dopo gli eventi del capitolo originale. Ritroviamo un Sam Porter Bridges che ha cercato di lasciarsi alle spalle il suo passato, ritirandosi a vita privata. La quiete, tuttavia, è destinata a durare poco. Viene richiamato all'azione da una Fragile provata ma determinata, che gli affida una missione ancora più ambiziosa e apparentemente impossibile: riunificare il continente australiano, un nuovo mondo devastato dal Death Stranding, così come aveva fatto con l'America.

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Il cuore pulsante, la vetta emotiva e qualitativa dell'intera produzione, risiede senza alcun dubbio nelle dinamiche umane che si sviluppano all'interno del nuovo hub mobile, il sottomarino DHV Magellan. Questo vascello, che solca gli abissali mari di catrame del mondo di gioco, non è solo un mezzo di trasporto, ma un palcoscenico vivo e pulsante. Qui, Sam non è più il lupo solitario del primo capitolo, ma è circondato da un equipaggio di personaggi memorabili, scritti con cura e interpretati magistralmente da un cast che include attori del calibro di Elle Fanning e del celebre regista George Miller. Il rapporto che si crea tra Sam e questo microcosmo di umanità è semplicemente meraviglioso. Le conversazioni, i momenti di quiete, le missioni personali e le paure condivise costruiscono un legame fortissimo, un senso di appartenenza a una famiglia disfunzionale ma indissolubilmente unita. In più di un'occasione, la chimica del gruppo mi ha ricordato quella, leggendaria, tra il Comandante Shepard e l'equipaggio della Normandy in Mass Effect, e questo è forse il complimento più grande che possa fare alla scrittura dei personaggi.

È in questo spazio intimo che Kojima eccelle, esplorando con delicatezza, maturità e profondità tematiche immense. La genitorialità, il lutto, il trauma dell'abbandono, il suicidio, l'eredità che lasciamo e persino il ruolo dell'intelligenza artificiale come specchio e potenziale successore dell'umanità, vengono affrontati con una sensibilità rara. Il gioco regala scene di una potenza emotiva toccante, dialoghi che scavano nell'anima e momenti di silenzio carichi di significato che rimangono impressi a lungo. La performance degli attori, catturata con una fedeltà sbalorditiva, è fondamentale nel veicolare questo peso emotivo, trasformando avatar digitali in persone credibili e vulnerabili.

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Il problema, enorme e quasi inspiegabile, è che questa eccellenza narrativa è un'isola felice in un oceano di debolezza strutturale. Se si escludono i rapporti interpersonali, la trama principale di On the Beach appare sorprendentemente fragile, involuta e priva di mordente. Laddove il primo capitolo era brutalmente focalizzato, con una scrittura che, pur tra le sue eccentricità, sapeva esattamente dove voleva arrivare, qui Kojima sembra perdersi in meandri inutilmente complessi e spesso inconcludenti. La storia si trascina per lunghi capitoli (oltre quindici in totale) senza una vera direzione, accumulando missioni che sembrano meri riempitivi, per poi scaricare addosso al giocatore una valanga di informazioni, colpi di scena e rivelazioni negli ultimi cinque. Questa compressione finale avviene in modo caotico, quasi isterico, con spiegazioni spesso buttate lì casualmente e talvolta rese irrilevanti da un nuovo colpo di scena pochi minuti dopo.

A peggiorare la situazione intervengono delle scelte di scrittura che, in più occasioni, scadono in un "cringe" imbarazzante, un umorismo goffo e fuori luogo che non ha nulla a che vedere con l'autoironia metanarrativa a cui la saga di Metal Gear ci aveva abituati. Questi momenti, spezzano completamente il climax emotivo, minando la credibilità di scene altrimenti potentissime e generando un fastidioso senso di straniamento. Il risultato di questa scrittura altalenante è un finale che definirei interlocutorio e frettoloso, incapace di chiudere il cerchio in modo soddisfacente e destinato, a mio avviso, a lasciare perplessa e insoddisfatta una larga fetta di pubblico. Persino il tanto atteso personaggio interpretato da Luca Marinelli, che prometteva un ruolo chiave, risulta tragicamente sprecato, una figura quasi accessoria la cui presenza sembra motivata più da un vezzo estetico – la somiglianza con Solid Snake – che da una reale necessità narrativa. Si ha la sensazione che la sua storia potesse essere un gioco a parte, e che qui sia stata inserita a forza, senza il respiro che avrebbe meritato.

Il corriere diventato soldato

Dal punto di vista del gameplay, Death Stranding 2 si presenta superficialmente come un "more of the same", ma questa definizione nasconde una virata decisa verso le meccaniche di un tradizionale action game in terza persona. Il sistema di combattimento è stato notevolmente rivisto, ampliato e reso più profondo e reattivo. Sparare è ora più divertente, le armi sono più varie e gli scontri con i nemici umani sono una componente molto più presente e centrale nell'esperienza. Sebbene questa scelta possa, sulla carta, rendere il gioco più appetibile a un pubblico più vasto, a mio avviso tradisce l'anima e l'unicità del predecessore.

Il fascino rivoluzionario di Death Stranding risiedeva nella tensione del viaggio, nell'evitare lo scontro, nel sentirsi un semplice corriere, un uomo comune e vulnerabile in un mondo ostile. Combattere era quasi sempre sconsigliato, una risorsa estrema che portava a conseguenze permanenti, come le voragini. Era un gioco sulla resilienza, non sull'aggressione. Qui, invece, On the Beach spinge attivamente il giocatore a liberare avamposti nemici sparando a chiunque, senza remore né conseguenze significative. Le CA (le Creature Arenate), che erano il fulcro della tensione horror e stealth del primo capitolo, qui perdono quasi del tutto il loro ruolo minaccioso. Diventano un ostacolo marginale, un fastidio facilmente aggirabile o neutralizzabile, e il terrore che incutevano è solo un pallido ricordo.

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Questa semplificazione posso dire che si riflette in modo ancora più evidente nella pianificazione delle consegne, il cuore del gameplay originale. Sebbene sia ancora possibile studiare il meteo, l'attrezzatura e il percorso, ho attraversato gran parte della mappa dell'Australia a bordo di un veicolo senza mai incontrare le difficoltà quasi insormontabili che rendevano ogni viaggio nel primo gioco un'epopea strategica, una lotta contro la fisica e l'ambiente. La gestione della batteria, l'incompatibilità del terreno, il rischio di danneggiare il carico, tutto sembra attenuato. Più che un corriere che sfida la natura, in On the Beach mi sono sentito un soldato motorizzato che si sposta da un punto A a un punto B. Una trasformazione che, personalmente, non desideravo e che priva il gioco di quella componente meditativa e strategica che lo rendeva unico. L'albero delle abilità e i sistemi di potenziamento, seppur più stratificati, non riescono a compensare questa perdita di identità.

Rimane comunque fondamentale il Social Strand System che consente di "collaborare" con altri giocatori per costruire ponti, attrezzatura e quindi facilitarsi la vita a vicenda. Positivo anche il sistema abilità APAS introdotto che dona una serie di skill utile per affrontare il mondo di gioco in maniera più efficace.

Un gioiello tecnico e artistico

Dove il gioco non delude, ma anzi sbalordisce e stabilisce nuovi standard per l'industria, è nel comparto tecnico e artistico. Graficamente, Death Stranding 2: On the Beach è semplicemente inarrivabile, un'autentica opera d'arte digitale. Il Decima Engine, spinto ai suoi limiti massimi, raggiunge vette di fotorealismo impressionanti, gestendo un mondo di gioco enorme, aperto e variegato con una cura per il dettaglio che lascia senza fiato sia nella modalità a 30fps sia in quella a 60fps. La modellazione dei personaggi è di una qualità sbalorditiva; le espressioni facciali, animate da una motion capture impeccabile, comunicano ogni minima sfumatura emotiva, rendendo le performance attoriali ancora più potenti.

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La direzione artistica di Yoji Shinkawa è sublime. Il nuovo continente australiano offre paesaggi mozzafiato, alternando deserti di sabbia nera a canyon rocciosi e foreste lussureggianti, il tutto dominato da un'estetica fantascientifica coerente e affascinante. Assistere a una tempesta di sabbia che oscura il cielo o a una valanga che si stacca da una montagna è un'esperienza visiva incredibile, anche se, come detto, il loro impatto sul gameplay è più estetico che funzionale. Ogni texture, ogni effetto di luce, ogni animazione contribuisce a creare un mondo tangibile e immersivo che sfiora il fotorealismo in più di un'occasione.

Anche la colonna sonora, curata da Woodkid, si dimostra eccellente. Dopo un inizio che, forse, non mi aveva colpito con la stessa immediatezza del primo capitolo, la selezione musicale cresce in modo esponenziale, fino a raggiungere picchi di assoluta magnificenza nelle fasi finali, sposandosi perfettamente con la narrazione e la direzione artistica. Le canzoni su licenza, scelte con il gusto impeccabile che contraddistingue Kojima, sono ancora una volta perfette per accompagnare i lunghi viaggi solitari, amplificando il senso di malinconia e speranza.

  • Una narrazione a due velocità
  • Il corriere diventato soldato
  • Un gioiello tecnico e artistico
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